Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 2816 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 3 Num. 2816 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME
Data pubblicazione: 05/02/2025
ORDINANZA
R.G. 11102/2023
COGNOME
Rep.
C.C. 20/12/2024
C.C. 14/4/2022
RISARCIMENTO DANNI DA ESECUZIONE DI SENTENZA DISCIPLINARE.
sul ricorso iscritto al n. 11102/2023 R.G. proposto da :
COGNOME rappresentato e difeso dagli avvocati COGNOME (CODICE_FISCALE) e COGNOME (CODICE_FISCALE), elettivamente domiciliato presso gli indirizzi PEC indicati dai difensori
-ricorrente-
contro
ORDINE DEI DOTTORI COMMERCIALISTI E DEGLI ESPERTI CONTABILI DI VENEZIA, rappresentato e difeso dall ‘ avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE elettivamente domiciliato presso l’indirizzo PEC indicato dal difensore
-controricorrente-
nonché contro
COGNOME RAGIONE_SOCIALE, rappresentata e difesa dell’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE, elettivamente domiciliata presso l’indirizzo PEC indicato dal difensore
avverso la SENTENZA della CORTE D ‘ APPELLO di VENEZIA n. 493/2023 depositata il 06/03/2023.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 20/12/2024 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
Il dott. NOME COGNOME convenne in giudizio l’Ordine dei dottori commercialisti e degli esperti contabili di Venezia, davanti al Tribunale di Venezia, chiedendo che fosse condannato al risarcimento dei danni da lui asseritamente subiti in conseguenza dell’immediata esecuzione della condanna disciplinare a lui inflitta, benché la stessa fosse stata ridotta in modo estremamente significativo in sede di impugnazione.
A sostegno della domanda espose, tra l’altro, di essere stato oggetto, nei mesi di maggio e giugno 2014, di tre esposti ai quali avevano fatto seguito tre distinti procedimenti disciplinari, due dei quali terminati, rispettivamente, con la condanna a tre mesi e un mese di sospensione dall’esercizio della professione, e il terzo con la censura.
Aggiunse che la Commissione disciplinare di Venezia aveva deliberato di mettere in esecuzione le tre decisioni senza attendere l’esito dell’appello, per cui egli aveva subito la sospensione per un tempo complessivo di quattro mesi. La successiva decisione del Consiglio di disciplina nazionale aveva, invece, ridotto sensibilmente le sanzioni, limitandole alla sola censura. Concluse l’attore, pertanto, che tale immediata esecuzione gli aveva arrecato danni economici e all’immagine, oltre a danni derivanti dalla relativa sofferenza personale.
Si costituì in giudizio l’Ordine convenuto, chiedendo il rigetto della domanda e sollecitando la chiamata in causa della propria società di assicurazioni.
Si costituì, quindi, anche la RAGIONE_SOCIALE, aderendo alle difese del proprio assicurato.
Il Tribunale rigettò la domanda e condannò l’attore alla rifusione delle spese di lite.
La decisione è stata impugnata dall’attore soccombente e la Corte d’appello di Venezia, con sentenza del 6 marzo 2023, ha rigettato il gravame, ha confermato la sentenza del Tribunale e ha condannato l’appellante alla rifusione delle ulteriori spese del grado.
La Corte territoriale ha premesso che la sentenza impugnata si fondava, essenzialmente, su due argomentazioni: il fatto che le decisioni disciplinari sono dotate di efficacia esecutiva e il fatto che non erano state allegate dall’appellante le ragioni per le quali si potesse considerare abnorme la decisione di disporre l’immediata esecuzione delle condanne disciplinari. D’altra parte, la norma dell’art. 55 del d.lgs. 28 giugno 2005, n. 139, stabilisce che le decisioni delle commissioni disciplinari possono essere eseguite, salvo che l’organo di secondo grado non disponga la relativa inibitoria, cosa non avvenuta nel caso di specie.
Ha poi osservato la Corte di merito che il presunto danno ingiusto lamentato dal dott. COGNOME doveva considerarsi derivante dall’esecuzione immediata di una decisione di condanna che poi, nel successivo giudizio di appello, era stata in parte riformata, con applicazione di una sanzione meno grave. Tuttavia, non poteva ritenersi di per sé antigiuridica la scelta della Commissione di primo grado di irrogare una sanzione poi ridotta in appello, né poteva derivare un danno per l’interessato dal solo fatto di aver disposto l’esecuzione provvisoria della medesima, a meno che non si tratti di «provvedimenti abnormi adottati fuori del perimetro dei poteri riconosciuti all’organo di disciplina»; ma tale ipotesi non era stata formulata con l’atto di appello.
Non poteva, poi, pervenirsi a diversa conclusione solo per l’ipotizzata esistenza di un conflitto di interessi tra l’appellante e uno dei consiglieri componenti la Commissione di disciplina, perché la situazione di eventuale conflitto di interessi avrebbe dovuto essere denunciata nel corso del procedimento disciplinare con l’istituto della ricusazione del componente; né tale elemento può costituire indice di un vizio della decisione disciplinare assunta.
Contro la sentenza della Corte d’appello di Venezia propone ricorso il dott. NOME COGNOME con atto affidato a quattro motivi.
Resistono con due separati controricorsi l’Ordine dei dottori commercialisti e degli esperti contabili di Venezia e la società di assicurazioni RAGIONE_SOCIALE.
L’Ordine dei dottori commercialisti e degli esperti contabili di Venezia ha depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso si lamenta, in relazione all’art.360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 2043 cod. civ. in relazione all’esistenza del danno ingiusto.
Sostiene il ricorrente che, pur essendo certo che il danno ingiusto non è collegato alla malafede dell’organo giudicante, tuttavia la violazione dell’art. 2043 cit. sarebbe macroscopica, perché la sentenza impugnata avrebbe scambiato la libertà di valutazione della Commissione disciplinare «per una sorta di immunità dalle gravi conseguenze arrecate». La differente natura del provvedimento sanzionatorio finale, ad avviso del ricorrente, determina «una responsabilità ipso iure » della controparte, per aver applicato la sospensione per sei mesi a fronte della sola censura irrogata in sede di appello. Il ricorrente rileva che la decisione dell’organo di appello di stravolgere la decisione impugnata, annullando il provvedimento o riducendolo in grande misura, sarebbe indice del fatto che «qualcosa non ha funzionato
nella prima fase di valutazione di responsabilità», per cui l’Ordine professionale avrebbe dovuto «prudenzialmente» non mettere in esecuzione il provvedimento. Il danno presupposto, infatti, sarebbe insito nel fatto in sé di aver subito la sospensione dall’esercizio della professione per quattro mesi.
Con il secondo motivo di ricorso si lamenta, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 55, comma 2, del d.lgs. 28 giugno 2005, n. 139.
Ad avviso del ricorrente, da tale disposizione si deduce che il Consiglio nazionale può sospendere la decisione dell’Ordine territoriale, ma non che quest’ultimo sia tenuto ad eseguire la propria decisione, per cui sussisterebbe un evidente errore di interpretazione. Il fatto che la norma preveda l’immediata esecutività di un provvedimento «non presuppone minimamente l’obbligo di mettere in esecuzione lo stesso», tant’è che il successivo Regolamento per l’esercizio della funzione disciplinare approvato nel 2015 impone di attendere l’esito dell’eventuale impugnazione per porre in esecuzione la decisione impugnata.
Con il terzo motivo di ricorso si lamenta, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 342 cod. proc. civ., in relazione a quella parte della motivazione della sentenza d’appello che ha stabilito che il gravame non aveva articolato distinti motivi rispettosi del paradigma normativo. L’appello, infatti, era formulato correttamente, con specifica indicazione delle censure, mentre non potrebbe assumere rilevanza decisiva il fatto che il Consiglio nazionale non abbia sospeso l’esecutività della misura perché non vi erano gli estremi per ritenere abnorme il provvedimento disciplinare irrogato.
Con il quarto motivo di ricorso si lamenta, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., violazione e falsa
applicazione dell’art. 184 cod. proc. civ., per non avere la sentenza impugnata ammesso i mezzi di prova «richiesti ed articolati dal ricorrente sia in primo che in secondo grado». La Corte d’appello, in realtà, non avrebbe assunto alcuna posizione riguardo alle richieste probatorie, mentre i fatti di causa erano chiaramente descritti fin dall’atto di citazione.
La Corte osserva che il primo e il secondo motivo di ricorso, da trattare congiuntamente in considerazione dell’evidente connessione che li unisce, sono privi di fondamento.
Il punto di partenza è costituito dal dato normativo, cioè l’art. 55 del d.lgs. n. 139 del 2005. Il comma 1 di tale disposizione prevede che le decisioni assunte dai Consigli dell’ordine territoriale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili possono essere impugnate con ricorso al Consiglio nazionale, da parte dell’interessato e del pubblico ministero, entro trenta giorni dalla notificazione. Il successivo comma 2 dispone che il Consiglio nazionale «può sospendere l’efficacia dei provvedimenti». L’uso del verbo ‘ può ‘ dimostra senza possibilità di dubbio che si tratta di una facoltà, e non di un obbligo ; facoltà che nel caso specifico il Consiglio nazionale non ha ritenuto di esercitare.
Da tanto consegue che, essendo la regola (come implicitamente si desume dal sistema) quella della immediata esecutività della decisione di primo grado, nessuna censura può essere mossa dall’interessato per il fatto che l’esecuzione non sia stata sospesa; né assume rilievo la circostanza che le sanzioni siano state ridotte nel giudizio di appello, con tramutamento della sospensione nella più lieve sanzione della censura (v. l’art. 52 del d.lgs. n. 139 del 2005).
La tesi del ricorrente è palesemente infondata; se così non fosse, si dovrebbe dedurre che tutte le volte in cui la Commissione nazionale va a ridurre la sanzione disposta dalla Commissione territoriale, per ciò solo il destinatario della sanzione avrebbe diritto
ad un risarcimento del danno; il che verrebbe a costituire una fattispecie di danno in re ipsa , notoriamente estranea al nostro sistema di responsabilità civile.
È appena il caso di aggiungere che il secondo motivo di ricorso presenta anche un profilo di inammissibilità là dove osserva che il successivo Regolamento per l’esercizio della funzione di disciplina, approvato nel 2015, imporrebbe l’obbligo di attendere l’esito dell’eventuale impugnazione prima di eseguire la decisione sanzionatoria disposta dalla Commissione territoriale. Si deve osservare, a questo proposito, che la Corte d’appello ha esplicitamente affermato che quel Regolamento non era applicabile, essendo stato introdotto in data successiva ai fatti oggetto del presente giudizio; senza contare che il ricorrente non ha neppure indicato se, come e dove tale atto di natura non normativa sia stato prodotto e messo a disposizione di questa Corte.
Il terzo motivo di ricorso è inammissibile, data la sua sostanziale irrilevanza.
La Corte d’appello, infatti, pur avendo richiamato, in una sorta di preambolo della propria motivazione, che un motivo di gravame, per essere ammissibile, deve rispondere ai requisiti di contenuto previsti dall’art. 342 cod. proc. civ., ha poi esaminato puntualmente nel merito tutte le doglianze proposte dall’appellante, per cui non è comunque ipotizzabile alcuna violazione della norma processuale suindicata.
Il quarto motivo di ricorso è infondato.
Il ricorrente lamenta, come si è detto, che la Corte d’appello, violando l’art. 184 cod. proc. civ., non avrebbe ammesso «i mezzi istruttori richiesti e articolati dal ricorrente sia in primo grado che in appello». Leggendo il ricorso, si trova (a p. 7) un generico richiamo ad una prova orale non ammessa in primo grado, senza alcuna ulteriore specificazione. Il ricorso prosegue trascrivendo in modo pressoché integrale l’atto di appello (pp. 8 -18), ma l’unica
conferma che se ne può trarre è che il ricorrente aveva chiesto, in appello, di poter chiamare a testimone la propria moglie «secondo capitoli di prova che verranno appositamente formulati» (v. p. 18, a proposito del grave danno alla vita privata).
Ne risulta con piena evidenza, dunque, che nessuna richiesta di prova risulta essere stata realmente e tempestivamente formulata dal ricorrente, per cui la prospettata violazione di legge non sussiste.
Il ricorso, pertanto, è rigettato.
A tale esito segue la condanna del ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di cassazione, liquidate ai sensi del d.m. 13 agosto 2022, n. 147.
Sussistono inoltre i presupposti processuali di cui all’art. 13, comma 1quater , del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello versato per il ricorso, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in complessivi euro 4.500, di cui euro 200 per spese, oltre spese generali e accessori di legge, quanto all’Ordine dei commercialisti e degli esperti contabili di Venezia, e in complessivi euro 3.800, di cui euro 200 per spese, oltre spese generali e accessori di legge, quanto alla società di assicurazioni RAGIONE_SOCIALE
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello versato per il ricorso, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza Sezione Civile, il 20 dicembre 2024.
Il Presidente NOME COGNOME