Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 31413 Anno 2024
AULA B
Civile Ord. Sez. L Num. 31413 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 06/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 4264/2020 R.G. proposto da
RAGIONE_SOCIALE MOLISE , in persona del legale rappresentante pro tempore domiciliato ex lege in ROMA, INDIRIZZO presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato COGNOME
– ricorrente –
contro
COGNOME elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME rappresentato e difeso dall’avvocato COGNOME
Oggetto: Lavoro pubblico contrattualizzato – Dirigente – Risoluzione consensuale – Art. 22, CCNL 8/6/2000 – Efficacia
R.G.N. 4264/2020
Ud. 22/11/2024 CC
-controricorrente –
avverso la sentenza della CORTE D’APPELLO COGNOME n. 89/2019 depositata il 26/07/2019.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del giorno 22/11/2024 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
RITENUTO IN FATTO
La Corte d’appello di Campobasso, con sentenza n. 89/2019 del 26 luglio 2019, nella regolare costituzione dell’appellato NOMECOGNOME ha respinto l’appello proposto da RAGIONE_SOCIALE MOLISE avverso la sentenza del Tribunale di Larino in data 27 febbraio 2018.
Quest’ultima, a propria volta, aveva accertato che, per effetto del contratto di risoluzione in data 16 novembre 2012, il rapporto tra l’appellante e NOME COGNOME si era consensualmente risolto ai sensi dell’art. 22, CCNL 8 giugno 2000 , e di conseguenza aveva condannato l’Azienda alla corresponsione in favore del medesimo NOME COGNOME della somma prevista all’art. 3 dal medesimo CCNL.
La Corte territoriale, sulla scia di un proprio precedente, ha richiamato la previsione di cui all’art. 22 del CCNL 8 giugno 2000 nonché il provvedimento n. 465 /2010 con il quale l’Azienda aveva disciplinato criteri, condizioni e limiti della risoluzione consensuale del rapporto di lavoro.
Ha evidenziato che tale disciplina prevedeva che, a fronte della domanda irrevocabile del dipendente di risolvere il rapporto, l’Azienda aveva la facoltà o di non accettare la risoluzione o di differirne gli effetti, mentre la stessa disciplina non prevedeva in alcun modo che il
contratto di risoluzione, una volta sottoscritto dalle parti, necessitasse di ulteriore approvazione o ratifica da parte dagli organi direttivi dell’Azienda.
Alla luce di tale premessa, la Corte, rilevato che nella specie il contratto di risoluzione era stato sottoscritto da NOME COGNOME e dal Direttore generale dell’Azienda, senza che quest’ultima si fosse avvalsa della facoltà di opporre diniego alla risoluzione o di differirne gli effetti, ha disatteso la tesi dell’ Azienda – la quale invece sosteneva che il contratto in questione, per dispiegare pienamente i propri effetti, necessitasse di una ulteriore ratifica da parte del Direttore Generale, del Direttore Amministrativo o del Direttore Sanitario – evidenziando, peraltro, che il Direttore Generale aveva già sottoscritto il contratto e che il requisito della ratifica degli altri due soggetti costituiva profilo dedotto solo in appello e quindi contrastante col divieto di nova .
Conseguentemente, la Corte ha ritenuto l’infondatezza della prospettazione dell’appellante, che giustificava la mancata esecuzione del contratto in virtù del sopravvenire di una delibera del Direttore Generale del 4 ottobre 2012 che aveva revocato il Provvedimento n. 465/2010, rimarcando che con la stipula del contratto di risoluzione la RAGIONE_SOCIALE MOLISE aveva ormai esaurito i propri poteri discrezionali.
La Corte, infine, ha escluso che assumesse rilievo il fatto che NOME COGNOME aveva continuato a svolgere le mansioni anche in epoca successiva alla data di decorrenza della risoluzione – e per l’esattezza sino al 30 maggio 2015 – ritenendo tale condotta giustificata dall’esigenza del lavoratore, a fronte della scelta del datore di lavoro di non corrispondere la prevista indennità, di assicurare a sé ed alla propria famiglia la retribuzione.
Per la cassazione della sentenza della Corte d’appello di Campobasso ricorre ora RAGIONE_SOCIALEAZIENDA SANITARIA REGIONALE MOLISE. Resiste con controricorso NOMECOGNOME .
La trattazione del ricorso è stata fissata in camera di consiglio, a norma degli artt. 375, secondo comma, e 380bis .1, c.p.c.
Il controricorrente ha depositato memoria.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è affidato a quattro motivi.
1.1. Con il primo motivo il ricorso deduce, in relazione all’art. 360, nn. 3 e 4, c.p.c., ‘la nullità della sentenza e del procedimento’ , ‘per omesso esame dei motivi di diritto prospettati dall’RAGIONE_SOCIALE in ordine al procedimento di formazione ed espressione della volontà dell’ASREM, alla rilevanza dei provvedimenti amministrativi emessi dal Direttore Generale dell’ASREM, con la collaborazione dei Direttori sanitario ed amministrativo in ordine alla rilevanza normativa e probatoria dei detti atti e provvedimenti, indicanti mediante richiami a norme, disposizioni regionali, vincoli di spesa e di bilancio, di CCNL, del piano di rientro dal deficit della sanità’ .
Si deduce in ricorso che il meccanismo di risoluzione consensuale di cui all’art. 22 del CCNL 8 giugno 2000 era comunque espressamente subordinato alla facoltà dell’Amministrazione di non accettare o di differire la risoluzione del rapporto di lavoro.
Nella specie – si argomenta – il provvedimento n. 1068 del 4 ottobre 2012 che aveva revocato i precedenti provvedimenti dell’Azienda relativi all’applicazione della risoluzione consensuale verrebbe ad integrare, appunto, l’ipotesi di diniego alla risoluzione contemplata dalla previsione del CCNL.
Conseguentemente, non essendo intervenuta la ratifica da parte dell’Azienda e non essendo parimenti avvenuta la quantificazione delle indennità spettanti al dipendente, la risoluzione consensuale del rapporto dovrebbe ritenersi inefficace.
1.2. Con il secondo motivo il ricorso deduce:
in relazione all’art. 360, n. 4, c.p.c., la violazione o falsa applicazione degli artt. 132, n. 4, e 156 c.p.c., nonché 111 Cost.;
in relazione all’art. 360, nn. 3 e 4, c.p.c., la ‘nullità della sentenza e del procedimento’ ;
in relazione all’art. 360, n. 5, c.p.c., ‘omesso esame ed omessa motivazione circa fatti decisivi che sono stati oggetto di discussione tra le parti’ .
La ricorrente si duole del fatto che la Corte territoriale abbia adottato una motivazione consistente nel mero rinvio generico alla motivazione della decisione di primo grado, in tal modo incorrendo in un vizio della motivazione medesima.
1.3. Con terzo motivo di ricorso si deduce, in relazione all’art. 360, nn. 1, 3 e 4, c.p.c., testualmente: ‘ Violazione e/o falsa applicazione del d.l.vo n. 502/1992, in specie art. 2-3. Violazione dei principi di diritto che disciplinano l’organizzazione dell’RAGIONE_SOCIALE, i poteri del Direttore Generale e quelli del Direttore Amministrativo e Sanitario. Violazione di norme processuali sulle prove e sulla gerarchia delle fonti di prova. Violazione e/o falsa applicazione dei vincoli e limiti derivanti dal Piano di Rientro del Deficit della sanità’ .
Alla luce della ricostruzione complessiva del quadro normativo delle Aziende sanitarie sulla scorta del D. Lgs. n. 502/1992 nonché della disciplina degli atti tipici della Direzione generale di cui all’art. 3 dello stesso D. Lgs. n. 502/1992, la ricorrente imputa alla sentenza
impugnata la violazione di tale disciplina, avendo la Corte territoriale omesso di considerare che la ricorrente avrebbe dovuto procedere preliminarmente alla determinazione dell’importo dell’indennità supplementare spettante a GIOSUE’ QUARTULLO ai sensi dell’art. 22 del CCNL 8 giugno 2000, previa acquisizione delle relative risorse finanziarie.
1.4. Con il quarto motivo il ricorso deduce ‘omesso esame ed omessa motivazione circa fatti decisivi che sono stati oggetto di discussione tra le parti’ .
Argomenta, in particolare, il ricorso che la decisione impugnata avrebbe omesso di valutare una serie di circostanze che evidenzierebbero che lo stesso NOME COGNOME era consapevole dell’inefficacia dell’accordo di risoluzione, in quanto il controricorrente
-avrebbe concluso il contratto di risoluzione dopo l’adozione della delibera n. 1068 con la quale era stata disposta la revoca del provvedimento n. 465/2010;
-aveva continuato a prestare la propria attività lavorativa anche dopo la data del 1° settembre 2012, indicata nell’accordo di risoluzione come data di decorrenza degli effetti del contratto medesimo;
-non avrebbe in alcun modo chiesto di dare esecuzione all’accordo, continuando a prestare la propria attività e cessandola solo dopo aver ricevuto la nota del 21 dicembre 2012, con la quale l’Azienda dichiarava di ritenere inefficace il contratto di risoluzione.
Il comportamento del l’odierno controricorrente, conclude la ricorrente, verrebbe ad integrare gli estremi di una revoca implicita o di una rinuncia tacita alla risoluzione.
Il ricorso deve essere disatteso potendosi qui reiterare quanto già da questa Corte statuito in vicenda con contorni in gran parte sovrapponibili a quelli della vicenda in esame (Cass. Sez. L, Ordinanza n. 8735 del 2023).
3. Il primo motivo di ricorso è infondato.
Deve essere, in primo luogo, esclusa la sussistenza di qualsivoglia error in procedendo ex art. 360, n. 4), c.p.c., peraltro neppure concretamente argomentato nel motivo di ricorso.
Quanto all’ipotetico vizio di ‘omesso esame dei motivi di diritto’, la deduzione -che costituisce una sorta di contaminazione tra le ipotesi di cui ai nn. 3) e 5) dell ‘art. 360 c.p.c. si pone al di fuori dell’ambito dell’art. 360, n. 5), il quale non ricomprende questioni o argomentazioni, sicché sono inammissibili le censure che, irritualmente, estendano il paradigma normativo a quest’ultimo profilo (Cass. Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 22397 del 06/09/2019 – Rv. 655413 -01; Cass. Sez. 1 – Ordinanza n. 26305 del 18/10/2018 – Rv. 651305 -01; Cass. Sez. 2 – Sentenza n. 14802 del 14/06/2017 – Rv. 644485 01).
Con riferimento all’ipotesi di cu all’art. 360, n. 3), il motivo risulta assolutamente non perspicuo nell’individuare anche solo la norma di legge di cui si assume la violazione o falsa applicazione, trasgredendo, in tal modo, il canone più volte stabilito da questa Corte, a mente del quale il vizio della sentenza previsto dall’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., deve essere dedotto, a pena d’inammissibilità del motivo giusta la disposizione dell’art. 366, n. 4, c.p.c., non solo con l’indicazione delle norme che si assumono violate ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intellegibili ed esaurienti, intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata debbano ritenersi in
contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornite dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendo alla corte regolatrice di adempiere al suo compito istituzionale di verificare il fondamento della lamentata violazione. (Cass. Sez. 1 – Ordinanza n. 16700 del 05/08/2020; Cass. Sez. 1 – Sentenza n. 24298 del 29/11/2016).
Nel merito, poi, risulta del tutto infondata l’unica doglianza che appare concretamente estrapolabile dal coacervo di argomentazioni del motivo di ricorso, e cioè la violazione o falsa applicazione dell’art. 22 del CCNL 8 giugno 2000, per non aver la Corte territoriale ritenuto che il Provvedimento n. 1068 del 4 ottobre 2012 venisse a costituire una delle ipotesi di diniego alla risoluzione di cui al già citato art. 22.
Al riguardo, invero, è sufficiente osservare che è la stessa ricorrente ad affermare a più riprese in ricorso che il provvedimento n. 1068 del 4 ottobre 2012 revocava i precedenti provvedimenti ex nunc , quindi senza valenza retroattiva quand’anche quest’ultima fosse stata in astratto ipotizzabile – con la conseguenza che deve escludersi che il Provvedimento fosse in ogni caso in grado di incidere su una fattispecie già formatasi in precedenza.
Il secondo motivo di ricorso è infondato.
Va, in primo luogo, esclusa la fondatezza delle deduzioni riferite al disposto di cui all’art. 360, n. 5), dal momento che quest’ultimo, come già evidenziato, non è riferito -come pare opinare la ricorrente -all’omesso esame di argomentazioni giuridiche, sicché sono inammissibili le censure che, irritualmente, estendano il paradigma normativo a quest’ultimo profilo (Cass. Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 22397 del 06/09/2019; Cass. Sez. 1 – Ordinanza n. 26305 del 18/10/2018; Cass. Sez. 2 – Sentenza n. 14802 del 14/06/2017).
Quanto alle deduzioni in ordine al carattere meramente apparente della motivazione, in quanto formulata per relationem , questa Corte ha reiteratamente affermato il principio per cui la validità della sentenza la cui motivazione sia redatta per relationem presuppone che la motivazione stessa resti autosufficiente, riproducendo i contenuti mutuati e rendendoli oggetto di autonoma valutazione critica nel contesto della diversa causa, in modo da consentire la verifica della sua compatibilità logico-giuridica, mentre deve ritenersi nulla, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., la sentenza che si limiti alla mera indicazione dell’esistenza del provvedimento richiamato, senza esporne il contenuto e senza compiere alcun apprezzamento delle argomentazioni assunte nell’altro giudizio e della loro pertinenza e decisività rispetto ai temi dibattuti dalle parti, così rendendo impossibile l’individuazione delle ragioni poste a fondamento del dispositivo (Cass. Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 459 del 10/01/2022).
Se, infatti, al giudice di appello non è imposta l’originalità né dei contenuti né delle modalità espositive – sicché lo stesso ben può aderire alla motivazione della statuizione impugnata ove la condivida, senza necessità di ripeterne tutti gli argomenti o di rinvenirne altri – è tuttavia vero che la condivisione della motivazione deve comunque essere raggiunta attraverso una autonoma valutazione critica, che deve emergere, sia pure in modo sintetico, dal testo della decisione (Cass. Sez. L – Ordinanza n. 28139 del 05/11/2018; Cass. Sez. 6 – Ordinanza n. 15884 del 26/06/2017; Sez. 6 – 5 Ordinanza n. 5209 del 06/03/2018), mentre risulta viziata la decisione con cui il giudice si sia limitato ad aderire alla decisione di primo grado senza che emerga, in alcun modo, che a tale risultato sia pervenuto attraverso l’esame e la valutazione di infondatezza dei motivi di gravame (Cass. Sez. L –
Ordinanza n. 28139 del 05/11/2018; Cass. Sez. 1, Sentenza n. 14786 del 19/07/2016).
Nel caso in esame non può ritenersi che la motivazione della Corte territoriale si sia limitata ad un mero richiamo acritico per relationem alle valutazioni del giudice di prime cure in quanto, nell’operare detto richiamo, la Corte non ha espresso una supina ed immotivata adesione, ma ha proceduto ad un autonomo vaglio della decisione di primo grado, operando altresì una distinta individuazione e valutazione dei motivi di gravame, singolarmente e dettagliatamente esaminati nel corpo della motivazione.
Il terzo motivo di ricorso è, parimenti infondato.
In primo luogo, si deve ribadire che la fattispecie di cui all’art. 360, n. 3), c.p.c. concerne la violazione o falsa applicazione di norme di diritto o di contratti e accordi collettivi nazionali, e non può quindi essere riferita -come opinare la ricorrente -alla non meglio specificata ‘violazione dei principi di diritto che disciplinano l’organizzazione dell’A RAGIONE_SOCIALE, i poteri del Direttore Generale e quelli del Direttore Amministrativo e Sanitario’ .
Parimenti palesemente infondate, se non inammissibili -in quanto sostanzialmente apodittiche e non argomentate -risultano le doglianze in ordine alla ‘violazione di norme processuali sulle prove e sulla gerarchia delle fonti di prova’ .
Il residuo argomentare della ricorrente si riduce ad invocare la necessità, ai fini del perfezionamento della risoluzione consensuale del rapporto, della previa determinazione dell’indennità spettante al controricorrente.
Tali deduzioni, tuttavia, non valgono ad intaccare il profilo fondamentale, e cioè l’efficacia della risoluzione consensuale del
rapporto una volta che le parti hanno provveduto a formalizzare l’intesa medesima.
La disciplina invocata dalla ricorrente, invero, concerne il procedimento di formazione della volontà dell’Azienda prima della conclusione dell’accordo di risoluzione, ed avrebbe potuto assumere rilevanza solo qualora fosse stato dedotto -cosa che non risulta essere avvenuta non solo nel presente grado di legittimità ma anche nei gradi precedenti -che il suo mancato rispetto era in grado di riverberarsi in un vizio del contratto con il quale è stato risolto il rapporto di lavoro.
Assente qualsivoglia deduzione sul punto, allora, si deve concludere che correttamente la Corte territoriale è giunta alla conclusione per cui l’accordo di risoluzione del rapporto era da considerarsi valido ed immediatamente efficace.
Infondato, infine, è l’ultimo motivo di ricorso.
Al riguardo, invero, è sufficiente osservare che la circostanza della permanenza in servizio del ricorrente anche in epoca successiva all’efficacia dell’accordo di risoluzione è stata espressamente esaminata -in quanto motivo di appello -dalla Corte territoriale che tuttavia ha escluso che una mera condotta potesse essere interpretata quale, non meglio precisata, ‘revoca implicita’ della risoluzione o sua ‘rinuncia tacita’.
Il ricorso deve quindi essere respinto, con conseguente condanna della ricorrente alla rifusione in favore del controricorrente delle spese del giudizio di legittimità, liquidate direttamente in dispositivo, con distrazione in favore del procuratore antistatario, tale dichiaratosi in memoria ex art. 380bis. 1 c.p.c.
Stante il tenore della pronuncia, va dato atto, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02, della “sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di
un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto” , spettando all’amministrazione giudiziaria verificare la debenza in concreto del contributo, per la inesistenza di cause originarie o sopravvenute di esenzione dal suo pagamento (Cass. Sez. U, Sentenza n. 4315 del 20/02/2020).
P. Q. M.
La Corte, rigetta il ricorso;
condanna la ricorrente a rifondere al controricorrente le spese del giudizio di Cassazione, che liquida in € 7.200,00 , di cui € 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge con distrazione in favore del l’avvocato NOME COGNOME antistatario.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 comma 1quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione