Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 13673 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 13673 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 16/05/2024
ORDINANZA
sul ricorso 24815-2020 proposto da:
COGNOME NOME, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO, presso lo studio dell’AVV_NOTAIO NOME COGNOME, che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del Presidente e legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO, presso lo studio dell’AVV_NOTAIO, che la rappresenta e difende;
– controricorrente –
avverso la sentenza non definitiva n. 3342/2018 della CORTE di appello di ROMA, depositata il 31/01/2020, R.G.N. 102/2015;
nonché
R.G.N. NUMERO_DOCUMENTO
COGNOME.
Rep.
Ud. 08/02/2024
CC
avverso la sentenza definitiva n. 1582/2020 della CORTE R.G.N.
D’APPELLO di ROMA, depositata il 10/07/2020, 102/2015;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 08/02/2024 dal Consigliere AVV_NOTAIO. AVV_NOTAIO COGNOME.
FATTI DI CAUSA
Con sentenza n. 5271/2014, il Tribunale di Roma, in parziale accoglimento del ricorso proposto da NOME COGNOME contro l’RAGIONE_SOCIALE, aveva dichiarato il suo diritto a percepire le differenze retributive esposte in tale ricorso, maturate con riferimento al livello di inquadramento C1 dal 2.11.2004 al 30.9.2009, fatta eccezione per le somme rivendicate a titolo di lavoro supplementare e straordinario, da detrarsi dai relativi conteggi, condannando la resistente al pagamento delle suddette differenze retributive, da calcolarsi come stabilito, al lordo degli oneri previdenziali e fiscali, oltre interessi legali sulle singole somme annualmente rivalutate dal dì del dovuto al saldo; condannava, altresì, la resistente al calcolo del TFR spettante alla ricorrente per effetto del riconoscimento delle differenze retributive di cui al capo precedente, e quindi al pagamento alla ricorrente delle differenze in tal modo risultanti, oltre interessi legali sulle somme annualmente rivalutate dal dì del dovuto fino al saldo; annullava, inoltre, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo irrogato alla ricorrente in data 22.9.2009, condannando per l’effetto la resistente a riassumere la ricorrente o, in mancanza, al pagamento in suo favore di sei mensilità di retribuzione all’atto del licenziamento per un importo complessivo di € 10.116,00, oltre ulteriori interessi dalla data della decisione al saldo effettivo; condannava,
ancora, la resistente al risarcimento del danno non patrimoniale per effetto del licenziamento annullato, liquidato in misura pari a complessivi € 40.181,40, oltre ulteriori interessi dalla data della decisione al saldo effettivo; respingeva, infine, le residue domande spiegate nel ricorso.
Con sentenza n. 3342/2018, pubblicata il 31.1.2020, la Corte d’appello di Roma, riuniti i procedimenti relativi alle impugnazioni rispettivamente proposte dalle parti avverso la suddetta sentenza di primo grado, e non definitivamente pronunciando, così decideva: a) in parziale riforma della sentenza appellata, e in parziale accoglimento dell’appello principale, nonché dell’appello incidentale proposti dalla COGNOME, dichiarava il suo diritto all’inquadramento economico normativo come impiegata di livello C3 CCNL enti non economici e alle relative differenze retributive per il periodo dal 2.11.2004 al 30.9.2009, detratto il lavoro straordinario, da determinarsi come da separata ordinanza; b) rigettava nel resto l’appello principale e l’appello incidentale proposti dalla lavoratrice; c) in parziale accoglimento dell’appello proposto dall’RAGIONE_SOCIALE, riformava la sentenza impugnata nella parte in cui -al punto 5 del dispositivo -aveva condannato detta RAGIONE_SOCIALE al risarcimento del danno non patrimoniale patito dalla ricorrente; d) rigettava nel resto l’appello proposto dall’RAGIONE_SOCIALE; e) disponeva l’ulteriore istruttoria della causa come da separata ordinanza; f) spese al definitivo.
