Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 11317 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 3 Num. 11317 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 29/04/2025
Oggetto
Responsabilità civile p.a. -Mancata attuazione direttive comunitarie -Medici specializzandi
NOME COGNOME
Presidente –
Oggetto
NOME COGNOME
Consigliere Rel. –
R.G.N. 16080/2022
NOME COGNOME
Consigliere –
NOME COGNOME
Consigliere –
COGNOME
NOME COGNOME
Consigliere –
CC – 01/04/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 16080/2022 R.G. proposto da COGNOME COGNOME rappresentato e difeso dall’Avv. NOME COGNOME domiciliato digitalmente ex lege ;
-ricorrente –
contro
Presidenza del Consiglio dei Ministri, rappresentata e difesa ope legis dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliata digitalmente ex lege ; -controricorrente – avverso la sentenza della Corte d’appello di Napoli n. 4589/2021, depositata il 13 dicembre 2021.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 1° aprile 2025
dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
NOME COGNOME convenne in giudizio davanti al Tribunale di Napoli la Presidenza del Consiglio dei ministri, il M.I.U.R., il Ministero della Salute e il Ministero dell’Economia e delle Finanze, chiedendone la condanna, in solido, al risarcimento dei danni conseguenti alla mancata attuazione delle direttive europee 75/362/CEE, 75/363/CEE e 82/76/CEE, in tema di adeguata retribuzione spettante per la frequenza di due corsi di specializzazione (il primo in Endocrinologia, il secondo in Pediatria) iniziati in anni antecedenti all’anno accademico 1991/92.
Con sentenza n. 1068 del 2017 il Tribunale rigettò la domanda, ritenendo prescritta la pretesa creditoria.
Con la sentenza in epigrafe la Corte d’appello di Napoli ha rigettato il gravame interposto dall’COGNOME ritenendo che correttamente il primo giudice avesse affermato l’intervenuta prescrizione del diritto azionato.
Per la cassazione di tale sentenza l’COGNOME propone ricorso per cassazione sulla base di due motivi, cui resiste la Presidenza del Consiglio dei Ministri, depositando controricorso.
È stata fissata per la trattazione l’odierna adunanza camerale ai sensi dell’art. 380 -bis.1 cod. proc. civ., con decreto del quale è stata da rituale comunicazione alle parti.
Non sono state depositate conclusioni dal Pubblico Ministero.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo il ricorrente denuncia, con riferimento all’art. 360, primo comma, num. 3, cod. proc. civ., « violazione e falsa applicazione dell’art. 2935 c.c. in riferimento all’entrata in vigore delle Direttive Comunitarie nn. 82/76/CEE; 75/362/CEE; 75/363/CEE e al d.p.c.m. del 07/03/2007 ».
Lamenta che erroneamente la Corte d’appello abbia ritenuto che il
termine di prescrizione decennale per il diritto al risarcimento del danno derivante dalla mancata attuazione delle direttive comunitarie decorresse dal 27 ottobre 1999, data di entrata in vigore della Legge n. 370 del 1999, dal momento che -sostiene- la decorrenza avrebbe dovuto essere individuata nel momento in cui lo Stato italiano ha effettivamente recepito le direttive comunitarie, ovvero dal 7 marzo 2007, data del D.P.C.M. che stabilisce il trattamento economico per i medici specializzandi.
Argomenta in tal senso anche sulla base della sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 3 marzo 2022, che ha riconosciuto il diritto a una adeguata remunerazione anche ai medici iscritti nelle scuole di specializzazione in anni anteriore al 1982, ad essi estendendo il riconoscimento dei diritti per ritardata trasposizione della Direttiva 82/76/CEE.
Afferma che la legge n. 370 del 1999 non aveva recepito correttamente le direttive comunitarie, ragione per cui la decorrenza del termine di prescrizione non può essere fissata a partire da tale legge, ma piuttosto dal momento in cui i diritti sono stati pienamente riconosciuti e attuati, ovvero dal 2007.
Con il secondo motivo il ricorrente denuncia « omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia art. 360, comma 1, n. 4), c.p.c.; nullità della sentenza per motivazione illogica e contraddittoria in relazione all’art. 2935 c.c. e agli art. 115 e 116 c.p.c. » (così testualmente nella rubrica).
Lamenta che la Corte d’appello non abbia tenuto conto dell’obbligo di applicazione delle direttive comunitarie, indipendentemente dal loro recepimento da parte dello Stato italiano, facendo ancora riferimento alla sentenza della C.G.U.E. 3 marzo 2022, che riconosce il diritto a una adeguata remunerazione anche ai medici specialisti ante 1982, estendendo il riconoscimento dei diritti
per ritardata trasposizione della Direttiva 82/76/CEE e richiamando inoltre la precedente sentenza della stessa Corte di Giustizia Europea del 25 luglio 1991 (Emmot), secondo la quale il termine di prescrizione decorre solo dal momento in cui il diritto è pienamente conoscibile e può essere esercitato.
Rileva che due ordinanze interlocutorie della Corte di cassazione hanno rimesso sul ruolo i ricorsi esaminati in cui si poneva la stessa questione per essere trattati in pubblica udienza, ritenendo opportuna una rivalutazione della materia.
Evidenzia che diverse pronunce di merito hanno accolto la diversa ricostruzione proposta in punto di decorrenza della prescrizione solo a far data dalla emanazione del d.p.c.m. del 07/03/2007.
I due motivi, da esaminarsi congiuntamente, sono inammissibili, ai sensi dell’art. 360bis , n. 1, cod. proc. civ..
Al di là della pletorica prospettazione di diverse tipologie di vizio cassatorio ─ una peraltro (« insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo ») non più contemplata nel tassativo elenco di cui all’art. 360 cod. proc. civ. , altre non pertinentemente illustrate nel loro riferimento agli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. ─ essi prospettano una questione di diritto (quella della decorrenza della prescrizione del credito pararisarcitorio derivante dalla tardiva e incompleta trasposizione nell’ordinamento interno delle direttive n. 75/362/CEE e n. 82/76/CEE, relative al compenso in favore dei medici ammessi ai corsi di specializzazione universitari) già da oltre un decennio risolta da questa Corte con principi fermi e costantemente ribaditi in ormai innumerevoli precedenti.
La Corte territoriale ha invero motivato sulla ragione assorbente richiamandosi a tale consolidato indirizzo con cui è stato chiarito in modo univoco e ripetuto che tale diritto si prescrive nel termine decennale decorrente dalla data di entrata in vigore (27 ottobre 1999) della legge 19 ottobre 1999, n. 370, il cui art. 11 ha
riconosciuto il diritto ad una borsa di studio soltanto in favore di quanti, tra costoro, risultavano beneficiari delle sentenze irrevocabili emesse dal giudice amministrativo, rendendo definitivo l’inadempimento soggettivo residuo (cfr. Cass. 17/05/2011, nn. 10813, 10814, 10815 e 10816, Cass., 31/08/2011, n. 17868, 20/03/2014, n. 6606, Cass., 15/11/2016, n. 23199; indirizzo sempre confermato, da ormai innumerevoli successivi arresti, come, ad esempio, per segnalarne solo alcuni tra i più recenti, Cass. Sez. U. n. 30649 del 2018; Sez. U. n. 17619 del 2022; Sez. U. n. 18640 del 2022; Cass. nn. 32957-32960 del 2022; n. 29132 del 2022; n. 8096 del 2022; n. 39421 del 2021; n. 1589 del 2020; n. 18961 del 2020; n. 14112 del 2020; n. 16452 del 2019; n. 13758 del 2018).
Tale indirizzo, giova rammentare, si è consolidato sulla base del rilievo secondo il quale « a seguito della tardiva ed incompleta trasposizione nell’ordinamento interno delle direttive n. 75/362/CEE e n. 82/76/CEE, relative al compenso in favore dei medici ammessi ai corsi di specializzazione universitari – realizzata solo con il D.Lgs. 8 agosto 1991, n. 257 -è rimasta inalterata la situazione di inadempienza dello Stato italiano in riferimento ai soggetti che avevano maturato i necessari requisiti nel periodo che va dal 1° gennaio 1983 al termine dell’anno accademico 1990-1991. La lacuna è stata parzialmente colmata con la L. 19 ottobre 1999, n. 370, art. 11, che ha riconosciuto il diritto ad una borsa di studio soltanto in favore dei beneficiari delle sentenze irrevocabili emesse dal giudice amministrativo; ne consegue che tutti gli aventi diritto ad analoga prestazione, ma tuttavia esclusi dal citato art. 11, hanno avuto da quel momento la ragionevole certezza che lo Stato non avrebbe più emanato altri atti di adempimento alla normativa Europea. Nei confronti di costoro, pertanto, la prescrizione decennale della pretesa risarcitoria comincia a decorrere dal 27 ottobre 1999, data di entrata in vigore del menzionato art. 11 ».
Né potrebbe sostenersi che il leading case del 2011 abbia preso in considerazione un termine prudenziale in ottica di conformità comunitaria, in ragione di quanto allora esaminabile, e tale da essere comunque sufficiente a respingere, in quel tempo, l’eccezione di prescrizione, e che, invece, solo successivamente al 1999 la giurisprudenza di questa Corte ha escluso quelle incertezze inibenti la decorrenza della prescrizione in pregiudizio del danneggiato, relative ad aspetti quali: l’individuazione della giurisdizione, se ordinaria o amministrativa; la natura dell’azione esperibile, se contrattuale o aquiliana; il termine di prescrizione ; l’individuazione del legittimato passivo della domanda, se solo lo Stato o meno.
Detti argomenti ─ come già questa Corte ha più volte avuto modo di rimarcare ─ sono del tutto infondati e inidonei a indurre a un ripensamento della stabile nomofilachia richiamata e, infatti, per un verso confermata in tempi ben susseguenti al 2011, per altro verso tale da non potersi più riferire solo al rigetto dell’eccezione di prescrizione allora effettuato.
È appena il caso di osservare che la questione della giurisdizione non incide affatto sulla consapevolezza della cristallizzazione della lesione e quindi sulla possibilità, per il danneggiato, di interrompere la sua inerzia e il decorso dell’estinzione prescrizionale che, come noto, non ha bisogno di iniziative giurisdizionali ma può ben essere stragiudiziale.
Per lo stesso motivo non ha alcun rilievo l’individuazione della natura dell’azione esperibile mentre la più ampia durata decennale della stessa, quale ricostruita, fa sì che la sua determinazione non abbia avuto alcun riflesso sulla maturazione della stessa.
Quanto alla legittimazione passiva ─ premesso che è dello Stato in persona della Presidenza del consiglio dei Ministri, mentre l’evocazione in giudizio di un diverso organo statuale, qui in ogni caso contestuale alla prima, non si traduce nella mancata instaurazione del
rapporto processuale, costituendo una mera irregolarità, sanabile ai sensi dell’art. 4 della legge n. 260 del 1958 (Cass., Sez. U., 27/11/2018, n. 30649), sicché solo se diretta nei confronti della sola Università l’interruzione della prescrizione risulta inidonea (Cass., 25/07/2019, n. 20099) ─ nella fattispecie non emerge, né è dedotta, un’eventuale attività interruttiva nei confronti dell’ente universitario o altri soggetti, fermo restando che dalla stessa normativa del 1999 doveva ragionevolmente desumersi che il destinatario del credito era individuabile nell’amministrazione statale e non nell’autonomia universitaria.
È opportuno ribadire, quanto alla remunerazione, che a séguito dell’intervento con il quale il legislatore – dettando l’art. 11 della legge 19 ottobre 1999, n. 370 – ha effettuato una aestimatio del danno, alla precedente obbligazione risarcitoria per mancata attuazione delle direttive si è sostituita un’obbligazione satisfattiva avente natura di debito di valuta, iscritta in una cornice di disciplina comunitaria nella quale non è rinvenibile una definizione di retribuzione adeguata, né sono posti i criteri per la determinazione della stessa, come ribadito ferma, pure in chiave CEDU, la non irrisorietà della quantificazione nazionale – anche dalla pronuncia, evocata in ricorso, della Corte di giustizia, 24 gennaio 2018, C-616/16 e C617-16 (Cass., 24/01/2020, n. 1641, cui si rimanda per una più ampia ricostruzione giurisprudenziale).
Questa pronuncia per un verso ribadisce che non vi è mai stata alcuna indicazione unionale sulla quantificazione della «adeguata remunerazione», per altro verso non affronta il tema qui discusso della decorrenza prescrizionale.
Quanto sopra è in linea con ciò che si deve dire per la disciplina del trattamento economico dei medici specializzandi di cui all’art. 39 del d.lgs. n. 368 del 1999, applicabile, per effetto di ripetuti differimenti, in favore dei medici iscritti alle scuole di specializzazione
a decorrere dall’anno accademico 2006-2007 e non a quelli iscritti negli anni antecedenti, che, ove a regime secondo la normativa statale di recepimento, restano soggetti alla disciplina di cui al d.lgs. n. 257 del 1991, sia sotto il profilo ordinamentale che economico, giacché, in particolare, la direttiva n. 93/16, rispetto alla quale quella n. 2005/36 nulla sposta, non ha introdotto alcun nuovo e ulteriore obbligo con riguardo alla misura della borsa di studio (Cass., 14/03/2018, n. 6355, e le moltissime successive conformi, quale, solo a titolo esemplificativo, Cass., 24/05/2019, n. 14168).
Ciò per dire che non è individuabile alcun momento in cui si è stabilita una remunerazione adeguata da valutarsi come la sola recettiva della disciplina unionale, tale da poter concludere, anche in tesi, che esclusivamente a far data da allora avrebbe potuto decorrere la prescrizione.
Non vi è alcuna violazione della normativa sovranazionale, e alcuna irragionevolezza o disparità di trattamento posto che l’incremento previsto nell’esercizio della discrezionalità legislativa per i corsi di specializzazione collocati in tempi successivi, non escludendo l’adeguatezza della remunerazione precedente, è stato espressione di una scelta che rientra nelle opzioni legislative di regolare diversamente situazioni successive nel tempo (cfr. Cass. 19/02/2019, n. 4809; 18/02/2021, n. 4307).
4. Né alcun valore argomentativo può riconoscersi al richiamo, da parte del ricorrente, a due ordinanze interlocutorie ─ non specificamente indicate ma verosimilmente da identificare con le ordinanze della (ora soppressa) Sesta Sezione di questa Corte n. 9101/2022 del 21/03/2022 e n. 15339 del 13/05/2022 ─ che, nel delibare ricorsi aventi ad oggetto la medesima questione, hanno ritenuto di rimettere gli atti alla sezione ordinaria, per una opportuna rivalutazione della materia, rilevandosi in particolare con la prima di esse che « le argomentazioni poste dai ricorrenti hanno carattere di
novità rispetto al tralatizio orientamento di questa Corte e che esse trovano fondamento in diversi arresti della Corte di Giustizia, cui i giudici del merito danno seguito con pronunce che non si conformano al richiamato indirizzo giurisprudenziale ».
Quella espressa nelle richiamate ordinanze interinali è infatti valutazione per definizione del tutto sommaria e, comunque, del tutto priva di specifici argomenti e come tale in nessun modo vincolante, neppure sul piano logico.
Né da esse né da quanto esposto in ricorso è dato trarre quali fossero gli argomenti che, spesi in quella sede dai ricorrenti, dovrebbero palesarsi come innovativi e tali da giustificare non solo la trattazione in pubblica udienza ma addirittura un ripensamento dell’orientamento che, come visto, è più che consolidato in argomento.
Varrà comunque rilevare che, con la sentenza resa sul ricorso oggetto della prima di esse (iscritto al n. 20545/2020 R.G.), questa Corte lo ha dichiarato inammissibile, ai sensi dell’art. 360 -bis n. 1 cod. proc. civ., sulla base delle medesime considerazioni sopra espresse, alla luce delle quali -ha soggiunto -« si rivela destituita di ogni fondamento la pur sommaria valutazione espressa nella ricordata ordinanza interinale della Sesta sezione .
« Diversamente da quanto in quella sede opinato, invero, le argomentazioni poste dai ricorrenti non hanno carattere di novità, trovano tutte confutazione nei rilievi sopra esposti e non può ravvisarsi ragione alcuna che possa indurre, per essi, ad un ripensamento » (Cass. sent. n. 28130 del 27/09/2022) .
È stato in quella occasione anche affermato ─ e va anche qui ribadito trattandosi di argomento spese anche nel ricorso in esame ─ che « può giovare il richiamo a pronunce di merito che non si conformano all’univoco indirizzo della S.C., sulla base di argomenti che, come s’è visto, risultano però da questa esaminati e confutati o
comunque con essa incompatibili .
« Non è pensabile, invero, che l’art. 360bis num. 1 cod. proc. civ. abbia come presupposto che i precedenti della Corte di cassazione -e ciò ancorché si tratti di un solo precedente, ma non è questo, come detto, il caso in esame – si debbano considerare rilevanti ai fini della sua applicazione solo a condizione che abbiano riscosso ‘ successo ‘ univoco nella giurisprudenza di merito e non invece se non abbiano dispiegato efficacia persuasiva in modo univoco, cioè se abbiano incontrato ‘ resistenze ‘ nella giurisprudenza di merito: invero, se nel dibattito insorto nella giurisprudenza di merito sono emersi argomenti per superare i precedenti della Corte, il ricorrente in Cassazione li dovrà prospettare sempre per postulare il superamento dei medesimi; se, invece, nella giurisprudenza di merito i precedenti siano stati contraddetti in spregio della nomofilachia sulla base di argomenti già discussi e disattesi dai precedenti di legittimità, il ricorrente non potrà pretendere di formulare il suo ricorso semplicemente adducendo tale situazione, che, pur non essendo il nostro ordinamento improntato al regime c.d. dello stare decisis , si pone – senza argomenti – in manifesto contrasto con la funzione nomofilattica attribuita alla Corte di cassazione (cfr., in motivazione, Cass. 29/09/2015, n. 19231 e, negli stessi termini, da ultimo, sempre in motivazione, Cass. 11/02/2022, nn. 4580-4582) » (Cass. n. 28130 del 2022, cit.; v. anche, in termini, Cass. n. 31320 del 24/10/2022; n. 14618 del 25/05/2023; n. 14478 del 24/05/2023; n. 12815 dell’11/05/2023; n. 3284 del 02/02/2023 ).
Analogo esito ha poi avuto anche il ricorso cui è riferita la seconda delle ordinanze interlocutorie sopra richiamate (v. Cass. n. 23474 del 1° agosto 2023).
Il ricorso deve dunque essere dichiarato inammissibile.
Alla soccombenza segue la condanna del ricorrente alla rifusione, in favore della amministrazione controricorrente, delle
spese del presente giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo.
Poiché la parte vittoriosa è una amministrazione dello Stato, nei confronti della quale vige il sistema della prenotazione a debito dell’imposta di bollo dovuta sugli atti giudiziari e dei diritti di cancelleria e di ufficiale giudiziario, la condanna alla rifusione delle spese vive deve essere limitata al rimborso delle spese prenotate a debito, come già ritenuto più volte da questa Corte (v. ex aliis Cass. 18/04/2000, n. 5028; Cass. n. 1058 del 2019).
Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1 -bis dello stesso art. 13.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso. Condanna il ricorrente alla rifusione, in favore della Presidenza del Consiglio dei Ministri, delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.200 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1quater del d.P .R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza