Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 6949 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 6949 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 15/03/2025
ORDINANZA
sul ricorso n. 29609/2019 r.g. proposto da:
COGNOME Rosario, titolare della ditta individuale RAGIONE_SOCIALE di COGNOME Rosario, elettivamente domiciliato in Roma, INDIRIZZO presso lo studio dell’Avv. NOME COGNOME rappresentato e difeso dall’Avv. NOME COGNOME il quale chiede di ricevere le comunicazioni al proprio indirizzo di posta elettronica certificata indicato.
-ricorrente –
contro
Comune di Gravina di Catania, in persona del suo legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avv. NOME COGNOME in virtù di procura speciale rilasciata su foglio separato in calce al controricorso, il quale dichiara di voler ricevere le comunicazioni relative al presente procedimento all’indirizzo di posta elettronica certificata indicato.
– controricorrente –
avverso la sentenza della Corte di appello di Catania, n. 1741/2019, depositata in data 16/7/2019;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 26/11/ 2024 dal Consigliere dott. NOME COGNOME
RILEVATO CHE:
Con contratto del 25/7/2007 il Comune di Gravina aggiudicava all’impresa RAGIONE_SOCIALE di NOME COGNOME i lavori di prevenzione incendi presso la scuola elementare Rodari, per l’importo di euro 237.296,71.
La consegna dei lavori avveniva il 10/9/2007, con l’immissione dell’impresa appaltatrice nel possesso dei locali destinatari dell’intervento edilizio, certificando che «il sito su cui dovevano eseguirsi lavori era libero da persone e/o cose senza che c’erano impedimenti alcuni per l’avvio e per la prosecuzione dei lavori stessi».
Con la nota delle 4/10/2007 dell’impresa si evidenziava che il sito era occupato.
Con la nota del Comune del 22/10/2007 si comunicava che erano disponibili: i lavori esterni e locali; i lavori interni del corpo M; mentre per i lavori relativi ai corpi A, B e C, sarebbero stati effettuati con sequenza per corpo e piano.
Con note del 15/11/2007 e del 23/11/2007 l’impresa formulava osservazioni per carenze progettuali.
Con ordine di servizio del direttore dei lavori n. 1 del 20/12/2007 veniva fissata la data per l’inizio e lavori al 10/1/2008.
Pertanto, parte dei lavori sarebbe iniziata il 10/1/2008, mentre altra parte dei lavori sarebbe iniziata al termine dei primi.
Il 2/1/2008 l’impresa rilevava l’indisponibilità dell’area e l’aggravio dei costi per la consegna frazionata, chiedendo la risoluzione del contratto.
Il direttore dei lavori con verbale del 7/1/2008 dichiarava l’inesistenza di cause ostative.
Il 10/1/2008 iniziano i lavori alle ore 7,30, ma veniva subito disposta la sospensione degli stessi alle ore 8,00, per l’intervento dei Carabinieri, chiamati dal preside dell’istituto scolastico, in assenza delle necessarie misure di sicurezza.
Nella «breve esecuzione dei lavori l’impresa provvedeva alla rimozione delle porte interne delle aule ed alla rimozione del pavimento all’interno dell’aula magna (precisa l’appellante che si trattava di lavori indicati ai punti 1 e 2 dell’ordine di servizio del 20/12/ 2007)».
Il Comune di Gravina notificava atto di citazione del 13/2/2008 nei confronti dell’impresa.
Con la determina n. 3 del 2/4/2008 il dirigente dell’ufficio tecnico comunale intimava la risoluzione del contratto, tra l’altro, per omissione delle misure di sicurezza.
L’impresa proponeva domanda riconvenzionale di risoluzione del contratto per grave inadempimento del Comune.
Il Tribunale, dopo l’espletamento di una CTU, rigettava sia la domanda «principale» del Comune di Gravina (cfr. pagina 11 del ricorso per cassazione), sia la domanda riconvenzionale del Rapisarda.
Proponeva appello il COGNOME lamentando che la risoluzione del contratto intimato dal Comune di Gravina con la determina del responsabile del procedimento n. 3 del 2/4/2008 era illegittima. Evidenziava, invece, che «la condotta del Comune giustificherebbe una pronunzia di risoluzione del contratto per inadempimento del Comune stesso».
Si chiariva che «la pronunzia di primo grado ha rigettato la domanda di risarcimento del danno proposta dal Comune di Gravina di Catania e la statuizione è, sul tale capo, passata in giudicato perché non appellata».
La sentenza appellata, invece, aveva anche accertato l’inadempimento di COGNOME, rigettando le relative domande.
Pertanto, l’appellante chiedeva di accogliere le domande dirette a dimostrare: a) di legittimità della risoluzione intimata dal Comune; b) l’inadempimento del Comune di Gravina con conseguente risoluzione del contratto; c) la fondatezza della domanda risarcitoria.
3.1. Restava contumace il Comune di Gravina.
La Corte d’appello di Catania, con sentenza n. 1741 del 2019, pubblicata il 16/7/2019, rigettava l’appello di COGNOME.
In particolare, il giudice di prime cure si era limitato ad escludere l’inadempimento del Comune con l’espressione «non consta che l’ente abbia parimenti violato il contratto».
Tuttavia, il Tribunale aveva riconosciuto l’inadempimento dell’impresa, poiché, «secondo quanto accertato dal CTU consta che l’impresa si è resa inadempiente a vari obblighi contrattuali, tenendo un comportamento non conforme al canone della buona fede nell’esecuzione del contratto e culminato in una condotta del tutto incoerente con le ragioni fino a quel momento invocate per non iniziare le esecuzione della prestazione».
La Corte territoriale rilevava che la sentenza impugnata aveva «del tutto omesso ogni considerazione in merito alla gravità dell’inadempimento attribuito all’appaltatore».
