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Risoluzione contratto appalto: niente collaudo finale

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 2574/2025, ha stabilito un principio chiave in materia di appalti pubblici. In caso di risoluzione del contratto di appalto per grave inadempimento dell’impresa esecutrice, la stazione appaltante non ha l’obbligo di procedere al collaudo finale dell’opera. La Corte ha chiarito che le norme prevedono, in tale scenario, solo la redazione dello stato di consistenza dei lavori eseguiti, escludendo la procedura di collaudo, la quale presuppone il completamento dell’opera. Di conseguenza, è stata respinta la richiesta di risarcimento danni avanzata dall’impresa per il presunto ritardo nel collaudo.

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Pubblicato il 16 settembre 2025 in Diritto Civile, Giurisprudenza Civile, Procedura Civile

Risoluzione Contratto Appalto: la Stazione Appaltante non è obbligata al collaudo

Una recente ordinanza della Corte di Cassazione chiarisce un aspetto cruciale nella gestione degli appalti pubblici: l’obbligo di collaudo in caso di risoluzione contratto appalto per inadempimento dell’impresa. La Suprema Corte ha stabilito che, in tale scenario, la stazione appaltante non è tenuta a effettuare il collaudo finale, un’operazione che presuppone il completamento e la corretta esecuzione dell’opera. Analizziamo insieme i dettagli di questa importante pronuncia.

I Fatti di Causa

La vicenda trae origine da un contratto d’appalto stipulato nel 2005 tra un importante ente committente pubblico e un’impresa di costruzioni per il completamento di un lotto stradale. A seguito della risoluzione unilaterale del contratto disposta dalla stazione appaltante nel 2007 per inadempimento dell’impresa, quest’ultima aveva iscritto due specifiche riserve. Con la prima, chiedeva il risarcimento del danno per il tardivo collaudo dell’opera; con la seconda, contestava la detrazione dal corrispettivo di una somma a titolo di oneri per il riappalto dei lavori.

L’Iter Giudiziario e le Decisioni dei Giudici di Merito

Il Tribunale di primo grado aveva inizialmente accolto le domande dell’impresa, condannando l’ente committente al pagamento di una cospicua somma. Tuttavia, la Corte d’Appello, riformando la decisione, ha respinto le richieste dell’appaltatore. I giudici di secondo grado hanno ritenuto che, data la risoluzione per inadempimento, non sussistesse alcun obbligo per la stazione appaltante di procedere al collaudo. Inoltre, hanno considerato legittima la pretesa dell’ente di addebitare all’impresa inadempiente i costi sostenuti per il riappalto, conformemente alla normativa di settore (art. 121 d.P.R. n. 554/1999).

La questione della risoluzione contratto appalto e l’obbligo di collaudo

Il cuore della controversia, giunta fino in Cassazione, riguarda proprio l’interpretazione delle norme che disciplinano gli adempimenti successivi alla risoluzione contratto appalto per colpa dell’esecutore. L’impresa ricorrente sosteneva che l’obbligo di collaudo sussistesse comunque, anche in caso di mancata ultimazione dei lavori, e che il suo tardivo espletamento le avesse causato un danno. La stazione appaltante, al contrario, affermava che la risoluzione per inadempimento facesse venir meno tale obbligo.

Le motivazioni

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso dell’impresa, confermando la decisione della Corte d’Appello. Gli Ermellini hanno fornito una chiara interpretazione della normativa applicabile (in particolare gli artt. 119, 121 e 187 del d.P.R. n. 554/1999). Hanno sottolineato che il collaudo ha lo scopo di “verificare e certificare che l’opera o il lavoro sono stati eseguiti a regola d’arte e secondo le prescrizioni tecniche”. Questo scopo, per sua natura, implica la prosecuzione del rapporto contrattuale e il completamento dell’opera. Quando il contratto viene risolto per grave inadempimento dell’appaltatore, questo presupposto viene a mancare. In tale circostanza, la legge prevede non il collaudo, ma altri adempimenti, come la “redazione dello stato di consistenza dei lavori già eseguiti e l’inventario di materiali, macchine e mezzi d’opera”. Pertanto, secondo la Corte, in caso di risoluzione per inadempimento, la stazione appaltante non è tenuta a procedere al collaudo. Consentire all’appaltatore inadempiente di avvalersi delle disposizioni sul collaudo, previste a tutela della parte adempiente, costituirebbe un “vantaggio davvero ingiustificabile”.

Le conclusioni

La decisione della Cassazione rafforza un principio di logica e di diritto: gli strumenti di tutela previsti per la conclusione fisiologica di un contratto non possono essere invocati dalla parte che, con il proprio inadempimento, ne ha causato la patologica interruzione. La risoluzione contratto appalto per colpa dell’impresa esclude l’obbligo di collaudo per il committente, il cui unico dovere è quello di accertare lo stato dei lavori eseguiti per liquidare quanto dovuto e procedere a un nuovo affidamento. Questa pronuncia offre un importante riferimento per le stazioni appaltanti, confermando la loro facoltà di addebitare i costi del riappalto all’esecutore inadempiente e chiarendo i limiti degli obblighi post-risoluzione.

In caso di risoluzione del contratto di appalto per inadempimento dell’impresa, la stazione appaltante è obbligata a effettuare il collaudo finale?
No. Secondo la Corte di Cassazione, la risoluzione per inadempimento dell’appaltatore fa venir meno l’obbligo di collaudo, poiché questo presuppone il completamento dell’opera. La legge prevede invece altri adempimenti, come la redazione dello stato di consistenza dei lavori eseguiti.

A chi spetta sostenere i maggiori costi se i lavori devono essere riappaltati dopo la risoluzione per colpa dell’impresa?
I maggiori costi sostenuti dalla stazione appaltante per affidare i lavori a un’altra impresa devono essere posti a carico dell’appaltatore inadempiente. L’ordinanza conferma la legittimità di questa prassi, basata sull’art. 121 del d.P.R. n. 554/1999.

Perché il motivo di ricorso relativo alla genericità dell’appello è stato respinto?
La Corte ha ritenuto il motivo inammissibile per violazione del principio di autosufficienza. Il ricorrente, nel denunciare la presunta genericità dell’atto di appello avversario, non aveva trascritto nel proprio ricorso per cassazione i passaggi fondamentali della sentenza di primo grado e dell’atto di appello, impedendo così alla Corte di valutare la fondatezza della censura senza esaminare altri atti.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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