Sentenza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 18383 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 3 Num. 18383 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 06/07/2025
Oggetto
Responsabilità civile P.A. -Inadempimento direttive comunitarie -Dirigenti medici -Artt. 3 (riposo ogni 24 ore) e 6 (48 ore settimanali) della Direttiva 2003/88
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 20164/2024 R.G. proposto da COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME PaolaCOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOME e COGNOME Marco, n.q. di eredi del Dott. COGNOME NOME; COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME MarcoCOGNOME NOMECOGNOME COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME RoccoCOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NataleCOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME Antonio; COGNOME tutti rappresentati e difesi dall’Avv. NOME COGNOME domiciliati digitalmente ex lege ;
-ricorrenti –
contro
Presidenza del Consiglio dei ministri, rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliati digitalmente ex lege ;
-controricorrente – avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma, n. 1089/2024, pubblicata il 16 febbraio 2024.
Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 27 giugno 2025 dal Consigliere NOME COGNOME
udito l’Avvocato dello Stato NOME COGNOME
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso in riferimento al primo motivo in quanto infondato, assorbito il secondo.
FATTI DI CAUSA
Numerosi dirigenti medici, tra i quali gli odierni ricorrenti, convennero in giudizio davanti al Tribunale di Roma la Presidenza del Consiglio dei Ministri e il Ministero della Salute chiedendone la condanna al risarcimento dei danni subiti per la violazione delle direttive europee 93/104/CE e 2003/88/CE nella parte in cui obbligavano gli Stati membri ad adottare normative interne che garantissero ai lavoratori un periodo minimo di riposo di 11 ore consecutive nel corso di ogni periodo di 24 ore (riposo giornaliero) e una durata media dell’orario superiore alle quarantotto ore, per ogni periodo di 7 giorni (durata massima settimanale del lavoro).
Esposero infatti che, nel periodo compreso tra il 2008 e il 25 novembre 2015, in base alle disposizioni dei turni e degli incarichi delle rispettive Aziende datrici di lavoro:
-avevano svolto la loro attività lavorativa per un periodo di ore settimanali eccedenti rispetto a quelle massime previste dall’6, punto
2, della Direttiva 93/104/CE del Consiglio dell’Unione Europea del 23 novembre 1993 e dall’art. 6, lett. b), della Direttiva 2003/88/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 4 novembre 2003;
-non avevano goduto dei riposi giornalieri previsti dall’art. 3 di entrambe le Direttive (periodo minimo di riposo di undici ore consecutive nel corso di ogni periodo di ventiquattro ore).
Evidenziarono che:
-n ell’ordinamento italiano la materia dell’orario di lavoro era stata organicamente disciplinata dal d.lgs. n. 66 del 2003, di adeguamento dell’ordinamento interno alla Direttiva 93/104/CE modificata dalla successiva Direttiva 2000/34/CE -poi sostituita dalla Direttiva 2003/88/CE; il citato decreto legislativo prevedeva infatti:
un periodo minimo di riposo di undici ore consecutive nel corso di ogni periodo di ventiquattro ore (art. 7);
un orario settimanale medio non superiore a quarantotto ore, compreso il lavoro straordinario, da calcolarsi in relazione ad un periodo non superiore a quattro mesi o, per ipotesi particolari, a sei mesi (art. 4);
-successivamente, però, l’art. 3, comma 85, della legge n. 244 del 2007 (legge finanziaria del 2008), introducendo il comma 6bis dell’art. 17 del d. lgs. n. 66 del 2003, aveva escluso dal campo di applicazione della disciplina prevista per il riposo giornaliero (art. 7) il personale del ruolo sanitario del Servizio sanitario nazionale, rimandando per esso « alle vigenti disposizioni contrattuali in materia di orario di lavoro, nel rispetto dei princìpi generali della protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori »;
-i noltre, il comma 13 dell’art. 41 del d.l. n. 112 del 2008 aveva escluso il personale delle aree dirigenziali degli Enti e delle Aziende del Servizio Sanitario Nazionale dal campo di applicazione degli artt. 4 (durata massima dell’orario settimanale) e 7 (riposo giornaliero) del d. lgs. n. 66 del 2003, attribuendo alla contrattazione collettiva la
definizione delle modalità atte a garantire ai dirigenti condizioni di lavoro tali da consentire una protezione appropriata ed il pieno recupero delle energie psico-fisiche;
-queste disposizioni avevano di fatto privato i medici del loro diritto ad un limite nell’orario lavorativo settimanale e ad un periodo minimo di riposo giornaliero; per tale ragione, nel maggio 2013, la Commissione aveva inviato all’Italia un parere motivato (MEMO/13/470) in cui le chiedeva di adottare le misure necessarie per assicurare che la legislazione nazionale ottemperasse alla direttiva, rilevando, tra l’altro, che « i medici attivi nel servizio sanitario pubblico italiano sono formalmente classificati quali “dirigenti”, senza necessariamente godere delle prerogative o dell’autonomia dirigenziali durante il loro orario di lavoro »;
-d i fronte all’inerzia al riguardo registrata, nel febbraio 2014 la Commissione aveva deferito l’Italia alla C .G.U.E. con la procedura d’infrazione n. 2911/4185, per non avere applicato correttamente la direttiva sull’orario di lavoro ai medici operanti nel servizio sanitario pubblico;
-s olo allora l’Italia, con l’art. 14 della legge n. 161 del 2014 e con efficacia dal 25 novembre 2015, aveva abrogato il comma 6bis dell’art. 17 del d.lgs. n. 66 del 2003 ed il comma 13 dell’art. 41 del d.l. n. 112 del 2008;
-la violazione della normativa comunitaria era dunque circoscritta al periodo compreso fra l’entrata in vigore , da un lato, della legge n. 244 del 2007 (1° gennaio 2008) e del d.l. n. 112 del 2008 (25 giugno 2008) -contenenti, come visto, disposizioni derogatorie rispetto alla disciplina del 2003 -e , dall’altro, il prodursi dell’effetto abrogativo delle citate deroghe disposto dalla l. n. 161 del 2014 (25 novembre 2015).
Con sentenza n. 10981 del 2020 il Tribunale rigettò la domanda rilevando, tra l’altro, che, nel caso dei dirigenti medici, data
l’ampiezza delle deroghe consentite dagli artt. 17 e 18 della Direttiva non era configurabile la dedotta violazione e che, inoltre, il superamento dell’orario normale di lavoro di norma è conseguenza dell’attività svolta nella finalità di raggiungere l’obiettivo assegnato in base alla natura e alle caratteristiche dei programmi da realizzare, alle attitudini e capacità professionali del singolo dirigente, accertate con apposite procedure valutative di verifica formalizzato in un incarico con l’indicazione dell’incentivo economico connesso (art. 15 d.lgs. n. 502 del 1992).