Tuttavia, la sentenza di primo grado doveva essere confermata, seppur con diversa motivazione.
In particolare, il responsabile del procedimento nella determinazione di risoluzione n. 3 del 2/4/2008 aveva contestato che «(come risulta dalla relazione di servizio dei Carabinieri intervenuti, versata in atti) ‘…Procedeva alle lavorazioni in difformità delle più elementari misure di sicurezza quali la transennatura, l’uso dei dispositivi di protezione individuale, la totale assenza di cartellonistica di cantiere ciò in dispregio delle normative vigenti…’», nonché «il mancato rispetto
dell’ordine dei lavori indicato nell’ordine di servizio n. 1 posto che la rimozione delle porte delle aule non era contemplata nei punti 1), 2) e 3) dell’ordine di servizio (che individuavano le lavorazioni da iniziare il giorno 10/1/2008)».
Era sicuramente avvenuta l’omessa adozione delle misure di sicurezza contestata all’impresa «sia perché accertata dei Carabinieri intervenuti, sia perché di fatto ammessa dall’appaltatore quando afferma riferendosi alla condotta del committente ‘…è stata trovata la pagliuca nell’occhio del Rapisarda (i lavoratori erano sprovvisti dei dispositivi di protezione individuale o mancava il cartello), senza notare la trave presente nell’occhio della stazione appaltante’».
Per la Corte territoriale, dunque, le omissioni riferite e riscontrate «nell’approntamento delle misure di sicurezza e nel mancato rispetto dell’ordine dei lavori rappresentano, all’evidenza, un inadempimento contrattuale dell’appaltatore occorre valutarne l’incidenza sull’equilibrio contrattuale».
Per la Corte d’appello, quindi, da un lato, non v’era prova alcuna delle giustificazioni che l’impresa avrebbe fornito ai Carabinieri, essendo irrilevante il fatto che non fosse stata elevata sanzione per violazione della normativa sulla sicurezza, e dall’altro, l’importanza degli obblighi di sicurezza nell’ambito dell’esecuzione di un contratto d’appalto era «testimoniata dalle numerosissime disposizioni che le normative di settore contemplano», tanto che «la commissione di gravi infrazioni alle norme in materia di sicurezza determina l’esclusione dalle gare pubbliche di appalto (cfr. art. 38, co. 1, lett. e, D.Lgs. 163/06)».
Pertanto, sotto il profilo «obiettivo/qualitativo», l’inadempimento ascritto all’appaltatore colpiva «una prestazione di cruciale importanza cui era obbligato ed incide, dunque, in modo serio sull’equilibrio contrattuale».
Tale inadempimento assumeva «connotati di indubbia evidenza gravità», in quanto trattavasi di un’Amministrazione pubblica, ed i lavori «venivano svolti all’interno di una scuola (e proprio per tale ragione l’ordine di servizio imponeva una precisa tempistica nella esecuzione delle opere che la rendesse compatibile con l’attività didattica in corso)».
Tale inadempimento, allora, risultava ledere in misura più che apprezzabile l’interesse dell’Amministrazione e faceva ritenere, da un lato, «che l’attrice non avrebbe stipulato il contratto ove avesse saputo dell’inadempimento cui andava incontro» e, dall’altro, «che esso incide in maniera intollerabile sull’equilibrio contrattuale disegnato dalle parti in sede di stipula, facendo del tutto venir meno la fiducia verso la controparte contrattuale».
Proseguiva la Corte d’appello sottolineando che, seppure i lavori fossero iniziati da poco più di un’ora, il 10/1/2008, tuttavia «gli obblighi relativi alla sicurezza devono essere assolti prima dell’inizio dell’esecuzione».
Inoltre, quanto alla rimozione delle porte delle aule, in violazione dell’ordine dei lavori previsto dall’ordine di servizio, appariva «una condotta intenzionalmente posta in essere al fine disattendere la volontà del committente».
Quanto alla doglianza della appaltatrice per la asserita consegna frazionata dei lavori, la Corte territoriale rilevava che «l’impresa ebbe ad accettare la consegna dei lavori senza eccepire alcunché», mentre nella fattispecie occorreva concludere che «a) non vi è stato un frazionamento della consegna lavori in senso tecnico e ciò esclude in nuce la fondatezza della tesi dell’equivalenza consegna frazionatamancata consegna; b) la mancata disponibilità dell’intera area appare fatto scarsamente rilevante nell’economia del rapporto negoziale anche alla luce della puntuale tempistica e scalettatura dell’esecuzione dei lavori contenuta nell’ordine di servizio n. 1 che appare
del tutto compatibile con una corretta esecuzione del contratto d’appalto stipulato tra le parti».
La necessità di eseguire i lavori in modo scaglionato nei vari ambienti della scuola, «avrebbe al più – ed in via di mera ipotesi – potuto determinare un maggior aggravio ‘esecutivo’ per l’impresa». Ciò avrebbe potuto trovare contemperamento «con l’esecuzione dell’opera mediante l’apposizione di apposita riserva». Non potendo giustificare la condotta tenuta dall’impresa nell’esecuzione dei lavori.
Risultava, dunque, legittima la risoluzione del contratto intimata dal committente all’appaltatore con la determinazione del responsabile del procedimento n. 3 del 2/4/2008. Altrettanto corretto risultava l’esercizio dell’escussione della fideiussione prestata da Lloyd Adriatico.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione NOME COGNOME depositando anche memoria scritta.
Ha resistito con controricorso il Comune di Gravina.
CONSIDERATO CHE:
Con il primo motivo di impugnazione il ricorrente deduce la «violazione e falsa applicazione degli articoli 99,112, c.p.c., 342, 2º comma, e 345 del c.p.c., 324 c.p.c., con riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3 e n. 4, c.p.c.».
In particolare, la Corte territoriale avrebbe violato il principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, poiché il potere-dovere del giudice di qualificare giuridicamente l’azione, anche in difformità rispetto alle deduzioni delle parti, trova un limite «nel divieto di sostituire l’azione proposta con una diversa, perché fondata su fatti diversi o su una diversa causa petendi ».
7 RG n. 29609/2019 Cons. Est. NOME COGNOME Ad avviso del ricorrente la sentenza di primo grado aveva respinto la domanda del Comune per inesistenza del danno, rigettando la domanda del Rapisarda e reputando legittima la risoluzione del
contratto per il suo inadempimento «soltanto per violazione del canone della buona fede contrattuale per avere iniziato i lavori sebbene in precedenza ne avesse contestato l’inizio».
Sempre a giudizio del ricorrente il Tribunale avrebbe escluso «dalle cause di risoluzione del contratto, la violazione delle norme sulla sicurezza, ritenendo non provata dalle violazione».
Ciò sarebbe desumibile «sia dal fatto che lo stesso Tribunale ebbe a rigettare la prova testimoniale richiesta dal Comune di Gravina per dimostrare tale presunta violazione», sia «dalla mancata prova delle violazioni delle norme sulla sicurezza, atteso che, con il verbale redatto dei Carabinieri, questi non hanno accertato o constatato che l’impresa operasse in violazione delle norme sulla sicurezza, ma si sono limitati a ricevere le dichiarazioni del dirigente scolastico, il quale dichiarava che l’impresa operava non osservando le norme sulla sicurezza e senza autorizzazione».
In sostanza, dunque, «la mancata costituzione del Comune nel giudizio di appello ha determinato la formazione del giudicato interno su tale capo della sentenza, con preclusione per il giudice di appello di qualificare diversamente il fatto giuridico».
La Corte avrebbe potuto riqualificare fatto giuridico se ci fosse stata una censura motivata da parte del Comune, ma la contumacia dello stesso avrebbe «determinato la formazione del giudicato interno sull’aspetto relativo alla mancata violazione delle norme sulla sicurezza».
Per il ricorrente la questione relativa alla violazione delle norme di sicurezza «rappresentava uno dei motivi richiamati dal Comune tra le cause di risoluzione del contratto e, quindi, tale circostanza rappresentava un capo della sentenza, avente una propria rilevanza ed autonomia».
Pertanto, poiché il giudice aveva escluso dalle cause della risoluzione del contratto la contestata violazione delle norme sulla sicurezza, ne derivava «l’illegittimità della decisione della Corte etnea per violazione del giudicato interno formatosi sulla vicenda».
Con il secondo motivo di impugnazione il ricorrente lamenta la «violazione dell’art. 112, 99, 112, 324, 342, 2º comma, 345 e 324 c.p.c.; violazione dell’art. 24 della Costituzione con riferimento all’art. 360, primo comma, n. 4, per i profili di nullità e con riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, per i profili di violazione di legge».
La sentenza della Corte d’appello sarebbe nulla per un vizio che «lede la regolare costituzione del contraddittorio e il diritto di difesa del ricorrente».
La contumacia del Comune di Gravina in sede di appello avrebbe «determinato l’acquiescenza ai capi della sentenza di primo grado che hanno escluso la legittimità della risoluzione del contratto di appalto per motivi diversi dalla violazione delle regole della buona fede contrattuale, e precisamente nella condotta del tutto incoerente alle ragioni fino a quel momento invocate per non iniziare le esecuzione del contratto (e tra questi i motivi attinenti alla violazione delle regole sulla sicurezza sui luoghi di lavoro)».
La diversa qualificazione giuridica del fatto operata dal giudice d’appello avrebbe «compromesso il diritto alla difesa del ricorrente» il quale non avrebbe potuto «rivendicare il diritto a provare, per come aveva fatto nel corso del giudizio di primo grado, l’inesistenza della violazione alla normativa sulla sicurezza contestata».
La violazione della normativa sulla sicurezza – a giudizio del ricorrente – «non è stata riconosciuta dal giudice di primo grado come causa della risoluzione del contratto d’appalto, stante l’inesistenza di
un accertamento sulla violazione delle norme sulla sicurezza, basandosi tale presunzione di violazione sulla dichiarazione del dirigente scolastico, verbalizzate dai Carabinieri».
Tale questione, risolta negativamente dal giudice di prime cure, non sarebbe stata «riproposta nel giudizio di appello» da parte del Comune, rimasto contumace.
I primi due motivi di impugnazione, che vanno esaminati congiuntamente per strette ragioni di connessione, sono infondati.
3.1. In sostanza, il ricorrente reputa che si sia formato il giudicato interno sulla mancata violazione delle norme di sicurezza da parte dell’impresa RAGIONE_SOCIALE
A giudizio del ricorrente, infatti, il Tribunale di prime cure avrebbe escluso categoricamente, tra le cause della risoluzione del contratto di appalto, quella concernente la violazione da parte dell’impresa della normativa in tema di sicurezza nei luoghi di lavoro.
Poiché, poi, il Comune di Gravina era rimasto contumace nel giudizio di appello, introdotto dalla Scavoter, risultava passata in giudicato la porzione della decisione del Tribunale di prime cure relativa alla sussistenza della violazione della normativa sulla sicurezza nei luoghi di lavoro.
In realtà, però, dagli stralci della motivazione del giudice di prime cure, riportate nel ricorso per cassazione non emerge in alcun modo che il Tribunale abbia escluso la violazione della normativa in tema di sicurezza sul lavoro.