Con ulteriore sentenza n. 1582/2020, pubblicata il 10.7.2020, la medesima Corte territoriale, questa volta definitivamente pronunciando, in parziale accoglimento degli appelli principale ed incidentale proposti dalla COGNOME, e in parziale riforma della sentenza impugnata, ferma nel resto,
condannava l’RAGIONE_SOCIALE anche al pagamento in favore dell’appellante principale della somma di € 21.218,00, oltre a rivalutazione monetaria secondo gli indici ISTAT annuali ed interessi legali sulle somme via via annualmente rivalutate dalle singole scadenze al saldo; condannava l’RAGIONE_SOCIALE al pagamento di 1/3 delle spese del doppio grado, liquidate come distintamente per il primo ed il secondo grado ed in distrazione; poneva le spese della C.T.U. contabile espletata in tale fase ulteriore del secondo grado, come liquidate, a carico della soccombente.
Avverso entrambe tali decisioni di secondo grado (non definitiva e definitiva), COGNOME NOME ha proposto ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi di ricorso.
L’intimata ha resistito con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Preliminarmente si devono affrontare le questioni di ammissibilità del ricorso sollevate dalla controricorrente, in particolare con riferimento alla riserva facoltativa di ricorso per cassazione della controparte rispetto alla prima sentenza non definitiva della Corte territoriale; questioni che, del resto, attengono ad un controllo demandato in via officiosa a questa Corte suprema (cfr., ad es., Cass., sez. I, 9.8.2019, n. 21220; e, in termini, già id., sez. III, 26.5.2005, n. 11198).
Ebbene, secondo un consolidato indirizzo di questa Corte, la parte, la quale abbia formulato la riserva di impugnazione differita di una sentenza non definitiva, ha l’onere di dedurre e provare detta evenienza, ai fini dell’ammissibilità
della propria impugnazione (cfr. l’ora cit. Cass. n. 21220/2019), e, segnatamente, deve indicare di aver compiuto la dichiarazione di riserva ex art. 361 c.p.c., precisandone, altresì, modalità e tempi (v. Cass., sez. II, 29.12.2017, n. 31153).
Nel caso in esame, invece, la ricorrente s’è limitata a dedurre che avverso la sentenza n. 3342/2018 della Corte d’appello ‘veniva fatta riserva di gravame in Cassazione’, senza null’altro aggiungere e specificare (cfr. pag. 6 del ricorso).
In proposito, la controricorrente ha dedotto e documentato che la controparte provvedeva ‘a depositare telematicamente, solo in data 24.02.2020, espressa riserva di ricorso in Cassazione avverso la sentenza non definitiva n. 3342/2018 (All. 4.6. al fasc icoletto)’ (cfr. pag. 7 del controricorso), senza tuttavia notificare tale riserva ‘al procuratore dell’RAGIONE_SOCIALE, nei termini e presso il domicilio eletto nelle difese in appello’ (cfr. pag. 11 dello stesso atto).
Rileva il Collegio che a riguardo la controricorrente ha anche richiamato Cass., sez. lav., 27.4.1981, n. 2532, secondo la quale la riserva d’impugnazione di una sentenza non definitiva pronunciata in una causa di lavoro è ritualmente proposta nella prima udienza successiva alla comunicazione della sentenza, avvenuta con la lettura del dispositivo in udienza, ancorché dopo tale lettura, e prima della pubblicazione della motivazione, la sentenza suddetta non possa (di norma) essere immediatamente impugnata, per la impossibilità di addurre specifici motivi a sostegno del gravame.
Per la controricorrente, allora, siccome il dispositivo della sentenza non definitiva n. 3342/2018 era stato letto all’udienza del 20.9.2018 e alla prima udienza successiva alla
comunicazione della sentenza in data 11.10.2018 la controparte non aveva espresso alcuna riserva, quella manifestata successivamente sarebbe tardiva (cfr. pagg. 10-11 del controricorso).
Tale rilievo non risulta condivisibile, in quanto la lettura del solo dispositivo di sentenza, se consente una riserva d’impugnazione ‘anticipata’ rispetto ad una sentenza non ancora completa della sua motivazione, non impone che la stessa riserva debba essere espressa nella prima udienza successiva a tale lettura, e prima che il cancelliere dia comunicazione del deposito della sentenza completa di motivazione, ai sensi del combinato disposto dell’art. 438, comma primo, e 430 c.p.c.
E nel caso di specie la pubblicazione della sentenza non definitiva suddetta è avvenuta solo il 31.1.2020.
Piuttosto, è pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che, se la riserva non sia fatta nei modi sanciti dall’art. 129, comma primo, disp. att. c.p.c. (richiamato dall’art. 133, comma primo, disp. att. c.p.c. per la riserva di ricorso per cassazione), affinché la riserva di impugnazione differita di sentenza non definitiva inserita in uno scritto difensivo produca effetti, non è sufficiente il mero deposito (anche telematico), ma è necessaria la notifica ai procuratori delle parti costituite, o personalmente a quelle che non siano costituite, poiché l’art. 129 disp. att. c.p.c. esprime il principio della necessaria conoscibilità della riserva (cfr. Cass., sez. III, 4.6.2021, n. 15602; id., sez. III, 22.1.2019, n. 1574; id., sez. II, 18.12.2014, n. 26777; id., sez. III, 19.7.2004, n. 13336).
Pertanto, nella specie l’attuale ricorrente non poteva limitarsi a depositare telematicamente l’atto contenente la riserva di ricorso, ma era tenuta a notificare tale atto al procuratore costituito della controparte, giusta l’art. 129, comma secondo, c.p.c ., anch’esso richiamato dal successivo art. 133, comma primo, disp. att. c.p.c.
Per tali ragioni, allora, la riserva in questione era effettivamente irrituale.
Occorre, tuttavia, considerare che, secondo altro costante indirizzo di questa Corte, nel sistema di riserva facoltativa d’impugnazione contro sentenza non definitiva, la mancata, tardiva o irrituale esplicitazione della riserva comporta solo la decaden za dall’impugnazione differita di quel provvedimento, ma non ne preclude quella immediata, che deve avvenire nel rispetto dei termini ordinari ex art. 325 e 327 c.p.c. (cfr., tra le tante, Cass., sez. I, 4.2.2016, n. 2188; id., sez. III, 10.10.2014, n. 21417; id., sez. un., 27.3.2008, n. 7940; id., sez. III, 9.1.2007, n. 212; id., sez. lav., 3.4.2002, n. 4729; id., sez. III, 15.4.1998, n. 3807).
Ebbene, nel caso di specie, la sentenza non definitiva n. 3342/2018 è stata pubblicata il 31.1.2020; e, diversamente da quanto indicato dalla ricorrente che la dà per ‘mai notificata’ (cfr. pag. 19 del ricorso in esame), risulta essere stata notificata ai difensori costituiti in grado d’appello della COGNOME in data 29.7.2020, in uno alla sentenza definitiva della medesima Corte territoriale n. 1582/2020, ad istanza del difensore dell’RAGIONE_SOCIALE (anche la difesa della ricorrente per cassazione dà per notificata questa seconda sentenza in data 29.7.2020).
Si rileva ora che il ricorso per cassazione risulta essere stato notificato il 23.9.2020 a mezzo PEC (come del resto, riconosce anche il difensore dell’RAGIONE_SOCIALE: cfr. pag. 1 del suo controricorso).
Pertanto, rispetto al termine c.d. breve di 60 giorni ex art. 325 c.p.c. a far data dal 29.7.2020 in cui è stata eseguita la notificazione di entrambe le sentenze qui impugnate, la notificazione del ricorso si appalesa senz’altro tempestiva.
Ma il Collegio deve notare che essa rispetta anche il termine semestrale c.d. lungo di cui all’art. 327, comma primo, c.p.c.
Vero è, infatti, che, per questa Corte, ai sensi dell’art. 327 c.p.c., la decadenza dall’impugnazione per decorso del termine lungo dalla pubblicazione della sentenza, si verifica ‘indipendentemente dalla notificazione’, e pertanto anche nel caso in cui -effettuata la notificazione della sentenza -il termine breve di impugnazione ex art. 325 c.p.c. venga a scadere in un momento successivo alla scadenza del termine lungo (così Cass., sez. VI, 30.3.2016, n. 6187; id., sez. II, 16.6.2000, n. 8191; id., sez. III, 12.8.1995, n. 8857).
Nella specie, tuttavia, non si è verificata tale ipotesi.
Nel peculiare caso in esame, invece, pur essendo inefficace la riserva di ricorso per cassazione differito, espressa dalla lavoratrice rispetto alla sentenza non definitiva della Corte di merito, e pur essendo stata a lei notificata detta sentenza nel corso del termine semestrale, il ricorso per cassazione è stato notificato nel rispetto di detto termine a far data dalla pubblicazione di tale sentenza in data 31.1.2020.
Si deve, infatti, considerare che, giusta l’art. 83, comma 2, d.l. n. 18/2020, conv. con mod. nella l. n. 27/2020, ha operato la sospensione legale di tale termine dal 9.3.2020 all’11.5.2020 (l’iniziale termine del 15.4.2020 è stato poi prorogato appunto a ll’11.5.2020), vale a dire, per 64 giorni; sicché il termine c.d. lungo era destinato a scadere alla data del 5.10.2020.
Per conseguenza, da questo punto di vista, il ricorso per cassazione è ammissibile.
Passando ora ad esaminare i motivi di ricorso, con il primo di essi la ricorrente ex art. 360, comma primo, n. 5), c.p.c. denuncia ‘Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio. Violazione dell’art. 345 c.p.c. e 2697 c.c.’. Deduce che (all’udie nza del 29.3.2018, come precisato a pag. 5 del ricorso) veniva prodotta una serie di atti di indagine, estratti dal procedimento penale a carico dei componenti dell’RAGIONE_SOCIALE, ed in particolare dei dirigenti, nonché dei testimoni escussi in primo grado, imputati per peculato, sottrazione e distrazione delle opere d’arte, etc. Deduce, ancora, che ‘la Corte rinviava per la decisione sull’istanza e ammissione dei mezzi istruttori, nonché sugli altri punti del gravame all’udienza del 20 settembre 2018, concedendo i termini per il deposito di note autorizzate prima della suddetta udienza’, ma che: ‘Su questo punto decisivo ai fini della controversia, sull’esame dell’intera documentazione che è un pilastro dell’intero quadro probatorio, che ha determinato il licenziamento discriminatorio, il mobbing, nonché l’ulteriore danno biologico da licenziamento riconosciuto dal Tribunale in 1° grado (poi riformato), la Corte territorialmente competente ha completamente omesso di pronunciarsi’.
15. Con un secondo motivo ex art. 360, comma primo, n. 3) e n. 5), c.p.c. denuncia ‘Violazione e falsa applicazione di norme di diritto su un punto decisivo della controversia e omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio. Violazione dell’art. 2697 c.c.’. Premette che: . Deduce che: ‘Già tale dicitura la dice lunga sull’impossibilità della Corte di decidere per l’irreperibilità di una parte del fascicolo o dei documenti, che al momento dell’emanazione del dispositivo e della sentenza, non era nella propria disponibilit à. La Corte di Appello se all’udienza del 20 settembre 2018 aveva concesso alle parti termini per poter dedurre in ordine alla produzione documentale della COGNOME, su tale questione avrebbe dovuto decidere sull’a mmissibilità della prova. Decisione che non è stata presa, perché i documenti non erano nel materiale possesso della Corte, tanto che si parla di riproduzione a mente, e dunque ai fini della controversia e in particolare sul licenziamento discriminatorio, sul mobbing e sul danno patrimoniale da illegittimo licenziamento, non vi è stata alcuna pronuncia. Tale violazione non poteva poi essere riformata nella sentenza definitiva, che non poteva modificare una sentenza parziale emessa da un altro collegio giudi cante’. Sostiene ancora che: ‘Il nuovo Collegio formatosi successivamente, in data 10.01.2020 non poteva decidere la controversia in assenza della pubblicazione della sentenza parziale (avvenuta in data 31.01.2020), sentenza che veniva riprodotta a mente, e con un
fascicolo incompleto dopo un oltre un anno dall’emissione del dispositivo’.
Con un terzo motivo denuncia ‘Violazione e falsa applicazione di norme di diritto su un punto decisivo della controversia: art. 2059 c.c. danno non patrimoniale e mobbing’. Lamenta essenzialmente che la Corte territoriale ‘senza esaminare la documentazione in atti, per i motivi sopra ampiamente esposti, giungeva all’opposto convincimento che il Tribunale avesse riconosciuto’ ‘il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale, subito dalla ricorrente a seguito dell’illegittimo licenziamento’, ‘senza far riferimento alle prove esaminate in primo grado’.
Con un quarto motivo denuncia ‘Violazione e falsa applicazione di norme di diritto su un punto decisivo della controversia. Licenziamento nullo e ritorsivo diritto alla reintegra’. Deduce che: ‘Sull’erronea e omessa applicazione dei principi giurisprudenziali in punto di mobbing, in violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. in relazione all’art. 2697 c.c. in relazione all’art. 2697 c.c., nella sentenza di 2° grado non vi è menzione ma si parla solo del diritto di repechage’. Assume ancora che: ‘Al di là d ella copiosa e schiacciante documentazione ottenuta successivamente dagli atti di indagine, la Corte aveva l’obbligo di pronunciarsi su un punto decisivo della domanda dove già si era pronunciato il Tribunale, pur non accogliendo la domanda completamente. Mentre il Tribunale esamina punto per punto, ogni richiesta, la Corte sul licenziamento, si concentra solo su un aspetto, disattendendo ogni altra decisione particolarmente contraddetta dalle parti in un processo problematico, su ogni singola questione, lasciando da un lato intendere che condivideva la sentenza di prime cure ma riformandola solo sui
due aspetti sopra esposti, ma non decidendo ogni ulteriore statuizione’.
Il primo motivo, riferibile alla sentenza non definitiva, è inammissibile.
18.1. Secondo un consolidato indirizzo di legittimità, l’omesso esame di un fatto decisivo deve riguardare un fatto, inteso nella sua accezione storico-fenomenica, principale (ossia, costitutivo, impeditivo, estintivo o modificativo del diritto azionato) o secondario (cioè dedotto in funzione probatoria), la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali e che abbia carattere decisivo. Costituisce un ‘fatto’, agli effetti dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), non una ‘questione’ o un ‘punto’, ma un vero e proprio ‘fatto’, in senso storico e normativo, un preciso accadimento ovvero una precisa circostanza naturalistica, un dato materiale, un episodio fenomenico rilevante; non costituiscono, viceversa, ‘fatti’, il cui omesso esame possa cagionare il vizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), le argomentazioni o deduzioni difensive; gli elementi istruttori, una moltitudine di fatti e circostanze, o il ‘vario insieme dei materiali di causa’ (così, ad es., Cass., sez. lav. 22.5.2020, n. 9483).
18.2. Ebbene, nel primo motivo la ricorrente non si riferisce a fatti storici nel senso testé chiarito, bensì lamenta la mancata considerazione di un complesso di documenti che dichiara di aver prodotto all’udienza del 29.3.2018.
18.3. La censura, inoltre, difetta del requisito di specificità/autosufficienza del ricorso per cassazione, perché vi si indica soltanto l’udienza in cui è stata operata tale produzione, ma mancano l’indicazione specifica dei documenti prodotti,
almeno un riassunto esaustivo del loro contenuto e la loro attuale collocazione nel fascicolo processuale (cfr., ad es., Cass., sez. VI, 23.2.2021, n. 4788; Cass., sez. I, 10.12.2020, n. 28184).
18.4. Quanto, poi, alla pur dedotta violazione dell’art. 345 c.p.c., in disparte il rilievo che in ipotesi troverebbe piuttosto applicazione l’art. 437, secondo comma, c.p.c., la Corte d’appello nella sua prima decisione non si è assolutamente espressa sul l’ammissibilità o meno dei documenti cui allude la ricorrente, ed infatti la stessa non si duole del fatto che la Corte abbia ritenuto non consentita la ridetta produzione documentale con apposito provvedimento.
18.5. Infine, quanto alla violazione dell’art. 2697 c.c., la ricorrente non deduce in che senso e come la Corte territoriale, sempre nella sua prima decisione, abbia espresso valutazioni implicanti un’illegittima inversione dell’onere probatorio.
Parimenti inammissibile è il secondo motivo.
19.1. Le non perspicue considerazioni della ricorrente anzitutto muovono da un’erronea rappresentazione del contesto processuale cui si allude.
In particolare, non emerge assolutamente ex actis e, segnatamente, da entrambe le sentenze gravate che il fascicolo del procedimento fosse andato, sia pur temporaneamente e in parte, smarrito, come, invece, adombra la ricorrente, dove parla di ‘irreperibilità di una parte del fascicolo o dei documenti’, alludendo ‘al momento dell’emanazione del dispositivo e della sentenza’ non definitiva.
19.2. Giova, poi, rilevare che nella locuzione ‘a mente dell’art. 113, 2° comma, c.p.p.’, presente nella dicitura scritta a mano in alto nella pagina 0 della sentenza non definitiva, l’espressione ‘a mente’ sta evidentemente per ‘a norma’, ‘ai sensi’ o anche ‘ex’, e intendeva, quindi, in modo altrettanto evidente indicare la previsione del codice di rito penale in forza della quale era stato riprodotto il testo della stessa sentenza, poi pubblicato.
Non stava, invece, a significare quella specifica espressione che la sentenza fosse stata riprodotta ‘a mente’, vale a dire, secondo la memoria del testo smarrito che ne avesse il collegio all’epoca decidente, come sembra invece opinare la ricorrente (cfr. pagg. 12 e 13 del suo ricorso).
19.3. In proposito, peraltro, nel testo della sentenza definitiva n. 1582/2020 è stato specificato (a pag. 2) che: ‘Il processo ha subito ulteriori rinvii a causa dello smarrimento della motivazione della sentenza non definitiva, poi riprodotta in data 31 gennaio 2020, ai sensi dell’art. 113, comma 2°, c.p.p.’.
Pertanto, ciò che era andato smarrito era solo il testo completo della prima decisione.
E a riguardo mette conto ricordare che, secondo un consolidato indirizzo anche di questa Corte, la disposizione dell’art. 113 c.p.p., relativa alla ‘ricostituzione di atti’, è applicabile al rito civile, nel quale mancano specifiche disposizioni che disciplinino la materia (cfr ., ex plurimis , Cass. n. 1524/2019; n. 18147/2015; n. 25609/2013; n. 9269/2010; n. 9240/2009).
Insomma, si è in presenza di una riproduzione dell’atto mancante, eseguita in base alla minuta di quest’ultimo, ai sensi del comma 2 dell’art. 113 cit.
19.3. Non è dato comprendere, poi, in che senso la ricorrente addebiti alla seconda decisione, vale a dire, quella definitiva, di aver modificato ‘una sentenza parziale emessa da un altro collegio giudicante’.
19.4. E altrettanto incomprensibile è la conclusiva asserzione della ricorrente, secondo la quale: ‘Il nuovo Collegio formatosi successivamente, in data 10.01.2020 non poteva decidere la controversia in assenza della pubblicazione della sentenza parziale (avvenuta in data 31.01.2020): sentenza che veniva riprodotta a mente, e con un fascicolo incompleto dopo oltre un anno dall’emissione del dispositivo’.
Invero, la sentenza definitiva è stata decisa, depositata e pubblicata in data 10.7.2020, e non il 10.1.2020, e, secondo quanto già notato, il diverso Collegio che l’ha emanata ha ‘atteso’ la riproduzione della sentenza non definitiva nella sua versione completa prima di decidere, ben tenendo conto di quanto nella stessa statuito una volta pubblicata (cfr. ancora, ma in extenso pag. 2 della stessa); sentenza che in alcun modo ha modificato.
In ogni caso, la doglianza circa il non essere stata ‘presa’ una decisione ‘sull’ammissibilità della prova’ non è deducibile con il mezzo di cui all’art. 360, comma primo, n. 5), c.p.c., cui si riferisce la ricorrente facendo nel contempo riferimento anche al n. 3) dello stesso comma, in relazione ad una violazione e falsa applicazione di norme di diritto neanche specificate.
Nello sviluppo dello stesso secondo motivo, inoltre, si estende anche alla sentenza definitiva il vizio di ‘omesso esame dei documenti’ di cui s’è detto, già addebitato alla sentenza non definitiva nel primo motivo di ricorso (cfr. alla fine di pag. 12 del ricorso).
In proposito, perciò, si rimanda a quanto osservato nell’esaminare il primo motivo, anche in relazione alla violazione dell’art. 2697 c.c., dedotta pure nel secondo motivo.
Ancora inammissibile è il terzo motivo, riferibile esclusivamente alla sentenza non definitiva.
22.1. E’ invero agevole riscontrare che tale censura, da ricondurre all’ipotesi di cui all’art. 360, comma primo, n. 3), c.p.c., si traduce, da un lato, in una critica dell’apprezzamento probatorio operato dalla Corte di merito e, dall’altro, propone una diversa lettura delle risultanze processuali (cfr. pagg. 1316 del ricorso); il che non può trovare ingresso in questa sede di legittimità.
Non è, peraltro, considerata la pur diffusa motivazione resa dalla stessa Corte a proposito del danno non patrimoniale asseritamente subito dall’attrice nella sentenza non definitiva (cfr. pagg. 4-5 della stessa).
Analoghe considerazioni valgono per il quarto ed ultimo motivo, sempre con esiti d’inammissibilità.
23.1. Come si è anticipato nel riassumere tale censura, essa, pur facendo valere solo ‘violazione e falsa applicazione di norme di diritto’ e quindi in ipotesi da ricondurre al mezzo di cui all’art. 360, comma primo, n. 3), c.p.c., in realtà adombra un’omessa pronuncia della Corte di merito ‘su un punto decisivo
della domanda’, ossia, quello riguardante il licenziamento di cui si sarebbe denunciata la nullità, assumendosi che il Tribunale avrebbe disatteso tale richiesta sul rilievo che si tratterebbe non ‘di discriminazione, bensì di ritorsione’. E, secondo la ri corrente, ‘Nel gravame proposto … si individuavano tra le parti della sentenza che si andava ad impugnare le attività persecutorie a danno dell’appellata che qualificavano il licenziamento come discriminatorioritorsivo’ (così alla fine di pag. 17 del ricorso).
23.2. Osserva allora il Collegio che un’omessa pronuncia della Corte di merito nella sentenza non definitiva andava fatta valere deducendosi la violazione dell’art. 112 c.p.c. con il differente mezzo di cui all’art. 360, comma primo, n. 4), c.p.c., e quindi prospettando la nullità in parte qua di quella sentenza.
E comunque in tale ottica il motivo difetterebbe di autosufficienza, non specificandosi, tra l’altro, con quale dei suoi motivi dell’appello principale o dell’appello incidentale avesse posto alla Corte distrettuale le cennate questioni circa la nullità del licenziamento per la sua natura discriminatoria o ritorsiva; peraltro, un motivo d’impugnazione dell’attuale ricorrente a riguardo non emerge dal testo della sentenza non definitiva.
La ricorrente, in quanto soccombente, dev’essere condannata al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese di questo giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, ed è tenuta al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 200,00 per esborsi e in € 4.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso forfetario delle spese generali nella misura del 15%, IVA e C.P.A. come per legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
Così dec iso in Roma nell’adunanza camerale dell’8.2.2024.