Con sentenza n. 1089/2024, resa pubblica il 16 febbraio 2024, la Corte d’appello di Roma ha rigettato l’appello sulla scorta della motivazione che qui di seguito conviene trascrivere nei suoi passaggi essenziali:
─ « rilievo assorbente ha il difetto di prova delle modalità di svolgimento dell’attività da parte degli specializzandi; al di là delle deduzioni contenute nei prospetti, del tutto generici in quanto contenenti dati di sintesi di tutta l’attività prestata da ciascun specializzando presso singole ASL, difetta una prospettazione analitica da parte di ciascun medico delle modalità di svolgimento dell’attività svolta presso ogni singola Asl »;
─ « sotto altro autonomo profilo si osserva che non potrebbe trovare applicazione il principio della non contestazione » (segue la citazione testuale di diverse massima della S.C. relative ai presupposti ed ai limiti di operatività del menzionato principio);
─ « sotto altro profilo si osserva che in ogni caso non può trovare applicazione il principio della non contestazione, posto che il fondamento di fatto della pretesa non è costituito da un elemento singolo e specifico, ma dalle modalità di svolgimento di un’attività che avrebbe dovuto essere compiutamente allegata e dimostrata; il che esclude in radice la prova di un danno eziologicamente dipendente dall’asserita violazione di direttive comunitarie ; l ‘allegazione dei danni
subiti è infatti del tutto generica »;
─ « nella fattispecie in esame sotto altro ulteriore profilo non poteva certo procedersi a liquidazione equitativa non avendo l’appellante fornito gli elementi parametrici per la liquidazione ex art 1226 c.c. » (segue citazione di giurisprudenza sul tema della liquidazione equitativa del danno).
Per la cassazione di tale sentenza NOME COGNOME e gli altri dirigenti medici indicati in epigrafe, nonché gli eredi di uno di essi deceduto nelle more del giudizio di merito, propongono ricorso articolando due motivi, cui resiste l’Amministrazione intimata depositando controricorso.
Il P .M. ha depositato conclusioni scritte con le quali ha chiesto il rigetto del ricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
La sentenza impugnata è stata resa anche nei confronti di altri dirigenti medici nei cui confronti il ricorso non è stato notificato.
Tuttavia, trattandosi di litisconsorti facoltativi ed essendo applicabile, in conseguenza, l’art. 332 cod. proc. civ., non occorre far luogo all’ordine di notificazione dell’impugnazione ai sensi di tale norma, essendo ormai l’impugnazione per essi preclusa.
Con il primo motivo i ricorrenti denunciano, ai sensi dell’art. 360, comma primo, num. 3, cod. proc. civ., « violazione e falsa applicazione delle norme e dei principi in materia di risarcimento del danno derivante da omesso e/o tardivo recepimento di direttive comunitarie, degli artt. 5 e 189 del Trattato CEE; direttiva 93/104/CE del 23 novembre 1993, in attuazione dei principi stabiliti dalla Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori, adottata nel Consiglio europeo di Strasburgo del 9 dicembre 1989 dai Capi di Stato o di governo di undici Stati membri, e con particolare riferimento al punto 7, primo comma, al punto 8 ed al punto 19;
direttiva 2000/34/CE del 22 giugno 2000; direttiva 2003/88/CE; violazione e falsa applicazione dell’art. 1 del Protocollo n. 1 alla CEDU (diritto al rispetto dei beni); v iolazione e falsa applicazione dell’art. 1 del Protocollo n. 1 alla CEDU (diritto al rispetto dei beni); degli artt. 112 e 132 c.p.c. ».
Lamentano che la Corte territoriale non abbia colto il vero thema decidendum del giudizio e che, inoltre, attesa l’estrema sinteticità della motivazione anche in relazione al richiamo della inapplicabilità del principio di non contestazione, « non sia dato di comprendere in quali termini le modalità di svolgimento dell’attività degli odierni ricorrenti (non specializzandi!) possa assumere un ruolo ai fini della decisione ».
Con il secondo motivo ─ rubricato « violazione e falsa applicazione delle norme e dei principi in materia di risarcimento del danno derivante da omesso e/o tardivo recepimento di direttive comunitarie, degli artt. 5 e 189 del Trattato CEE; direttiva 93/104/CE del 23 novembre 1993, in attuazione dei principi stabiliti dalla Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori, adottata nel Consiglio europeo di Strasburgo del 9 dicembre 1989 dai Capi di Stato o di governo di undici Stati membri, e con particolare riferimento al punto 7, primo comma, al punto 8 ed al punto 19; direttiva 2000/34/CE del 22 giugno 2000; direttiva 2003/88/CE; violazione e falsa applicazione dell’art. 1 del Protocollo n. 1 alla CEDU (diritto al rispetto dei beni); v iolazione e falsa applicazione dell’art. 1 del Protocollo n. 1 alla CEDU (diritto al rispetto dei beni); dell’art. 1226 c.c. in relazione al n. 3 dell’art. 360 c.p.c. » ─ i ricorrenti lamentano che « in modo poco comprensibile » la Corte territoriale abbi a ritenuto che l’allegazione dei danni subiti fosse del tutto generica, non potendosi procedere a liquidazione equitativa non avendo l’appellante fornito gli elementi parametrici per la liquidazione ex art. 1226 c.c..
Rilevano che:
─ secondo la giurisprudenza unionale « il superamento della durata media massima di lavoro settimanale di cui al predetto art. 6, lett. b), privando il lavoratore di siffatto riposo, gli cagiona, per ciò solo, un danno, poiché viene così compromessa la sua sicurezza e la sua salute »;
─ parimenti, secondo la giurisprudenza della S.C., la mancata fruizione del riposo settimanale è fonte di danno non patrimoniale che deve essere presunto perché « l’interesse del lavoratore leso dall’inadempimento datoriale ha una diretta copertura costituzionale nell’art. 36 Cost., sicché la lesione dell’interesse espone direttamente il datore al risarcimento del danno… » (Cass. Sez. U n. 142 del 2013; Cass. 24563 del 2016, 16665 del 2015, 24180 del 2013)».
4. Il primo motivo è infondato.
La sentenza impugnata si connota bensì per una grave carenza di cura e attenzione sul piano redazionale; questa però non impedisce di cogliere la ragione posta a fondamento della decisione.
Va rammentato in proposito che, secondo principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, « la riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella
motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione » (Cass. Sez. U. Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629830).
Intanto, dunque, un vizio di motivazione omessa o apparente è configurabile, in quanto, per ragioni redazionali o sintattiche o lessicali (e cioè per ragioni grafiche o legate alla obiettiva incomprensibilità o irriducibile reciproca contraddittorietà delle affermazioni delle quali la motivazione si componga), risulti di fatto mancante e non possa dirsi assolto il dovere del giudice di palesare le ragioni della propria decisione.
Nel caso di specie non è ravvisabile alcuna delle suindicate gravi anomalie argomentative.
La sentenza impugnata, per quanto sia stigmatizzabile la tecnica redazionale, rende comunque percepibili le ragioni poste alla base del rigetto, in definitiva rappresentate dal ritenuto difetto di allegazione e prova dei presupposti della domanda risarcitoria.