L’impresa RAGIONE_SOCIALE, nel motivo di ricorso per cassazione, si limita ad evidenziare che «disposta consulenza tecnica, il CTU, dopo due anni dall’inizio delle operazioni peritali, ha depositato una relazione di una pagina, con la quale dichiarava: che sussiste responsabilità dell’impresa appaltatrice per avere omesso di dare comunicazione ufficiale dell’inizio lavori e di non avere rispettato l’ordine di
servizio n. 1 e le più elementari norme sulla sicurezza sul lavoro» (cfr. pagine 9 e 10 del ricorso per cassazione di COGNOME).
Il ricorrente richiama poi la sentenza n. 759 del 2014 del Tribunale di Catania che «ha rigettato sia la domanda principale del Comune di Gravina, sia la domanda riconvenzionale del signor COGNOME compensando le spese del giudizio».
Subito dopo il ricorrente aggiunge che «con la sentenza di primo grado, il giudice unico del Tribunale di Catania, alla pagina due, ultimo capoverso, riporta quanto dichiarato dal CTU, e precisamente di avere appreso della violazione della normativa sulla sicurezza solo dagli atti forniti dal Comune (ordine di servizio e verbale dei Carabinieri) e dalle dichiarazioni del direttore dei lavori, senza ritenere tale circostanza di fatto una causa della risoluzione del contratto o comunque una fonte di responsabilità dell’impresa» (cfr. pagina 17 del ricorso per cassazione).
Nella nota n. 6 di pagina 17 del ricorso per cassazione il ricorrente riporta anche le dichiarazioni del CTU, per le quali «il giorno 10/1/2018, (l’impresa ha) iniziato i lavori senza espletare gli adempimenti propedeutici necessari e relativi alla sicurezza (transenne, cartellonistica ecc.). Il sottoscritto CTU, non essendo presente in quella data, non può fare altro che affermare quanto sopra detto, sulla base della documentazione in atti, consistenti nelle dichiarazioni rese dal D.L. e contenute nell’ordine di servizio n. 2 e sulla base del verbale redatto dei Carabinieri».
Aggiunge il ricorrente che «il giudice di primo grado ha ritenuto (pagina 11 rigo 22) che la fonte della responsabilità dell’impresa non è individuabile nella violazione delle regole sulla sicurezza sui luoghi di lavoro, ma sulla violazione del canone della buona fede contrattuale per avere iniziato i lavori sebbene in precedenza ne avesse contestato l’inizio».
Tuttavia, dalle sommarie trascrizioni del contenuto della motivazione della sentenza di primo grado non emerge in alcun modo che il Tribunale abbia escluso il grave inadempimento dell’impresa RAGIONE_SOCIALE in relazione alla violazione della normativa sulla sicurezza nei luoghi di lavoro.
Anzi, dal controricorso del Comune di Gravina emerge esattamente il contrario laddove si legge che «anche il giudice di primo grado aveva fatto proprio, nella motivazione della sentenza, un passo dell’espletata CTU, premettendo che: ‘il nominato perito ha con sicurezza di metodo e affidabilità di risultati – accertato quanto segue .
Veniva dunque riportato e trascritto testualmente il contenuto delle affermazioni del CTU, ossia che «il giorno 10/1/2008, iniziato i lavori senza espletare gli adempimenti propedeutici necessari e relativi alla sicurezza (transenne, cartellonistica, etc.). Il sottoscritto CTU, non essendo presente in quella data, non può far altro che affermare quanto sopra detto, sulla base della documentazione in atti, consistente nelle dichiarazioni rese dal D.L. e contenute nell’Ordine di Servizio n. 2 e sulla base del Verbale redatto dai Carabinieri che sono intervenuti sui luoghi nello stesso giorno (Allegato 8 ed Allegato 9) in tali documenti si legge che lavoratori non erano provvisti dei necessari dispositivi di Protezione Individuale (D.P. 1), previsti dalla normativa vigente sulla sicurezza nei luoghi di lavoro (D.L. n. 81/08 e s.m.i.) e che l’impresa non aveva apposto i necessari cartelli né aveva provveduto a transennare l’area interessato dalle lavorazioni».
Il Tribunale, poi, concludeva infine che «l’impresa si è resa inadempiente a vari obblighi contrattuali (tra cui, evidentemente, anche quello relativo alle misure di sicurezza nel luogo di lavoro n.d.a.)».
Va escluso, in radice, dunque che il Tribunale di Catania abbia escluso dalle cause di risoluzione del contratto la violazione delle norme sulla sicurezza.
Peraltro, la responsabilità per la violazione della normativa in tema di sicurezza sul lavoro è a carico dell’impresa appaltatrice.
Per questa Corte, infatti, in materia di appalto, la responsabilità per la violazione dell’obbligo di adottare le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica dei prestatori di lavoro si estende al committente solo ove lo stesso si sia reso garante della vigilanza relativa alla misura da adottare in concreto e si sia riservato i poteri tecnico organizzativi dell’opera da eseguire (Cass., sez. L, 28/10/2009, n. 22818; Cass., sez. 2, 1/2/1994, n. 967).
5. Con il terzo motivo di impugnazione il ricorrente deduce la «nullità della sentenza per violazione dell’obbligo della motivazione ex art. 132, primo comma, n. 4, c.p.c., e art. 111, 6º comma, della Costituzione, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4 – omesso esame su un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti con riferimento all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c. – violazione dell’art. 115 c.p.c., con riferimento all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c.».
La Corte d’appello ha affermato che l’omessa adozione delle misure di sicurezza contestata dall’impresa deve reputarsi avvenuta, in quanto accertata dai Carabinieri intervenuti, sia perché «di fatto ammessa dall’appaltatore quando afferma riferendosi alla condotta del committente ‘stata trovata la pagliuca nell’occhio del Rapisarda’».
In realtà, la Corte d’appello avrebbe commesso un grave errore di percezione, sia nella ricognizione del fatto (accertamento della violazione delle norme sulla sicurezza), per avere ritenuto detto accertamento effettuato dei Carabinieri, sia per aver posto a base della decisione «una prova immaginaria (violazione ammessa di fatto dallo
appaltatore), ritenendo come prova un’espressione usata dal difensore del COGNOME nell’esercizio del diritto di difesa giudiziale».
Si sarebbe in presenza, dunque, di una «prova inesistente o immaginaria», censurabile ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, per violazione dell’art. 115 c.p.c.
5.1. Inoltre, a pagina 30 del ricorso per cassazione, il ricorrente individua un sub motivo, indicato come 3.a), «sull’accertamento della violazione delle norme sulla sicurezza».
Si sottolinea che, quanto all’accertamento dei Carabinieri del 10/ 1/2008, in realtà non vi sarebbe stato accertamento della sussistenza delle violazioni in materia di sicurezza, ma nel verbale dei Carabinieri si sarebbe riportata esclusivamente la segnalazione del dirigente scolastico prof. NOME COGNOME«a seguito di segnalazione fatta dal dirigente scolastico prof. COGNOME NOME siamo intervenuti presso il circolo didattico Rodari dove erano stati segnalati inizio dei lavori edili da parte della ditta in assenza di autorizzazione operai della ditta RAGIONE_SOCIALE avevano dato inizio con i propri mezzi edili, lavori per la messa in sicurezza della scuola alla normativa antincendio. Gli stessi però procedevano ai suddetti lavori in difformità delle più elementari misure di sicurezza, quali ad esempio la transennatura, l’uso dei dispositivi di protezione individuale, la cartellonistica di cantiere ecc., incuranti dell’invito del dirigente scolastico di sospendere le attività in attesa dell’arrivo dei tecnici comunali»).
Pertanto, in realtà, i Carabinieri non avevano contestato alcunché alla ditta RAGIONE_SOCIALE
Tra l’altro, il giudice di prime cure non aveva ammesso la prova testimoniale relativa alla violazione della normativa sulla sicurezza.
Era poi errata l’affermazione della Corte d’appello per cui le misure di sicurezza dovevano essere attuate prima dell’inizio lavori.
Sarebbe stata apparente la motivazione della Corte territoriale «quando afferma che gli obblighi relativi alla sicurezza devono essere assolti prima dell’esecuzione».
5.2. Altro sub motivo veniva articolato dalla ricorrente a pagina 30 del ricorso per cassazione, 3.b, «sul riconoscimento della violazione delle norme sulla sicurezza».
La Corte d’appello avrebbe errato nel reputare una ammissione da parte del difensore dell’impresa RAGIONE_SOCIALE, peraltro indicando pagina 32 dell’atto di appello, mentre trattavasi di pagina 32 della comparsa conclusionale, destinata esclusivamente ad argomentazioni difensive.
Anche in questo caso la motivazione della Corte territoriale sarebbe apparente, «intesa nel suo significato di motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile».
6. Il motivo è inammissibile.
In realtà, infatti, la motivazione della sentenza della Corte d’appello è esistente, non solo nella sua parte grafica, ma anche nella precisa indicazione delle argomentazioni logico-giuridiche utilizzate dalla Corte d’appello per pervenire alla soluzione della controversia in esame.
Inoltre, il ricorrente chiede, in sostanza, a questa Corte una nuova valutazione degli elementi istruttori, già compiutamente effettuata dal giudice di 2º grado, non consentita in questa sede.
Risulta del tutto chiaro il ragionamento della Corte d’appello, anche in relazione ai due sub motivi articolati dal ricorrente.
Già solo leggendo la trascrizione del verbale di accertamento dei Carabinieri del 10/1/2008 risulta che la Corte d’appello ha correttamente ritenuto sussistere la violazione delle norme in materia antinfortunistica sui luoghi di lavoro.
Ed infatti, la Corte territoriale, con precisa e completa motivazione, ha evidenziato che il responsabile del procedimento nella determinazione di risoluzione del contratto di appalto del 2/4/2008 ha contestato proprio la mancanza di rispetto della normativa in tema di sicurezza sui luoghi di lavoro, come risultava dalla relazione di servizio dei Carabinieri intervenuti.
Si leggeva, dunque, nella relazione del responsabile del procedimento che l’impresa RAGIONE_SOCIALE «procedeva alle lavorazioni in difformità delle più elementari misure di sicurezza quali la transennatura, l’uso dei dispositivi di protezione individuale, la totale assenza di cartellonistica di cantiere ciò in dispregio delle normative vigenti».
Allo stesso modo, la violazione della normativa in tema di infortuni sul lavoro è stata ammessa anche dal difensore dell’impresa RAGIONE_SOCIALE, come correttamente rilevato dalla Corte d’appello, avendo affermato il difensore che «è stata trovata la pagliuca nell’occhio del Rapisarda (i lavoratori erano sprovvisti dei dispositivi di protezione individuale o mancava il cartello), senza notare la trave presente nell’occhio della stazione appaltante».
Costituisce, infatti, principio giurisprudenziale consolidato quello per cui le ammissioni contenute negli scritti difensivi, sottoscritti unicamente dal procuratore ” ad litem “, costituiscono elementi indiziari liberamente valutabili dal giudice per la formazione del suo convincimento. Esse, tuttavia, possono assumere anche il carattere proprio della confessione giudiziale spontanea, alla stregua di quanto previsto dagli artt. 228 e 229 c.p.c., qualora l’atto sia stato sottoscritto dalla parte personalmente, con modalità tali che rivelino inequivocabilmente la consapevolezza delle specifiche dichiarazioni dei fatti sfavorevoli in esso contenute (Cass., sez. 2, 28/9/2018, n. 23634).
16 RG n. 29609/2019 Cons. Est. NOME COGNOME Pertanto, le dichiarazioni contenute nella comparsa di risposta, contenenti affermazioni relative a fatti sfavorevoli al proprio rappresentato e favorevoli all’altra parte, non hanno efficacia di confessione
ma possono soltanto fornire elementi indiziari qualora l’atto sia sottoscritto dal difensore e non dalla parte personalmente (Cass., sez. 1, 27/2/2017, n. 4908).
Ciò vale anche per le dichiarazioni rinvenute nelle comparse conclusionali. Si è affermato, infatti, che le dichiarazioni del difensore sfavorevoli al proprio assistito se inserite in atti non qualificabili di “parte” (quali le memorie illustrative, le comparse conclusionali e di replica) possono essere utilizzate come elementi indiziari, valutabili ai sensi e alle condizioni dell’art. 2729 cod. civ., qualora siano contenute invece in atti di parte, recanti anche la sottoscrizione del diretto interessato (quali l’atto d’appello che reca la sottoscrizione della parte apposta in calce al mandato al difensore) esse hanno valore di confessione giudiziale, essendo qualificate dall'” animus confitendi ” ed indirizzate alla controparte (Cass., sez. 2, 1/12/1992, n. 12830).
La Corte d’appello, inoltre, con pieno accertamento meritale, ha ritenuto particolarmente grave la condotta dell’impresa appaltatrice, che non aveva rispettato le regole sulla sicurezza nei luoghi di lavoro, trattandosi nella specie di una stazione appaltante che era «un’amministrazione pubblica», mentre i lavori «venivano svolti all’interno di una scuola (e proprio per tale ragione l’ordine di servizio imponeva una precisa tempistica nell’esecuzione delle opere che la rendesse compatibile con l’attività didattica in corso)».
Altrettanto corretta è l’affermazione della Corte d’appello per cui «gli obblighi relativi alla sicurezza devono essere assolti prima dell’inizio dell’esecuzione».
Attiene pure ad una valutazione di pieno merito l’ulteriore affermazione della Corte territoriale per cui «quanto alla rimozione delle porte delle aule – come detto in violazione dell’ordine dei lavori previsto dall’ordine di servizio – appare una condotta intenzionalmente posta in essere al fine di disattendere la volontà del committente».
La circostanza che non si trattasse di una vera e propria consegna frazionata dei lavori risulta univocamente dall’affermazione, anch’essa del tutto intrisa di valutazioni di merito, per cui «non vi è stato un frazionamento della consegna lavori in senso tecnico e ciò esclude in nuce la fondatezza della tesi dell’equivalenza consegna frazionata-mancata consegna», mentre «la mancata disponibilità dell’intera area appare fatto scarsamente rilevante nell’economia del rapporto negoziale anche alla luce della puntuale tempistica e scalettatura dell’esecuzione dei lavori contenute nell’ordine di servizio n. 1 che appare del tutto compatibile con una corretta esecuzione del contratto di appalto stipulato tra le parti».
7. Con il 4º motivo di impugnazione il ricorrente lamenta la «violazione e falsa applicazione degli articoli 45, 128, 129, 130, 131 e seguenti del d.P.R. n. 554/1999, dell’art. 9 del D.M. n. 145 del 19/4/ 2000, con riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3 – omessa motivazione per avere omesso di prendere in esame ‘una o più delle questioni giuridiche sottoposte”, con riferimento all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c.».
La Corte d’appello ha escluso ogni responsabilità a carico del Comune sia sulla mancata disponibilità dell’area di cantiere, in quanto v’è stata accettazione senza riserva della consegna da parte dell’appaltatore, sia sulle modalità di esecuzione dell’appalto, ritenendo che l’ordine di servizio n. 1 del 20/12/2007 non sia espressione di un frazionamento della consegna, ma un elemento compatibile con una corretta esecuzione dei lavori.
Per la Corte territoriale non vi sarebbe responsabilità della stazione appaltante in quanto l’impresa appaltatrice ha accettato la consegna dei lavori senza eccepire alcunché. Non c’è stato un frazionamento della consegna dei lavori in senso tecnico. La mancata disponibilità dell’area appare fatto scarsamente rilevante nell’economia del rapporto contrattuale.
Ad avviso della ricorrente, però, la Corte d’appello non ha «fatto buon governo delle norme e dei principi giurisprudenziali della suprema Corte, in ordine alla consegna dell’area e al dovere di cooperazione della stazione appaltante sulla corretta esecuzione dei lavori».
Per l’impresa l’elemento essenziale della consegna dei lavori è il passaggio all’appaltatore della «disponibilità dell’intera area dove eseguire l’opera pubblica», poiché da quel momento l’appaltatore diventa custode delle cose che gli sono state consegnate.
La Pubblica Amministrazione, dunque, dopo la consegna, deve assicurare l’effettiva disponibilità dei luoghi all’appaltatore durante tutto il tempo dell’esecuzione dei lavori.
Nel caso in cui, invece, nel corso dei lavori venga meno tale effettiva disponibilità, anche senza colpa del committente, «è questi che deve rispondere dei danni derivanti dall’eventuale sospensione dei lavori».
Pertanto, vi sarebbe una duplice responsabilità del Comune di Gravina, sia per avere consegnato il bene, quando la scuola era vuota, durante il periodo estivo, «facendo sorgere la falsa apparenza materiale della disponibilità del bene», sia per non essersi attivato per rimuovere gli ostacoli che impedivano all’appaltatore di avere la disponibilità del bene, «mantenendo la scuola perfettamente funzionante e, quindi, senza attivarsi per liberare la scuola dei mobili e suppellettili, oppure liberando una parte delle aule per concentrare le lezioni in altre aule o istituendo doppi turni, al fine di consentire all’impresa una rapida esecuzione dei lavori».
19 RG n. 29609/2019 Cons. Est. NOME COGNOME L’unica attività posta in essere dal Comune, ad avviso del ricorrente, sarebbe stata quella di emettere «l’ordine di servizio n. 1, con il quale si limitava a dare disposizioni su piccole quantità di lavoro senza curarsi dell’organizzazione di tutti i lavori necessari all’esecuzione dell’appalto e della sicurezza all’interno dell’istituto, dove le
lezioni proseguivano regolarmente, con il personale con immobili esistenti».
Per tale ragione – precisa il ricorrente – «appare profondamente ingiusta la sentenza della Corte etnea quando, senza alcuna motivazione o meglio con motivazione apparente, ritiene il problema della consegna risolto per il solo fatto che l’impresa abbia firmato la consegna senza riserva, premiando, così, chi con artifizi era riuscito a fornire una falsa apparenza materiale (quella della disponibilità dei locali), consegnando l’istituto durante il periodo estivo».
Il Comune, dunque, non avrebbe cooperato «al fine di porre l’appaltatore nelle condizioni di eseguire la prestazione».
Vi sarebbe stata, peraltro, violazione dell’art. 130, comma 6, del d.P.R. n. 554 del 1999, per cui la consegna è frazionata quando si preveda una temporanea indisponibilità delle aree. Solo in tal caso, e quindi in caso di indisponibilità dell’area, può procedersi alla consegna frazionata, che rappresenta un’ipotesi diversa da quella prevista dalla Corte d’appello, ove vi era stata un’ingerenza del committente, mediante la previsione di un ordine dei lavori.
L’ingerenza sarebbe prevista dall’art. 118 del regolamento n. 827 del 1924, essendo finalizzata la buona esecuzione dei lavori.
L’art. 128, comma 2, del d.P.R. n. 554 del 1999, al tempo vigente, successivamente confermato dall’art. 152 del d.P.R. 207 del 2010, riconosce all’amministrazione il diritto di stabilire l’ordine di esecuzione dei lavori, quando questo non sia regolato dal contratto. L’art. 45, comma 10, del d.P.R. n. 554 del 1999 prevede che il capitolato speciale di appalto prescriva l’obbligo per l’esecutore di presentare, prima dell’inizio dei lavori, un programma esecutivo dettagliato, anche indipendentemente dal crono programma di cui all’art. 40, comma 1, nel quale sono riportate, per ogni lavorazione, le previsioni
circa il periodo di esecuzione, nonché l’ammontare presunto dell’avanzamento dei lavori alle scadenze contrattuali stabilite per la liquidazione del SAL.
Tale attività di ingerenza dell’Amministrazione deve però ispirarsi a criteri di razionalità, in base ai principi della ragionevolezza e normalità, non deve essere tale da sconvolgere il piano esecutivo dell’impresa.
Nel caso in esame, a giudizio del ricorrente, la mancata disponibilità dell’area di cantiere, dopo la formale consegna, ha imposto all’Amministrazione di frazionare le consegne per coprire le mancanze le inefficienze derivanti dal mancato trasferimento della scuola, disponendo l’esecuzione dei lavori in quelle parti della scuola dove non si svolgevano attività didattiche (palestra ed aula magna). In tal modo, però, vi sarebbe stata la violazione delle regole del contratto d’appalto per avere inciso in modo pregnante sull’obbligazione dello appaltatore contratta con la sottoscrizione del contratto, facendo venir meno l’autonomia dell’appaltatore.
Il motivo è inammissibile.
8.1. Anzitutto, si rileva, che la motivazione della sentenza della Corte d’appello è esistente, non solo dal punto di vista grafico, ma anche nella indicazione delle argomentazioni logico-giuridiche utilizzate dalla Corte territoriale per raggiungere alla decisione della presente controversia.
21 RG n. 29609/2019 Cons. Est. NOME COGNOME 8.2. Inoltre, il motivo è inammissibile perché si focalizza sull’omesso esame «di una delle questioni giuridiche sottoposte», in quanto per questa Corte l’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., come riformulato dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, nel cui paradigma non è inquadrabile la censura concernente la omessa valutazione di deduzioni difensive
(Cass., sez. 1, 18/10/2018, n. 26305; Cass., sez. 2, 14/6/2017, n. 14802).
Quanto alla prospettata violazione di legge, si reputa che, in realtà, il ricorrente tenti ancora una volta di richiedere a questa Corte una nuova valutazione degli elementi istruttori, già compiuta in modo esaustivo dal giudice di secondo grado.
9.1. L’art. 130 del d.P.R. n. 554 del 1999, al 6º comma, prevede che «il capitolato speciale dispone che la consegna dei lavori possa farsi in più volte con successivi verbali di consegna parziale quando la natura o l’importanza dei lavori o dell’opera lo richieda, ovvero si preveda una temporanea indisponibilità delle aree o degli immobili. In caso di urgenza, l’appaltatore comincia i lavori per le sole parti già consegnate. La data di consegna a tutti gli effetti di legge è quella dell’ultimo verbale di consegna parziale». Al comma 7 dell’art. 130 citato si stabilisce, poi, che «in caso di consegna parziale l’appaltatore è tenuto a presentare un programma di esecuzione dei lavori che preveda la realizzazione prioritaria delle lavorazioni sulle aree e sugli immobili disponibili».
L’art. 128 (Ordini di servizio) del d.P.R. n. 554 del 1999 dispone che «l’ordine di servizio è l’atto mediante il quale sono impartite tutte le disposizioni e istruzioni da parte del responsabile del procedimento al direttore dei lavori e da quest’ultimo all’appaltatore. L’ordine di servizio è redatto in due copie sottoscritte dal direttore dei lavori emanante e comunicato all’appaltatore che lo restituisce firmato per avvenuta conoscenza». Al comma 2 dell’art. 128 citato si stabilisce che «il responsabile del procedimento impartisce al direttore dei lavori con ordine di servizio le istruzioni occorrenti a garantire la regolarità dei lavori, fissa l’ordine da seguirsi nella loro esecuzione, quando questo non sia regolato dal contratto, e stabilisce, in relazione all’importanza dei lavori, la periodicità con la quale il direttore
dei lavori è tenuto a presentare un rapporto sulle principali attività di cantiere e sull’andamento delle lavorazioni».
Anche l’art. 152 del d.P.R. n. 207 del 2010 disciplina le disposizioni e gli ordini di servizio.
Al primo comma dell’art. 152 si prevede che «il responsabile del procedimento impartisce al direttore dei lavori con la disposizione di servizio le istruzioni occorrenti a garantire la regolarità dei lavori, fissa l’ordine da seguirsi nella loro esecuzione, quando questo non sia regolato dal contratto, e stabilisce, in relazione all’importanza dei lavori, la periodicità con la quale il direttore dei lavori è tenuto a presentare un rapporto sulle principali attività di cantiere e sull’andamento delle lavorazioni».
Al comma 2 dell’art. 152 citato si chiarisce che «nell’ambito delle disposizioni di servizio impartite dal responsabile del procedimento al direttore dei lavori resta di competenza di quest’ultimo l’emanazione di ordini di servizio all’esecutore in ordine agli aspetti tecnici ed economici della gestione dell’appalto».
10. La Corte d’appello ha compiutamente motivato in ordine alla insussistenza di un’obbligazione di consegna frazionata delle opere. In particolare, la Corte territoriale ha chiarito che l’impresa aveva accettato la consegna dei lavori senza eccepire alcunché.
Non vi era stato un frazionamento della consegna dei lavori in senso tecnico, sicché non poteva condividersi la tesi dell’appellante dell’equivalenza ‘consegna frazionata-mancata consegna’.
23 RG n. 29609/2019 Cons. Est. NOME COGNOME Inoltre, la mancata disponibilità dell’intera area era un fatto «scarsamente rilevante nell’economia del rapporto negoziale anche alla luce della puntuale tempistica e scalettatura dell’esecuzione dei lavori contenuta nell’ordine di servizio n. 1 che appare del tutto compatibile con una corretta esecuzione del contratto di appalto stipulato tra le parti», aggiungendo che «per i locali nei quali eseguire i lavori a far data dal 10/1/2008, cioè quelli indicati i punti 1-2 dell’ordine di
servizio n. 1, era prevista dall’ordine di servizio ‘l’occupazione esclusiva’ da parte dell’appaltatore».
Di talché, se ne desume che non v’è stata alcuna ingerenza da parte della committente nel senso di ridurre l’autonomia dell’impresa appaltatrice, ma esclusivamente un’attività di direzione, pienamente consentita dalla legge all’epoca vigente.
Per questa Corte, infatti, i n materia di appalto – ad eccezione dell’ipotesi in cui l’appaltatore sia tenuto, per contratto, ad eseguire il progetto predisposto e le istruzioni ricevute senza alcuna possibilità di ingerenza – la funzione direttiva eventualmente riservata al committente riduce ma non annulla l’autonomia dell’appaltatore, che è una connotazione tipica del contratto di appalto, essendo egli comunque obbligato ad osservare le regole dell’arte e ad assicurare un risultato tecnico conforme alle esigenze del committente (Cass., sez. 2, 31/1/1989, n. 593).
L’autonomia dell’appaltatore scompare soltanto nel caso in cui il committente si sia ingerito nei lavori con le direttive vincolanti, che abbiano ridotto l’appaltatore al rango di nudus minister (Cass., sez. 3, 24/4/2019, n. 11194, in tema di danni cagionati a terzi dall’esecuzione di opere appaltate; Cass., sez. 2, 2/12/2008, n. 28605, in tema di responsabilità dell’appaltatore per gravi difetti ai sensi dell’art. 1669 c.c.).
L’autonomia e, quindi, la responsabilità dell’appaltatore sussiste quando l’ingerenza e le istruzioni del committente nei limiti in autonomia e discrezionalità, tranne il caso in cui questi abbiano una continuità ed una analiticità tali da elidere, nell’esecutore, ogni facoltà di vaglio, in modo che il rapporto di appalto si trasformi, ipso facto , in un rapporto di lavoro subordinato e l’appaltatore in nudus minister del committente (Cass., n. 28605 del 2008).
24 RG n. 29609/2019 Cons. Est. NOME COGNOME Nella specie, la Corte d’appello, invece, si è limitata ad affermare che nell’ordine di servizio n. 1 del 30/12/2007 era stata indicata la
data di inizio dei lavori al 10/1/2008, con l’indicazione delle opere che dovevano essere eseguite prioritariamente.
La deduzione del ricorrente per cui «tale attività di ingerenza dell’amministrazione deve comunque ispirarsi a criteri di razionalità, secondo i principi della ragionevolezza e della normalità, e non deve essere tale da sconvolgere il piano esecutivo dell’impresa», come la successiva deduzione per cui «è evidente che tale attività di ingerenza non deve essere dettata dallo scopo di coprire o attenuare le manchevolezze o insufficienti o intempestive predisposizioni, così non può essere determinata da esigenze proprie dell’amministrazione estranea al suddetto fine», sono entrambe meramente valutative e sono state confutate, con piena valutazione di merito, dalla Corte d’appello.
Le spese del giudizio di legittimità, in ragione del principio della soccombenza, vanno poste a carico del ricorrente e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente a rimborsare in favore del controricorrente le spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in complessivi euro 3.000,00, oltre euro 200,00 per esborsi, rimborso forfettario delle spese generali nella misura del 15%, oltre Iva e cpa.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-q uater del d.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis , dello stesso art. 1, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 26 novembre