Nel merito, poi, tale decisione si rivela in iure corretta e resiste agli argomenti di critica pure prospettati in ricorso, in sostanza sintetizzabili nel rilievo di fondo secondo cui « le modalità di svolgimento dell’attività svolta dai ricorrenti presso ogni singola Asl risultano irrilevanti, avendo rilievo, esclusivamente, la circostanza ‘non contestata’ che i medici avessero superato il limite delle 48 ore settimanali (avuto riguardo al valore medio semestrale) e fossero stati violati i vincoli sul riposo giornaliero ».
Al riguardo è opportuno rammentare in premessa, in termini generali, l’indirizzo assunto, ormai da lungo tempo, dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea in ordine alla responsabilità dei singoli Stati nei diretti confronti di individui e gruppi in relazione alla violazione dei relativi diritti soggettivi che trovino fondamento nella disciplina dell’Unione : evenienza destinata a compiersi ogniqualvolta
al singolo Stato (indipendentemente dall’identità degli apparati o dagli organi legislativi, amministrativi o giudiziari cui risale l’adozione delle determinazioni contestate) sia imputabile la responsabilità di aver provocato con immediatezza la lesione di prerogative proprie dei singoli che, riconosciute e protette dall’ordinamento europeo, si sia tradotta nella produzione di conseguenze pregiudizievoli, effettive e concrete, a danno di questi.
6.1. Si tratta di principi andatisi progressivamente concretizzando ─ come opportunamente ricordato nelle note in questa sede depositate per iscritto dal Procuratore Generale presso questa Corte ─ a partire dal principio consacrato per la prima volta nella sentenza COGNOME e COGNOME del 19 novembre 1991 (cause C-6/90 C-9/90), cui ha fatto seguito la pronuncia RAGIONE_SOCIALE del 5 marzo 1996, causa C-46, in cui la Corte di Lussemburgo ha posto le basi per la configurabilità di una responsabilità a carico degli Stati membri per l’omessa o difettosa trasposizione di direttive, con conseguente obbligo di risarcire il danno arrecato ai cittadini da un illecito non altrimenti definibile se non come commesso dallo Stato nell’esercizio della funzione legislativa.
6.2 . L’orientamento così inaugurato si è successivamente sviluppato e consolidato attraverso l’adozione di una serie di decisioni (cfr. Corte di Giustizia Europea del 30 settembre 2003, in causa C224/01, COGNOME ; Corte di Giustizia Europea del 13 giugno 2006, in causa C- 173/03, Traghetti del Mediterraneo e successive) che hanno dato luogo alla stabilizzazione di un vero e proprio sistema risarcitorio (a carattere sanzionatorio) volto a garantire il ristoro delle conseguenze negative derivanti dall’esercizio (tanto omissivo, quanto commissivo), da parte dei singoli Stati membri, della propria attività legislativa in conflitto con i principi del diritto dell’Unione.
6.3. In questo contesto sistematico, i principi che attengono all’imputazione della responsabilità in capo al singolo Stato, pur
confermando l’inevitabilità del riscontro di un indispensabile nesso di causalità tra il comportamento lesivo e il danno denunciato, prescindono dalla ricerca dei consueti coefficienti soggettivi del dolo e della colpa (secondo la tradizionale impostazione storica dei singoli ordinamenti statuali), per muovere alla ricerca del carattere oggettivamente « grave e manifesto » della violazione ascritta allo Stato danneggiante.
Secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia, infatti, la responsabilità dello Stato membro discende dal concreto riscontro di tre specifiche condizioni:
─ « la prima di queste condizioni è che il risultato prescritto dalla direttiva implichi l’attribuzione di diritti a favore dei singoli;
─ la seconda condizione è che il contenuto di tali diritti possa essere individuato sulla base delle disposizioni della direttiva;
─ infine, la terza condizione è l’esistenza di un nesso di causalità tra la violazione dell’obbligo a carico dello Stato e il danno subito dai soggetti lesi » (Corte di giustizia, 19 novembre 1991, cause riunite C 6-90 e C-9/90, COGNOME e COGNOME , punto 40).
Deve inoltre trattarsi di una « violazione sufficientemente caratterizzata » (Corte di giustizia 5 marzo 1996, RAGIONE_SOCIALE , cause riunite C-46/93 e C-48/93, pt. 51, che indica questa quale seconda condizione della responsabilità risarcitoria dello Stato membro), il che si verifica in caso di « violazione grave e manifesta, da parte dello Stato membro, dei limiti posti al suo potere discrezionale » (sent. cit. caso RAGIONE_SOCIALE , punto 55).
6.4. Nel dare corpo a tale indirizzo ─ e, segnatamente, all’individuazione del significato da ascrivere al carattere « grave e manifesto » della violazione statale ─ la Corte di giustizia ha ulteriormente precisato come « fra gli elementi che il giudice competente può eventualmente prendere in considerazione, vanno sottolineati il grado di chiarezza e di precisione della norma violata,
l’ampiezza del potere discrezionale che tale norma riserva alle autorità nazionali o comunitarie, il carattere intenzionale o involontario della trasgressione commessa o del danno causato, la scusabilità o l’inescusabilità di un eventuale errore di diritto, la circostanza che i comportamenti adottati da un’istituzione comunitaria abbiano potuto concorrere all’omissione, all’adozione o al mantenimento in vigore di provvedimenti o di prassi nazionali contrari al diritto comunitario. In ogni caso, una violazione del diritto comunitario è manifesta e grave quando continua nonostante la pronuncia di una sentenza che ha accertato l’inadempimento contestato, di una sentenza pregiudiziale o di una giurisprudenza consolidata della Corte in materia, dalle quali risulti l’illegittimità del comportamento in questione » (Corte di giustizia, sent. cit., caso RAGIONE_SOCIALE , punti 55-57).
Non si dubita tra le parti, né lo fanno i giudici di merito, che le menzionate Direttive 93/104/CE e 2003/88/CE, nel fissare limiti all’orario giornaliero di lavoro (art. 3 Dir. 2003/88/CE) e alla durata massima settimanale del lavoro (artt. 6, pt. 2, Dir. 93/104/CE e 6, lett. b, Dir . 2003/88/CE), nell’intento di rafforzare la tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori, siano univocamente idonee ad attribuire diritti a favore dei singoli e che tanto facciano in modo che il contenuto di tali diritti possa essere individuato sulla base delle disposizioni delle direttive medesime.
Ad essere dibattuto è piuttosto il tema delle deroghe a tali disposizioni pure previste dalla normativa europea, quale misura di « flessibilità », « in funzione dei problemi che possono essere sollevati dall’organizzazione dell’orario di lavoro nell’impresa » (Dir. 2003/88/CE, Considerando 15).
Si tratta, più precisamente, delle deroghe previste dagli artt. 17, 18 e 22 della citata Direttiva 2003/88/CE, il cui testo conviene qui di seguito riportare nelle parti che vengono in rilievo, rammentandosi
che ogni articolo è di regola al suo interno suddiviso in paragrafi (numerati) o in commi (non numerati) e il paragrafo può essere suddiviso al suo interno in commi (non numerati):
-Art. 17 (« Deroghe »):
« 1. Nel rispetto dei principi generali della protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori, gli Stati membri possono derogare agli articoli 3, 4, 5, 6, 8 e 16 quando la durata dell’orario di lavoro, a causa delle caratteristiche dell’attività esercitata, non è misurata e/o predeterminata o può essere determinata dai lavoratori stessi e, in particolare, quando si tratta:
di dirigenti o di altre persone aventi potere di decisione autonomo; …
Le deroghe di cui ai paragrafi 3, 4 e 5 possono essere adottate con legge, regolamento o con provvedimento amministrativo, ovvero mediante contratti collettivi o accordi conclusi fra le parti sociali, a condizione che vengano concessi ai lavoratori interessati equivalenti periodi di riposo compensativo oppure, in casi eccezionali in cui la concessione di tali periodi equivalenti di riposo compensativo non sia possibile per ragioni oggettive, a condizione che venga loro concessa una protezione appropriata.
In conformità al paragrafo 2 del presente articolo le deroghe agli articoli 3, 4, 5, 8 e 16 possono essere concesse:
…
per le attività caratterizzate dalla necessità di assicurare la continuità del servizio o della produzione, in particolare, quando si tratta:
…
di servizi relativi all’accettazione, al trattamento e/o alle cure prestati da ospedali o stabilimenti analoghi, comprese le attività dei medici in formazione, da case di riposo e da carceri »;
-Art. 18 (« Deroghe mediante contratto collettivo »)
« Si può derogare agli articoli 3, 4, 5, 8 e 16 mediante contratti collettivi o accordi conclusi tra le parti sociali a livello nazionale o regionale o, conformemente alle regole fissate da dette parti sociali, mediante contratti collettivi o accordi conclusi tra le parti sociali ad un livello inferiore.
Gli Stati membri in cui, giuridicamente, non esiste un sistema che garantisca la conclusione di contratti collettivi o di accordi tra le parti sociali a livello nazionale o regionale, per i settori contemplati dalla presente direttiva, o gli Stati membri in cui esiste un quadro legislativo specifico a tal fine, e nei limiti di tale quadro, possono, conformemente alle legislazioni e/o prassi nazionali, consentire deroghe agli articoli 3, 4, 5, 8 e 16 mediante contratti collettivi o accordi conclusi tra le parti sociali ad un livello collettivo adeguato.
Le deroghe di cui al primo e secondo comma sono consentite soltanto a condizione che ai lavoratori interessati siano accordati periodi equivalenti di riposo compensativo o, in casi eccezionali in cui la concessione di tali periodi equivalenti di riposo compensativo non sia possibile per motivi oggettivi, a condizione che ai lavoratori interessati sia accordata una protezione appropriata.
Gli Stati membri possono prevedere norme:
per l’applicazione del presente articolo ad opera delle parti sociali; e
per l’estensione delle disposizioni dei contratti collettivi o accordi conclusi in conformità del presente articolo ad altri lavoratori, conformemente alle legislazioni e alle prassi nazionali »;
-Art. 22 (« Disposizioni varie »)
« 1. Gli Stati membri hanno facoltà di non applicare l’articolo 6, nel rispetto dei principi generali della protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori, a condizione che assicurino, mediante le necessarie misure a tale scopo, che:
nessun datore di lavoro chieda a un lavoratore di lavorare più
di 48 ore nel corso di un periodo di 7 giorni, calcolato come media del periodo di riferimento di cui all’articolo 16, lettera b), a meno che non abbia ottenuto il consenso del lavoratore all’esecuzione di tale lavoro; … ».
A tali disposizioni occorre raffrontare il testo degli artt. 3, comma 85, legge n. 244 del 2007 e 41, comma 13, d.l. n. 112 del 2008 (convertito, con modificazioni, dalla l. n. 133 del 2008), trattandosi di stabilire se con essi possa dirsi realizzata, per il limitato periodo della loro vigenza (come detto da gennaio 2008 al 25 novembre 2015), una violazione « grave e manifesta » delle suindicate norme unionali.
Reputa il Collegio che a tale quesito debba darsi risposta affermativa con riferimento sia alle disposizioni relative al riposo orario giornaliero (art. 3 di entrambe le Direttive), sia a quelle che fissano limiti alla durata massima settimanale del lavoro .
Le citate norme nazionali (asseritamente violative delle disposizioni delle direttive in tema di riposo giornaliero e durata massima settimanale del lavoro) prevedono rispettivamente:
─ Art. 3, comma 85, d.l. 24 dicembre 2007, n. 244:
« All’articolo 17 del decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66, è aggiunto, in fine, il seguente comma:
«6bis . Le disposizioni di cui all’articolo 7 non si applicano al personale del ruolo sanitario del Servizio sanitario nazionale, per il quale si fa riferimento alle vigenti disposizioni contrattuali in materia di orario di lavoro, nel rispetto dei princìpi generali della protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori »:
─ Art. 41, comma 13, d.l. 25 giugno 2008 n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133:
« Al personale delle aree dirigenziali degli Enti e delle Aziende del Servizio Sanitario Nazionale, in ragione della qualifica posseduta e
delle necessità di conformare l’impegno di servizio al pieno esercizio della responsabilità propria dell’incarico dirigenziale affidato, non si applicano le disposizioni di cui agli articoli 4 e 7 del decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66. La contrattazione collettiva definisce le modalità atte a garantire ai dirigenti condizioni di lavoro che consentano una protezione appropriata ed il pieno recupero delle energie psicofisiche ».
11. Tanto premesso, devesi anzitutto rilevare, con riferimento al riposo giornaliero, che il rimando che nelle citate disposizioni legislative interne si fa alla contrattazione collettiva, accompagnato dalla indicazione della necessaria definizione, ad essa demandata, delle « modalità atte a garantire ai dirigenti condizioni di lavoro che consentano una protezione appropriata ed il pieno recupero delle energie psico-fisiche », non è di per sé sufficiente ad escludere la dedotta violazione, né il suo carattere grave e manifesto.
È bensì vero che gli artt. 17, par. 2, e 18 della Direttiva 2003/88/CE prevedono, come visto, che all’art. 3 della medesima Direttiva gli Stati membri possano derogare (anche) « mediante contratti collettivi o accordi conclusi fra le parti sociali a livello nazionale o regionale o, conformemente alle regole fissate da dette parti sociali, mediante contratti collettivi o accordi conclusi tra le parti sociali ad un livello inferiore » e tuttavia una tale deroga, per le norme in tema di riposo giornaliero, è consentita « a condizione che vengano concessi ai lavoratori interessati equivalenti periodi di riposo compensativo oppure, in casi eccezionali in cui la concessione di tali periodi equivalenti di riposo compensativo non sia possibile per ragioni oggettive, a condizione che venga loro concessa una protezione appropriata » (art. 17, par. 2; art. 18, terzo comma).
Onde verificare se una tale deroga rispetti o meno la condizione prevista dalle norme europee non ci si può pertanto fermare al testo delle citate disposizioni normative interne, ma è necessario verificare
ciò che era previsto nei contratti collettivi cui quelle disposizioni rimandavano in punto di riposo giornaliero, e in particolare a quelli conclusi a livello nazionale, posto che, secondo il chiaro disposto dei primi tre commi dell’art. 18 della Direttiva, le deroghe a un livello inferiore sono consentite solo all’interno e nei limiti di un quadro che deve risultare già fissato a livello di contrattazione collettiva nazionale o regionale o, in mancanza, a livello legislativo.
Occorre al riguardo inoltre rimarcare che, venendo dunque necessariamente in rilievo quanto previsto nei contratti collettivi nazionali di settore, la verifica del rispetto delle condizioni predette deve essere compiuta dal giudice ex officio , a tanto non ostando la mancanza di specifica allegazione di parte.
Secondo indirizzo incontrastato nella giurisprudenza di questa Corte, infatti, « la conoscibilità ex officio di un contratto collettivo si atteggia diversamente a seconda che si versi in un’ipotesi di violazione del contratto collettivo nazionale di lavoro privatistico o di un contratto collettivo nazionale del pubblico impiego, atteso che, mentre nel primo caso il contratto è conoscibile solo con la collaborazione delle parti, la cui iniziativa, sostanziandosi nell’adempimento di un onere di allegazione e produzione, è assoggettata alle regole processuali sulla distribuzione dell’onere della prova e sul contraddittorio (che non vengono meno neppure nell’ipotesi di acquisizione giudiziale ex art. 425, comma 4, c.p.c.), nel secondo caso il giudice procede con mezzi propri, secondo il principio iura novit curia» (Cass. Sez. 6-L 05/03/2019, n. 6394, Rv. 653173 -01: nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza gravata che, nel rigettare la domanda del ricorrente volta a conservare il trattamento economico di dirigente medico di secondo livello, aveva riqualificato d’ufficio la fattispecie controversa secondo la disciplina applicabile del CCNL della Dirigenza Medica).
Ebbene, deve darsi atto che, come evidenziato in ricorso,
riprendendo quanto già dedotto in appello dagli odierni ricorrenti, « nella disciplina collettiva prima del 25 novembre 2015, mancano disposizioni in tema di riposo giornaliero, pause, … infatti solamente con la disciplina collettiva dopo il 25 novembre 2015 (CCNL del 21 maggio 2018, relativo al triennio 2016-2018), alcuni di essi vengono normati, in conformità alla normativa europea: riposo giornaliero: non inferiore a 11 ore consecutive (art. 27, comma 5); … ».
In particolare, il C.C.N.L., Area Dirigenza Medico-Veterinaria del S.S.N., Parte Normativa, del 17 ottobre 2008, valido per il quadriennio 2006 -2009 , prevede all’art. 7:
« 1. Nel rispetto dei principi generali di sicurezza e salute dei dirigenti e al fine di preservare la continuità assistenziale, le aziende definiscono, in sede di contrattazione integrativa, ai sensi dell’art. 4, comma 4, del CCNL del 3 novembre 2005, modalità di riposo nelle ventiquattro ore, atte a garantire idonee condizioni di lavoro ed il pieno recupero delle energie psicofisiche dei dirigenti, nonché prevenire il rischio clinico.
In tale ambito, al fine di conformare l’impegno di servizio al ruolo e alla funzione dirigenziale, la contrattazione dovrà prevedere, in particolare, dopo l’effettuazione del servizio di guardia notturna o della turnazione notturna, la fruizione immediata, in ambito diurno, di un adeguato periodo di riposo obbligatorio e continuativo, in misura tale da garantire l’effettiva interruzione tra la fine della prestazione lavorativa e l’inizio di quella successiva.
Le misure previste dai commi precedenti garantiscono ai dirigenti una protezione appropriata evitando che, a causa della stanchezza, della fatica o di altri fattori, sia ridotta l’efficienza della prestazione professionale, aumentando il rischio di causare lesioni agli utenti o a loro stessi, ad altri lavoratori o di danneggiare la loro salute, a breve o a lungo termine.
La contrattazione si svolge nel rispetto della normativa vigente,
tenuto conto delle linee di indirizzo emanate dalle Regioni ai sensi dell’art. 5, lett. k del presente CCNL.
Resta fermo quanto previsto per la programmazione e per la articolazione degli orari e dei turni di guardia dall’art. 14, commi 7 e 8, del CCNL 3.11.2005, tenendo conto di quanto stabilito in materia di riposi giornalieri dal presente articolo.
È fatta salva l’attuale organizzazione del lavoro, purché non sia in contrasto con quanto stabilito nei precedenti commi, da verificarsi a livello aziendale dalle parti entro 90 giorni dalla stipula del presente CCNL ».
Si tratta di disposizione che, nel demandare a sua volta alla contrattazione integrativa aziendale la concreta definizione delle modalità di riposo nelle ventiquattro ore, fissa dei criteri e dei limiti (ai quali la contrattazione di livello inferiore dovrà attenersi) alquanto generici e certamente non rispettosi delle condizioni dettate dalla Direttiva, sia quanto alla durata del riposo giornaliero, sia quanto alla definizione di un riposo compensativo (parlandosi al riguardo, del tutto genericamente, di « un adeguato periodo di riposo obbligatorio e continuativo, in misura tale da garantire l’effettiva interruzione tra la fine della prestazione lavorativa e l’inizio di quella successiva »), sia quanto alla definizione della subordinata misura di « protezione adeguata ».
Lacuna, questa, resa evidente dal raffronto con il ben diverso testo dell’art. 27, commi 5 e 9, del C.C.N.L. del 21 maggio 2018 che, in termini ben più specifici e aderenti alle prescrizioni unionali prevedono, rispettivamente:
« 5. Il lavoratore ha diritto ad un periodo di riposo consecutivo giornaliero non inferiore a 11 ore per il recupero delle energie psicofisiche fatto salvo quanto previsto dal successivo comma 9 . …
Al fine di garantire la continuità assistenziale, da parte del personale addetto ai servizi relativi all’accettazione, al trattamento e
alle cure delle strutture ospedaliere l’attività lavorativa dedicata alla partecipazione alle riunioni di reparto e alle iniziative di formazione obbligatoria determina la sospensione del riposo giornaliero. Il recupero del periodo di riposo non fruito, per il completamento delle undici ore di riposo, deve avvenire immediatamente e consecutivamente dopo il servizio reso. Nel caso in cui, per ragioni eccezionali, non sia possibile applicare la disciplina di cui al precedente periodo, quale misura di adeguata protezione, le ore di mancato riposo saranno fruite nei successivi sette giorni fino al completamento delle undici ore di riposo ».
A maggior ragione la violazione indubbiamente sussiste, ed è grave e manifesta, per quanto riguarda le prescrizioni in tema di durata massima del lavoro settimanale, per le quali ─ giova subito rimarcare ─ non è prevista analoga facoltà di deroga, da parte degli Stati membri, attraverso la contrattazione collettiva.
Ad essere sottratta alla loro osservanza è solo la legislazione che abbia ad oggetto l’organizzazione del lavoro la cui durata:
i ) non è misurata e/o predeterminata a causa delle caratteristiche dell’attività esercitata;
ii ) può essere determinata dai lavoratori stessi e, in particolare, quando si tratta di dirigenti o di altre persone aventi potere di decisione autonomo.
Se ne trae univocamente che la qualifica di « dirigente » ai fini di tale norma rileva non in quanto tale, ovvero per il solo dato formale o nominale, quanto perché, e se, correlabile ad un « potere di decisione autonomo » ai fini della determinazione della durata dell’orario di lavoro.
Il testo della norma europea sul punto è estremamente chiaro, tale per cui non può ritenersi necessaria, affinché se ne possa valutare la violazione, l’esistenza di pronunce della Corte di giustizia che ne precisino ulteriormente, in sede interpretativa, contenuto e
limiti di applicazione.
La questione interpretativa attiene piuttosto alla normativa interna, ovvero alla questione se al dirigente medico possano riconoscersi quei poteri di autonomia decisionale sull’orario di lavoro chiaramente postulati dalla norma unionale.
È questo, però, profilo della controversia che può e deve risolvere il giudice nazionale, non quello europeo (v. Corte di giustizia 09/09/2003, in causa C-151/02, Jaeger , punto 43 e ivi altre pronunce richiamate).
Ebbene, tale questione ─ tutta di diritto interno ─ trova già risposta nella giurisprudenza di questa Corte Suprema, formatasi con riferimento al contesto normativo previgente .
Tali testi normativi -giova premettere -dettavano, per quanto in questa sede interessa, la seguente disciplina, per molti versi analoga a quella cui attiene la questione in scrutinio:
Art. 1 r.d.l. n. 962 del 1923:
« La durata massima normale della giornata di lavoro degli operai ed impiegati nelle aziende industriali o commerciali di qualunque natura, anche se abbiano carattere di Istituti d’insegnamento professionale o di beneficenza, come pure negli uffici, nei lavori pubblici, negli ospedali ovunque è prestato un lavoro salariato o stipendiato alle dipendenze o sotto il controllo diretto altrui, non potrà eccedere le otto ore al giorno o le quarantotto ore settimanali di lavoro effettivo.
Il presente decreto non si applica al personale addetto ai lavori domestici, al personale direttivo delle aziende ed ai commessi
viaggiatori ».
Art. 3 r.d. n. 1955 del 1923 (ora abrogato dall’art. dall’art. 1 L. 7 aprile 2025, n. 56, con salvezza però degli « effetti provvedimentali delle disposizioni prive di effettivo contenuto normativo degli atti abrogati »):
« Agli effetti del comma 2 dell’art. 1 del R.D.L.:
… 2. Si considera «personale direttivo» quello preposto alla direzione tecnica o amministrativa dell’azienda o di un reparto di essa con la diretta responsabilità dell’andamento dei servizi e cioè: gli institori, i gerenti, i direttori tecnici o amministrativi, i capi ufficio ed i capi reparto che partecipano soltanto eccezionalmente al lavoro manuale, esclusi i commessi di negozio e gli altri impiegati di grado comune di cui al numero 3 dell’art. 3 del D.L. 9 febbraio 1919 numero 112, e coloro che pur essendo adibiti alla direzione tecnica di una lavorazione, concorrono con prestazione d’opera manuale, alla esecuzione di essa ».
Ragionando su tali disposizioni, questa Corte (v. Cass. Sez. L n. 11637 del 22/06/2004) ha avuto modo di chiarire che:
─ la seconda di esse ( art. 3 n. 2 del r.d. 10 settembre 1923, n. 1955) fornisce del personale direttivo una particolare qualificazione legale, espressamente diretta « agli effetti del secondo comma dell’art. 1 del r.d.l. 15 marzo 1923, n. 692 convertito in legge 17 aprile 1925 n. 473 »;
─ i n base alla predetta disposizione, da un canto, è da escludere che « l’inquadramento nella categoria del personale direttivo possa derivare dal mero dato formale del conferimento della qualifica e tantomeno dal solo esonero esplicito dall’obbligo di timbrare il cartellino o, addirittura, di sottostare alle limitazioni di orario » (Cass. 30/03/1992, n. 3914); d’altro canto, per la sua espressa specifica limitata funzione (escludere il limite di « orario massimo normale di lavoro », previsto dall’art. 1 del r.d.l. n. 692 del 1923), la predetta
disposizione (art. 3 n. 2 r.d. n. 1955 del 1923) costituisce, nei confronti di ogni altra qualificazione dirigenziale data da norme legislative o collettive, una norma speciale;
─ l a ragione di questa norma è nel rapporto fra mansioni ed orario: queste mansioni sono indicate (ed il dirigente è qualificato) esclusivamente in funzione dell’orario;
─ o gni altra qualificazione normativa, essendo fondata su una diversa ragione, resta inapplicabile;
─ a i fini dell’orario massimo di lavoro, deve pertanto farsi riferimento esclusivamente all’indicata disposizione, secondo cui « si considera personale direttivo quello preposto alla direzione tecnica od amministrativa dell’azienda o d’un reparto di essa con diretta responsabilità dell’andamento dei servizi » (e l’elemento della “direzione” trova risonanza nelle specifiche ipotesi normativamente previste: institori, gerenti, direttori tecnici od amministrativi, capi ufficio e capi reparto);
─ i n tal modo, ai fini del limite orario in esame, l’art. 15 del d.lgs. 30 dicembre 1992 n. 502 (nei cui confronti l’art. 1 del R.D.L. 15 marzo 1923 n. 692 costituisce norma speciale) resta irrilevante;
─ i rrilevanti anche le disposizioni dell’art. 20 del d.P.R. d.P.R. 30 giugno 1972 n. 748 “sullo stato giuridico dei dirigenti statali” e dell’art. 16 della legge 18 maggio 1968 n. 249, in quanto relative ai dipendenti statali.
Non v’è ragione di ritenere tali principi non più attuali in rapporto al mutato quadro normativo nazionale e sovranazionale in tema di limiti dell’orario lavorativo, trattandosi di disposizioni che utilizzano un lessico -e soprattutto postulano esigenze di tutela -per molti versi sovrapponibili a quelli delle previgenti norme, né risulta introdotta una diversa definizione della qualifica dirigenziale in funzione dell’orario.
Varrà al riguardo rammentare che il d.lgs. 8 aprile 2003, n. 66
(recante, come detto, « Attuazione delle direttive 93/104/CE e 2000/34/CE concernenti taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro »), al comma 5 dell’art. 17 prevede testualmente, in termini sostanzialmente riproducenti il tenore dell’art. 17 della Direttiva 2003/88/CE:
« Nel rispetto dei principi generali della protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori, le disposizioni di cui agli articoli 3, 4, 5, 7, 8, 12 e 13 non si applicano ai lavoratori la cui durata dell’orario di lavoro, a causa delle caratteristiche dell’attività esercitata, non è misurata o predeterminata o può essere determinata dai lavoratori stessi e, in particolare, quando si tratta:
di dirigenti, di personale direttivo delle aziende o di altre persone aventi potere di decisione autonomo; … ».
Ed è anche da rimarcare che il Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale, Direzione generale per l’attività ispettiva, con nota prot. n. 25/I/000174 dell’8 febbraio 2007, in risposta a istanza di interpello che chiedeva se « il personale direttivo appartenente alle categorie D e DS, nonché il personale con qualifica dirigenziale del comparto sanità possano essere ricondotti al regime derogatorio previsto dall’art. 17 co. 5 del D. Lgs. n. 66/2003 in materia di riposo giornaliero, pausa, lavoro notturno e durata massima settimanale » ha osservato ─ « acquisito il parere della Direzione generale della Tutela delle Condizioni di Lavoro » ─ che « l’operatività dell’art. 17, comma 5, del D.Lgs. n. 66/2003 presuppone che, a causa delle caratteristiche peculiari dell’attività esercitata, la durata dell’orario di lavoro non risulti quantificata né predeterminabile, ovvero la sua determinazione sia rimessa al lavoratore’. Nel caso prospettato il Ccnl di riferimento prevede una durata determinata delle prestazioni per la totalità delle categorie dei lavoratori citati (D, DS ed il personale con qualifica dirigenziale), pertanto detto personale non sembra rientrare nel regime derogatorio previsto dall’art. 17, comma 5, del D.Lgs. n.
66/2003 in regione delle esplicite previsioni della contrattazione collettiva di settore ».
15. Che la normativa interna non correli la definizione di dirigente medico alla attribuzione di una piena autonomia decisionale sulla organizzazione dell’orario di lavoro è peraltro esplicitamente attestato anche dall’atto con il quale la Commissione europea ha avviato, nel 2011, nei confronti dell’Italia, una procedura d’infrazione ( n. 2011/4185), ex art. 258 del TFUE per la violazione gli artt. 2, 3, 6 e 17, par. 2, della Direttiva 2003/88/CE.
In esso si rileva, infatti, che l’art. 41, comma 13, d.l. n. 112 del 2008 « dilata indebitamente i confini di detta deroga, prevedendo che la garanzia della durata massima del lavoro giornaliero non si applichi al personale, con funzioni dirigenziali, del Servizio Sanitario Nazionale. Tale deroga verrebbe prevista in ragione delle rilevanti mansioni di responsabilità di cui sarebbero investiti tali lavoratori. Tuttavia, risulta alla Commissione che, in Italia, “tutti” I medici operanti nel SSN sono qualificati ufficialmente come “dirigenti”, anche nel caso in cui non rivestano posizioni apicali implicanti una vasta responsabilità e una cospicua autonomia decisionale. Pertanto, verrebbe disattesa la massima già espressa dalla Corte UE, per la quale le deroghe alle norme di durata massima dell’orario di lavoro, per essere compatibili con il diritto UE, devono essere strettamente limitate a quanto necessario a soddisfare gli interessi, cui esse deroghe sono funzionali ».
16. Né a diversa conclusione ─ nel senso, cioè, della piena riconducibilità dei dirigenti medici alla categoria dirigenziale tenuta presente dall’art. 17 della Direttiva 2003/88/CE per sottrarla all’obbligo di rispetto dei limiti da essa dettati quanto alla organizzazione dell’orario di lavoro ─ può condurre di per sé il principio, consolidato nella giurisprudenza della Sezione Lavoro di questa Corte, che esclude, di regola, il diritto dei dirigenti medici al
compenso per le « ore di servizio prestate oltre l’orario contrattualmente previsto sul rilievo che, ai sensi dell’art. 15, comma 3, del d.lgs. n. 502 del 1992 … il dirigente, in relazione all’attività svolta, ai programmi concordati da realizzare e alle specifiche funzioni allo stesso attribuite, è responsabile del risultato anche se richiedente un impegno orario superiore a quello contrattualmente definito » e che, pertanto, l’eventuale superamento dell’orario contrattuale ben può essere oggetto di una scelta del dirigente per il raggiungimento del risultato concordato (cui è collegata una retribuzione di risultato).
Tale principio, e la norma da cui esso è tratto, attengono ad un profilo diverso, quello cioè del trattamento economico del dirigente medico, con specifico riferimento all’eventuale superamento dell’orario di lavoro per essi contrattualmente stabilito.
Da essi non si ricava affatto l’attribuzione di una piena autonomia decisionale ai dirigenti medici (quanto meno a tutti) nella determinazione degli orari di lavoro, ma anzi al contrario si trae implicita conferma ─ visto che si propongono di disciplinare gli effetti del ‘superamento’ di limiti contrattualmente stabiliti ─ dell’esistenza anche per essi di una fonte eteronoma della relativa disciplina.
L’art. 15, comma 3, d. lgs. n. 502 del 1992 non autorizza i medici a derogare alla regolamentazione legale o contrattuale riguardante l’organizzazione dell’orario di lavoro o a dettare ex se , autonomamente, la regolamentazione relativa, ma si limita a prevedere che il dirigente è responsabile dei risultati programmati, anche se comportano il superamento di quei limiti. Prevede, dunque, un vincolo di risultato che non deroga di per sé alle norme, legali o contrattuali, sulla organizzazione dell’orario di lavoro, ma ne prescinde ai fini della valutazione del conseguimento o meno degli obiettivi programmati.
La giurisprudenza ne trae argomenti sotto il ristretto profilo del diritto allo straordinario (escluso per essere la retribuzione già fissata
in rapporto al risultato), ma fa espressamente salve eventuali conseguenze risarcitorie nel caso in cui la durata della prestazione lavorativa ecceda i limiti della ragionevolezza in rapporto alla tutela, costituzionalmente garantita, del diritto alla salute (v. Cass. Sez. U. 17/04/2009, n. 9146; v. anche, ex aliis , Cass. Sez. L. 23/07/2004, n. 13882; 04/06/2012, n. 8958; 28/03/2017, n. 7921; 25/06/2020, n. 12629).
Per analoghe ragioni deve anche escludersi che una tale disciplina integri l’ipotesi derogatoria contemplata dall’art. 22 della Direttiva 2003/88/CE (v. supra , « Ragioni della decisione », par. 9, terzo alinea), atteso che -come fondatamente rilevato in ricorso -la c.d. opzione ‘ opt-out ‘ (vale a dire la possibilità per i dirigenti medici di rinunciare ai limiti relativi all’orario di lavoro e alla disciplina dei riposi, a fronte di particolari condizioni o accordi) presuppone che la facoltà di deroga sia stata recepita dall’ordinamento nazionale e non può essere regolamentata da un contratto collettivo o da un accordo sindacale, in difetto il consenso del lavoratore essendo irrilevante (Corte giustizia, 14/10/2010, in causa C-243/09, NOME COGNOME c.d. Fuß 1 , punto 38); la possibilità di una tale opzione non può dirsi recepita dall’ordinamento con la menzionata norma di cui all’art. 15, comma 3, d. lgs. n. 502 del 1992 che non è diretto a regolare tale ipotesi, ma ne prescinde avendo altro scopo e obiettivo.
18 . Escluso, dunque, che le deroghe previste dall’art. 17 della Direttiva 2003/88/CE possano essere riferite alla categoria dei dirigenti medici, se ne deve dedurre, alla luce di quanto sopra esposto che:
─ le norme di cui agli artt. 3, comma 85, della legge n. 244 del 2007 e 41, comma 13, del d.l. n. 112 del 2008, nel disporre l’esclusione del personale del ruolo sanitario del Servizio sanitario nazionale (la prima) e del « personale delle aree dirigenziali » (la seconda) dal campo di applicazione degli artt. 4 (durata massima
dell’orario settimanale) e 7 (riposo giornaliero) del d. lgs. n. 66 del 2003 si pongono in contrasto con le menzionate Direttive europee;
─ la violazione, peraltro implicitamente confermata di per sé dalla successiva abrogazione di tali norme con l’art. 14 della legge n. 161 del 2014 (emanata proprio al fine di evitare che fosse portata a conclusione la procedura d’infrazione avviata dalla Commissione europea), è « grave e manifesta »;
─ il risultato prescritto dalla direttiva implica certamente l’attribuzione di diritti a favore dei singoli ;
─ il contenuto di tali diritti può essere individuato sulla base delle disposizioni della direttiva.
Fermo quanto sopra, quel che però, nella specie, non consente il riconoscimento della fondatezza della pretesa risarcitoria è l’impossibilità di ravvisare la terza condizione della responsabilità dello Stato che ne è dedotta a fondamento, vale a dire « l’esistenza di un nesso di causalità tra la violazione dell’obbligo a carico dello Stato e il danno subito dai soggetti lesi ».
L’impostazione aziendalistica che connota, nell’ordinamento interno, lo statuto dei dirigenti medici, con il vincolo di risultato di cui s’è detto, impedisce in effetti, come rilevato dai giudici di merito, in mancanza di specifica allegazione e prova sul punto, di apprezzare se e in che misura la prestazione di attività lavorativa per una durata eccedente i limiti fissati dalle norme unionali sia conseguenza della fissazione, su base legale o contrattuale, di turni e orari settimanali non conformi a quelle regole e non invece del consapevole e volontario superamento di quei limiti, pur stabiliti conformemente a quelle norme dalla contrattazione collettiva, in funzione del raggiungimento degli obiettivi programmati.
Con ciò non si intende certo disconoscere i rischi che una tale impostazione comporta rispetto a quegli obiettivi, che le Direttive intendono perseguire, di tutela della salute e sicurezza del lavoro,
specie in un settore di tale rilevanza pubblica come quello della sanità, pubblica e privata. « La salute ─ come è stato scritto in dottrina ─ non è un prodotto industriale e l’ospedale non è una fabbrica; esso non si può gestire secondo una logica unicamente aziendale ».
Resta il fatto però che un tale rischio ─ e i danni che singolarmente ne patisce il personale di tali aree, indotti al perseguimento del risultato a scapito anche delle esigenze di riposo dal lavoro ─ non può dirsi conseguenza dei fatti posti a fondamento della domanda che ci occupa: vale a dire della sospensione, per effetto delle citate norme (artt. 3, comma 85, della legge n. 244 del 2007 e 41, comma 13, del d.l. n. 112 del 2008 ), dell’operatività degli artt. 4 e 7 d. lgs. n. 66 del 2003 nei confronti dei dirigenti medici nel periodo compreso tra il 1° gennaio 2008 e il 25 novembre 2015.
Pur se tali norme non fossero state emanate, infatti, nulla esclude che, per effetto dell’impostazione aziendalistica di cui si è detto, già allora imperante, e del connesso « vincolo di risultato », pur in presenza di una normativa di fonte legale o contrattuale pienamente rispettosa delle direttive europee sotto i profili considerati, i dirigenti medici fossero di fatto indotti a prescindere dall’orario di lavoro loro assegnato per il raggiungimento degli obiettivi concordati.
Il che, in mancanza di specifica allegazione e prova che le durate eccedenti della prestata attività lavorativa indicate in domanda siano da riferire ad una regolamentazione difforme dalle norme unionali dell’orario giornaliero e della durata massima settimanale dei lavori, anziché al perseguimento degli obiettivi programmati, impedisce di considerarle fonte di pregiudizio risarcibile in quanto direttamente correlato, con nesso di causa effetto, alle dedotte violazioni della normativa europea.
20. Al riguardo del tutto correttamente la Corte d’appello ha escluso che potesse fondatamente invocarsi il principio di non
contestazione, atteso che: a) difettava a monte la specifica indicazione del fatto realmente rilevante ai fini in discorso che, come detto, e diversamente da quanto affermato dai ricorrenti, non è rappresentato dalle mera eccedenza del lavoro giornaliero e/o settimanale rispetto ai limiti fissati dalle direttive, ma dalla imputazione di tale eccedenza ad una regolamentazione difforme dalle norme unionali dell’orario giornaliero e della durata massima settimanale dei lavori; b) l’onere di contestazione la cui inosservanza rende il fatto pacifico e non bisognoso di prova -sussiste soltanto per i fatti noti alla parte, non anche per quelli ad essa ignoti (Cass. n. 14652 del 2016; n. 3576 del 2013) e certamente dunque un tale onere non può ascriversi alle amministrazioni resistenti, che sono terze rispetto al rapporto di pubblico impiego instaurato tra i dirigenti medici e le singole aziende sanitarie.
Le superiori considerazioni, conducendo a confermare la negata fondatezza della domanda risarcitoria sotto il profilo della mancata allegazione e prova dell’esistenza di un nesso di causa tra la violazione delle menzionate direttive europee ed i danni lamentati, assorbe e rende ultroneo l’esame del secondo motivo, che attiene al subordinato rilievo svolto in sentenza circa la mancata prova del danno e l’impossibilità di procedere ad una sua liquidazione equitativa.
La memoria che, come detto, è stata depositata dai ricorrenti, ai sensi dell’art. 380 -bis.1 , primo comma, cod. proc. civ., reitera le tesi censorie già esposte in ricorso e non offre argomenti che possano indurre a diverso esito dell’esposto vaglio dei motivi .
23. Il ricorso deve essere pertanto rigettato.
Avuto tuttavia riguardo alla novità ed alla complessità delle questioni trattate si ravvisano i presupposti per l’integrale compensazione delle spese.
24. Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1 -bis dello stesso art. 13.
P.Q.M.
rigetta il ricorso. Compensa integralmente le spese processuali. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 -quater del d.P .R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1bis , dello stesso articolo 13.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza