Sentenza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 18381 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 3 Num. 18381 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 06/07/2025
Oggetto
Responsabilità civile P.A. -Inadempimento direttive comunitarie -Dirigenti medici -Artt. 3 (riposo ogni 24 ore) e 6 (48 ore settimanali) della Direttiva 2003/88
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 25005/2024 R.G. proposto da COGNOME NOMECOGNOME COGNOME NOMECOGNOME StefanoCOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME COGNOME NOMECOGNOME PietroCOGNOME NOMECOGNOME COGNOME NOME; COGNOME Α nton ιο; COGNOME NOME, n.q. di erede del dott. COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME COGNOME NOME; COGNOME NOMECOGNOME Vincenzo; COGNOME NOME; COGNOME NOMECOGNOME NOME; COGNOME NOME; tutti rappresentati e difesi dall’Avv. NOME COGNOME domiciliati digitalmente ex lege ;
-ricorrenti –
contro
Presidenza del Consiglio dei ministri e Ministero della Salute, rappresentati e difesi dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliati digitalmente ex lege ;
-controricorrenti – avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma, n. 2619/2024, pubblicata il 15 aprile 2024.
Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 27 giugno 2025 dal Consigliere NOME COGNOME
udito l’Avvocato dello Stato NOME COGNOME
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso e/o dichiararsi l’inammissibilità del ricorso.
FATTI DI CAUSA
Numerosi dirigenti medici, tra i quali gli odierni ricorrenti, convennero in giudizio davanti al Tribunale di Roma la Presidenza del Consiglio dei Ministri e il Ministero della Salute chiedendone la condanna al risarcimento dei danni subiti per la violazione delle direttive europee appresso specificate nella parte in cui -per quanto ancora in questa sede interessa -obbligavano gli Stati membri ad adottare normative interne che garantissero ai lavoratori un periodo minimo di riposo di undici ore consecutive nel corso di ogni periodo di ventiquattro ore (riposo giornaliero) e una durata media dell’orario non superiore alle quarantotto ore, per ogni periodo di sette giorni (durata massima settimanale del lavoro).
Esposero infatti che, nel periodo compreso tra il 2008 e il 25 novembre 2015, in base alle disposizioni dei turni e degli incarichi delle rispettive Aziende datrici di lavoro:
-avevano svolto la loro attività lavorativa per un periodo di ore settimanali eccedenti rispetto a quelle massime previste dall’6, punto
2, della Direttiva 93/104/CE del Consiglio dell’Unione Europea del 23 novembre 1993 e dall’art. 6, lett. b), della Direttiva 2003/88/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 4 novembre 2003;
-non avevano goduto dei riposi giornalieri previsti dall’art. 3 di entrambe le Direttive (periodo minimo di riposo di undici ore consecutive nel corso di ogni periodo di ventiquattro ore).
Evidenziarono che:
-n ell’ordinamento italiano la materia dell’orario di lavoro era stata organicamente disciplinata dal d.lgs. n. 66 del 2003, di adeguamento dell’ordinamento interno alla Direttiva 93/104/CE modificata dalla successiva Direttiva 2000/34/CE -poi sostituita dalla Direttiva 2003/88/CE; il citato decreto legislativo prevedeva infatti:
un periodo minimo di riposo di undici ore consecutive nel corso di ogni periodo di ventiquattro ore (art. 7);
un orario settimanale medio non superiore a quarantotto ore, compreso il lavoro straordinario, da calcolarsi in relazione ad un periodo non superiore a quattro mesi o, per ipotesi particolari, a sei mesi (art. 4);
-successivamente, però, l’art. 3, comma 85, della legge n. 244 del 2007 (legge finanziaria del 2008), introducendo il comma 6bis dell’art. 17 del d. lgs. n. 66 del 2003, aveva escluso dal campo di applicazione della disciplina prevista per il riposo giornaliero (art. 7) il personale del ruolo sanitario del Servizio sanitario nazionale, rimandando per esso « alle vigenti disposizioni contrattuali in materia di orario di lavoro, nel rispetto dei princìpi generali della protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori »;
-i noltre, il comma 13 dell’art. 41 del d.l. n. 112 del 2008 aveva escluso il personale delle aree dirigenziali degli Enti e delle Aziende del Servizio Sanitario Nazionale dal campo di applicazione degli artt. 4 (durata massima dell’orario settimanale) e 7 (riposo giornaliero) del d. lgs. n. 66 del 2003, attribuendo alla contrattazione collettiva la
definizione delle modalità atte a garantire ai dirigenti condizioni di lavoro tali da consentire una protezione appropriata ed il pieno recupero delle energie psico-fisiche;
-queste disposizioni avevano di fatto privato i medici del loro diritto ad un limite nell’orario lavorativo settimanale e ad un periodo minimo di riposo giornaliero; per tale ragione, nel maggio 2013, la Commissione aveva inviato all’Italia un parere motivato (MEMO/13/470) in cui le chiedeva di adottare le misure necessarie per assicurare che la legislazione nazionale ottemperasse alla direttiva, rilevando, tra l’altro, che « i medici attivi nel servizio sanitario pubblico italiano sono formalmente classificati quali “dirigenti”, senza necessariamente godere delle prerogative o dell’autonomia dirigenziali durante il loro orario di lavoro »;
-d i fronte all’inerzia al riguardo registrata, nel febbraio 2014 la Commissione aveva deferito l’Italia alla C .G.U.E. con la procedura d’infrazione n. 2911/4185, per non avere applicato correttamente la direttiva sull’orario di lavoro ai medici operanti nel servizio sanitario pubblico;
-s olo allora l’Italia, con l’art. 14 della legge n. 161 del 2014 e con efficacia dal 25 novembre 2015, aveva abrogato il comma 6bis dell’art. 17 del d.lgs. n. 66 del 2003 ed il comma 13 dell’art. 41 del d.l. n. 112 del 2008;
-la violazione della normativa comunitaria era dunque circoscritta al periodo compreso fra l’entrata in vigore , da un lato, della legge n. 244 del 2007 (1° gennaio 2008) e del d.l. n. 112 del 2008 (25 giugno 2008) -contenenti, come visto, disposizioni derogatorie rispetto alla disciplina del 2003 -e , dall’altro, il prodursi dell’effetto abrogativo delle citate deroghe disposto dalla l. n. 161 del 2014 (25 novembre 2015).
Con sentenza n. 12386 del 2019 il Tribunale rigettò la domanda rilevando che:
-lo stesso art. 17 della Direttiva 2003/88 prevede la possibilità di derogare agli articoli 3, 4, 5, 6, 8 e 16 della stessa « quando la durata dell’orario di lavoro, a causa delle caratteristiche dell’attività esercitata, non è misurata e/o predeterminata o può essere determinata dai lavoratori stessi e, in particolare, quando si tratta di dirigenti o di altre persone aventi potere di decisione autonomo »;
-spettava, pertanto, agli attori di puntualmente allegare e quindi documentare di avere prestato attività lavorativa, per il monte-ore settimanale indicato nei prospetti allegati al fascicolo, non già per conseguire gli obiettivi prestazionali posti dal responsabile, e quindi per propria scelta, bensì su ordine del datore di lavoro, nonché a titolo di lavoro straordinario, avente natura eccezionale e disposto per effettive esigenze di servizio, quali i servizi di pronta guardia e disponibilità, ovvero per altre attività non programmabili (art. 28 CCNL 10.2.2004).
Con sentenza n. 2619/2024, resa pubblica il 15 aprile 2024, la Corte d’appello di Roma ha rigettato il gravame interposto da alcuni degli originari attori, tra i quali gli odierni ricorrenti, confermando la decisione di primo grado.
3.1. In sostanziale consonanza con le motivazioni della sentenza di primo grado ha rilevato che, « dato che lo stesso art. 17 della Direttiva 2003/88 prevede la possibilità di derogare agli articoli 3, 4, 5, 6, 8 e 16 ‘ quando la durata dell’orario di lavoro, a causa delle caratteristiche dell’attività esercitata, non è misurata e/o predeterminata o può essere determinata dai lavoratori stessi e, in particolare, quando si tratta di dirigenti o di altre persone aventi potere di decisione autonomo ‘ la temporanea deroga al limite delle quarantotto ore settimanali non può essere considerata violazione grave e manifesta del diritto comunitario, né lesiva dei diritti dei singoli lavorator i».
Il limite delle quarantotto ore settimanali, dunque, non ha
carattere assoluto nell’ambito della Direttiva, poiché comunque derogabile ogni qualvolta il superamento non sia imposto al lavoratore.
Il che, secondo la Corte territoriale, si verifica nel caso dei dirigenti medici, per i quali i l superamento dell’orario normale di lavoro è solo eccezionalmente legato ad attività imposte per esigenze del servizio ordinario, mentre di norma è conseguenza dell’attività svolta nella finalità di raggiungere l’obiettivo assegnato , in base alla natura e alle caratteristiche dei programmi da realizzare, alle attitudini e capacità professionali del singolo dirigente, accertate con apposite procedure valutative di verifica (art. 15, comma 4, d.lgs. n. 502 del 19 92) e formalizzato in un incarico con l’indicazione dell’incentivo economico connesso .
3.2. Analogo ragionamento è svolto nella sentenza impugnata per escludere che la deroga prevista da ll’art. 41 , comma 13, d.l. n. 112 del 1988 e da ll’art. 3 , comma 85, l. n. 244 del 2007 alla norma comunitaria in tema di riposo giornaliero (art. 3 della Direttiva 2003/88/CE) potesse considerarsi violazione grave e manifesta.
Anche sotto tale profilo la Corte capitolina ha rimarcato che, ai sensi dell ‘art . 15, comma 3, del d.lgs. n. 502 del 1992, « il dirigente, in relazione all’attività svolta, ai programmi concordati da realizzare e alle specifiche funzioni allo stesso attribuite, è responsabile del risultato anche se richiedente un impegno orario superiore a quello contrattualmente definito » e che, pertanto, l’eventuale superamento dell’orario contrattuale ben può essere oggetto di una scelta del dirigente per il raggiungimento del risultato concordato (cui è collegata una retribuzione di risultato), il che impedisce di ravvisare nel dedotto superamento dell’orario lavorativo una violazione automatica della disciplina comunitaria , ove non sia allegato che tale orario è s tato imposto dall’azienda, non essendo a tal fine sufficiente la mera elencazione delle ore di lavoro oltre gli orari contrattualmente
previsti, essendo il superamento dell’orario imputabile ad una diversità di cause, tra le quali anche la scelta del dirigente: onere di allegazione e prova nella specie non assolto dagli attori/appellanti.
Ha ritenuto al riguardo non dirimente il richiamo al menzionato parere della Commissione europea secondo cui la facoltà di deroga non opera per la mera qualificazione di un lavoratore come dirigente, ma presuppone le caratteristiche dell’attività individuate dalla direttiva e cioè che la durata dell’orario di lavoro non sia misurata e/o predeterminata ovvero possa essere determinata dallo stesso lavoratore. Ha quindi ribadito che, in ragione della responsabilità del dirigente in ordine al risultato (articolo 15, comma 3, del D.Lgs. n. 502/1992 cit.) e alla possibilità a tal fine di ‘un impegno orario superiore’, era onere degli attori allegare e quindi provare la ascrivibilità del superamento dell’orario ad una imposizione e non ad una opzione del dirigente per l’attuazione del risultato programmato .
Per la cassazione di tale sentenza NOME COGNOME e gli altri dirigenti medici indicati in epigrafe, nonché l’erede di uno di essi, deceduto nelle more del giudizio di appello, propongono ricorso con unico mezzo, cui resistono le Amministrazioni intimate depositando controricorso.
Il P.M. ha depositato conclusioni scritte con le quali ha chiesto che la Corte rigetti e/o dichiari inammissibile il ricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
La sentenza impugnata è stata resa anche nei confronti di altri dirigenti medici nei cui confronti il ricorso non è stato notificato.
Tuttavia, trattandosi di litisconsorti facoltativi ed essendo applicabile, in conseguenza, l’art. 332 cod. proc. civ., non occorre far luogo all’ordine di notificazione dell’impugnazione ai sensi di tale norma, essendo ormai l’impugnazione per essi preclusa.
Con l’unico motivo i ricorrenti denunciano, ai sensi dell’art.
360, comma primo, num. 3, cod. proc. civ., « violazione e falsa applicazione delle norme e dei principi in materia di risarcimento del danno derivante da omesso e/o tardivo recepimento di direttive comunitarie, degli artt. 5 e 189 del Trattato CEE.; direttiva 93/104/CE del 23 novembre 1993, in attuazione dei principi stabiliti dalla Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori, adottata nel Consiglio europeo di Strasburgo del 9 dicembre 1989 dai Capi di Stato o di governo di undici Stati membri, e con particolare riferimento al punto 7, primo comma, al punto 8 ed al punto 19; direttiva 2000/34/CE del 22 giugno 2000; direttiva 2003/88/CE; v iolazione e falsa applicazione dell’art. 1 del Protocollo n. 1 alla CEDU (diritto al rispetto dei beni); Violazione e falsa applicazione dell’art. 1 del Protocollo n. 1 alla CEDU (diritto al rispetto dei beni); dell’art. 1226 c.c. ».
Censurano la sentenza impugnata rilevando che:
-le deroghe introdotte dalla normativa italiana non rispettano i requisiti di eccezionalità e della necessaria compensazione con la previsione di periodi equivalenti di riposo previsti dagli artt. 17 e 18 della Direttiva 2003/88 e piuttosto ha nno avuto l’effetto di svuotare le tutele garantite dalla direttiva; le quarantotto ore, quale durata massima (media) del lavoro settimanale, rappresentano un limite assoluto, non suscettibile di condizioni o restrizioni da parte della legislazione nazionale (sentenza 5 ottobre 2004, causa C-397/01 e altre, COGNOME , punto 99; sentenza 14 ottobre 2010, causa C-243/09, Fuß 1, punto 52; sentenza 25 novembre 2010, causa C-429/09, Fuß 2, punto 34) da rispettare, tuttavia, come media nell’ambito del periodo di riferimento di quattro mesi (elevabile a sei o dodici mesi);
-la qualifica di dirigente medico non implica autonomia decisionale sull’orario di lavoro; i medici, pur essendo dirigenti in base al diritto interno, non lo sono secondo la nozione europea di dirigenza, essendo il loro orario di lavoro solo in parte non misurato o
predeterminato e potendo solo in parte essere determinato dai lavoratori stessi;
-è inapplicabile la previsione di cui all’art. 22 della direttiva 2003/88/CE che consente agli Stati membri di non applicare l’art. 6 in caso di consenso del lavoratore, atteso che la c.d. opzione ‘ opt-out ‘ (vale a dire la possibilità per i dirigenti medici di rinunciare ai limiti relativi all’orario di lavoro e alla disciplina dei riposi, a fronte di particolari condizioni o accordi) presuppone che la facoltà di deroga sia stata recepita dall’ordinamento nazionale: in difetto il consenso del lavoratore è irrilevante (Corte giustizia, 14/10/2010, in causa C243/09, NOME COGNOME, c.d. Fuß 1 , punto 38); la possibilità di una tale opzione non è stata recepita dall’ordinamento nazionale e non può essere regolamentata da un contratto collettivo o da un accordo sindacale; l’assenza dell’art. 6 dal novero delle disposizioni derogabili dalla contrattazione collettiva esclude che il consenso del lavoratore possa essere sostituito dalla previsione della deroga in un contratto collettivo o in un accordo sindacale ; il consenso del lavoratore dev’essere non solo individuale, ma anche esplicitamente e liberamente espresso: queste condizioni non sono soddisfatte nel momento in cui il contratto di lavoro dell’interessato si limiti a far riferimento a un contratto collettivo che autorizza un superamento dell’orario massimo di lavoro settimanale; infatti, non è affatto certo che, nel momento della conclusione del contratto, il lavoratore interessato avesse contezza della restrizione apportata ai suoi diritti (sent. Pfeiffer , punti 84-85); non può quindi condividersi l’assunto secondo il quale le deroghe al riposo giornaliero previste dagli artt. 3, comma 85, l. n. 244 del 2008 (per i non dirigenti) e 41, comma 13, d.l. n. 112 del 2008 (per i dirigenti) sarebbero applicazione della deroga consentita
dalla direttiva attraverso la delega alla contrattazione collettiva, sicché non sarebbe responsabilità dello Stato se le parti sociali, per il personale medico, hanno optato per una deroga; la legge non definisce le condizioni e i limiti entro i quali la contrattazione collettiva può derogare al l’art. 3 della Direttiva (CE) 2003/88 e alle disposizioni nazionali di recepimento (art. 7 d.lgs. n. 66 del 2003);
-secondo la giurisprudenza della CGUE la violazione dei limiti di orario e riposo causa un danno presunto alla salute e sicurezza del lavoratore, indipendentemente dalla retribuzione delle ore eccedenti; la CGUE ha, infatti, chiarito che « poiché la direttiva 2003/88 persegue l’obiettivo di garantire la sicurezza e la salute dei lavoratori mediante un riposo sufficiente, il legislatore dell’Unione ha considerato che il superamento della durata media massima di lavoro settimanale di cui al predetto art. 6, lett. b), privando il lavoratore di siffatto riposo, gli cagiona, per ciò solo, un danno, poiché viene così compromessa la sua sicurezza e la sua salute; ne consegue che una normativa nazionale … che supera il limite massimo sancito dall’art. 6, lett. b), della direttiva 2003/88, integra una violazione di tale disposizione, senza che sia necessario dimostrare anche la sussistenza di un danno specifico subito dal lavoratore di cui trattasi » (sent. Fuß 1, punti 54 e 55); ciò posto, la violazione delle prescrizioni minime in tema di orario di lavoro è fonte di responsabilità indipendentemente dal fatto che le ore lavorate in eccedenza siano state retribuite;
-è priva di fondamento l’affermazione secondo cui i ricorrenti avrebbero dovuto dimostrare che il superamento dell’orario contrattuale era dipeso da un’imposizione dell’azienda sanitaria e non da una libera scelta del dirigente medico, esulando la relativa questione dal thema decidendum e dalla natura risarcitoria dell’azione svolta nel presente giudizio; le modalità di svolgimento dell’attività svolta dai ricorrenti presso ogni singola Asl risultano irrilevanti, avendo rilievo, esclusivamente, la circostanza ‘non contestata’ che i
medici avessero superato il limite delle quarantotto ore settimanali e fossero stati violati i vincoli sul riposo giornaliero; l’opposto argomento affonda le proprie radici sull’erroneo assunto per cui i ricorrenti, nella loro qualità di dirigenti medici di primo livello, fossero muniti del potere di auto-organizzare la propria attività lavorativa, il che non corrisponde al vero; come chiarito dalla Suprema Corte, i dirigenti medici di primo livello non sono titolari del potere di autoorganizzare la propria attività lavorativa, anche sotto il profilo dell’attribuzione delle ferie annuali, essendo viceversa sottoposti all’ingerenza e al controllo della direzione della struttura sanitaria di riferimento (cfr. ex multis Cass., Sez. L 09/03/2021, n. 6493; nello stesso senso, Cass. Sez. U 17/04/2009, n. 9146);
-l a violazione del diritto dell’Unione è, poi, sufficientemente qualificata in quanto essa è intervenuta ignorando manifestamente la giurisprudenza della Corte in questa materia (cfr. Corte di Giustizia 25/11/2010, in causa C-429/09, NOME COGNOME c.d. Fuß 2 , punto 50), in un contesto in cui la norma europea non si prestava a dubbi interpretativi, come peraltro confermato dall’avvio della procedura di infrazione n. 2011/4185 nei confronti dello Stato italiano.
In conclusione del ricorso è formulata istanza di rinvio pregiudiziale ex art. 267 T.F.U.E. di interpretazione degli artt. 3, 17 e 18 della direttiva 2003/88/CE in relazione ai seguenti quesiti:
-se l’articolo 3 della direttiva (CE) 2003/88 – secondo cui gli Stati membri prendono le misure affinché ogni lavoratore benefici, nel corso di ogni periodo di 24 ore, di un periodo minimo di riposo di undici ore consecutive – e il regime delle relative deroghe di cui agli artt. 17 e 18 della Direttiva (CE) 2003/88, ostino ad una disciplina nazionale, quale quella prevista dall’art. 3, co. 85 , della legge 244/2007 e dall’art. 41, co. 13 del D.L. 112/2008, alla stregua della quale le garanzie previste dal diritto europeo in materia di riposo giornaliero del personale e della dirigenza sanitaria sono derogate in
via generale, per essere rimesse integralmente alla contrattazione collettiva, senza predeterminazione da parte del legislatore delle condizioni e dei limiti legittimanti le deroghe rimesse alla predetta contrattazione, e in particolare senza prevedere che ai lavoratori interessati siano accordati periodi equivalenti di riposo compensativo o, in casi eccezionali in cui la concessione di tali periodi equivalenti di riposo compensativo non sia possibile per motivi oggettivi, a condizione che ai lavoratori interessati sia accordata una protezione appropriata’;
-se l’articolo 3 della direttiva (CE) 2003/88 – secondo cui gli Stati membri prendono le misure affinché ogni lavoratore benefici, nel corso di ogni periodo di 24 ore, di un periodo minimo di riposo di undici ore consecutive’ e il regime derogatorio previsto dall’art. 17, par. 1, lett. A) della Direttiva (CE) 2003/88, ostino ad una disciplina nazionale, come quella che viene in rilievo nel presente procedimento, alla stregua della quale le garanzie previste dal diritto europeo in materia di riposo giornaliero del personale e della dirigenza sanitaria sono derogate in via generale con riferimento a tutti i dirigenti medici, senza necessità di indagare caso per caso se la durata dell’orario di lavoro del singolo dirigente sia integralmente non misurata e/o predeterminata e se il singolo dirigente possa determinare la durata del proprio orario di lavoro.
Venendo allo scrutinio dell’esposto motivo , è opportuno rammentare in premessa, in termini generali, l’indirizzo assunto, ormai da lungo tempo, dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea in ordine alla responsabilità dei singoli Stati nei diretti confronti di individui e gruppi in relazione alla violazione dei relativi diritti soggettivi che trovino fondamento nella disciplina dell’Unione : evenienza destinata a compiersi ogniqualvolta al singolo Stato (indipendentemente dall’identità degli apparati o dagli organi legislativi, amministrativi o giudiziari cui risale l’adozione delle
determinazioni contestate) sia imputabile la responsabilità di aver provocato con immediatezza la lesione di prerogative proprie dei singoli che, riconosciute e protette dall’ordinamento europeo, si sia tradotta nella produzione di conseguenze pregiudizievoli, effettive e concrete, a danno di questi.
4.1. Si tratta di principi andatisi progressivamente concretizzando ─ come opportunamente ricordato nelle note in questa sede depositate per iscritto dal Procuratore Generale presso questa Corte ─ a partire dal principio consacrato per la prima volta nella sentenza COGNOME e COGNOME del 19 novembre 1991 (cause C-6/90 C-9/90), cui ha fatto seguito la pronuncia RAGIONE_SOCIALE del 5 marzo 1996, causa C-46, in cui la Corte di Lussemburgo ha posto le basi per la configurabilità di una responsabilità a carico degli Stati membri per l’omessa o difettosa trasposizione di direttive, con conseguente obbligo di risarcire il danno arrecato ai cittadini da un illecito non altrimenti definibile se non come commesso dallo Stato nell’esercizio della funzione legislativa.
4.2 . L’orientamento così inaugurato si è successivamente sviluppato e consolidato attraverso l’adozione di una serie di decisioni (cfr. Corte di Giustizia Europea del 30 settembre 2003, in causa C224/01, COGNOME ; Corte di Giustizia Europea del 13 giugno 2006, in causa C- 173/03, Traghetti del Mediterraneo e successive) che hanno dato luogo alla stabilizzazione di un vero e proprio sistema risarcitorio (a carattere sanzionatorio) volto a garantire il ristoro delle conseguenze negative derivanti dall’esercizio (tanto omissivo, quanto commissivo), da parte dei singoli Stati membri, della propria attività legislativa in conflitto con i principi del diritto dell’Unione.
4.3. In questo contesto sistematico, i principi che attengono all’imputazione della responsabilità in capo al singolo Stato, pur confermando l’inevitabilità del riscontro di un indispensabile nesso di causalità tra il comportamento lesivo e il danno denunciato,
prescindono dalla ricerca dei consueti coefficienti soggettivi del dolo e della colpa (secondo la tradizionale impostazione storica dei singoli ordinamenti statuali), per muovere alla ricerca del carattere oggettivamente « grave e manifesto » della violazione ascritta allo Stato danneggiante.
Secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia, infatti, la responsabilità dello Stato membro discende dal concreto riscontro di tre specifiche condizioni:
─ « la prima di queste condizioni è che il risultato prescritto dalla direttiva implichi l’attribuzione di diritti a favore dei singoli ;
─ l a seconda condizione è che il contenuto di tali diritti possa essere individuato sulla base delle disposizioni della direttiva;
─ i nfine, la terza condizione è l’esistenza di un nesso di causalità tra la violazione dell’obbligo a carico dello Stato e il danno subito dai soggetti lesi » (Corte di giustizia, 19 novembre 1991, cause riunite C 6-90 e C-9/90, COGNOME e COGNOME , punto 40).
Deve inoltre trattarsi di una « violazione sufficientemente caratterizzata » (Corte di giustizia 5 marzo 1996, RAGIONE_SOCIALE , cause riunite C-46/93 e C-48/93, pt. 51, che indica questa quale seconda condizione della responsabilità risarcitoria dello Stato membro), il che si verifica in caso di « violazione grave e manifesta, da parte dello Stato membro, dei limiti posti al suo potere discrezionale » (sent. cit. caso RAGIONE_SOCIALE , punto 55).
4.4. Nel dare corpo a tale indirizzo ─ e, segnatamente, all’individuazione del significato da ascrivere al carattere « grave e manifesto » della violazione statale ─ la Corte di giustizia ha ulteriormente precisato come « fra gli elementi che il giudice competente può eventualmente prendere in considerazione, vanno sottolineati il grado di chiarezza e di precisione della norma violata, l’ampiezza del potere discrezionale che tale norma riserva alle autorità nazionali o comunitarie, il carattere intenzionale o
involontario della trasgressione commessa o del danno causato, la scusabilità o l’inescusabilità di un eventuale errore di diritto, la circostanza che i comportamenti adottati da un’istituzione comunitaria abbiano potuto concorrere all’omissione, all’adozione o al mantenimento in vigore di provvedimenti o di prassi nazionali contrari al diritto comunitario. In ogni caso, una violazione del diritto comunitario è manifesta e grave quando continua nonostante la pronuncia di una sentenza che ha accertato l’inadempimento contestato, di una sentenza pregiudiziale o di una giurisprudenza consolidata della Corte in materia, dalle quali risulti l’illegittimità del comportamento in questione » (Corte di giustizia, sent. cit., caso RAGIONE_SOCIALE , punti 55-57).
Nel caso di specie, il diniego della configurabilità di una responsabilità dello Stato da mancata attuazione delle prescrizioni comunitarie in tema di riposo giornaliero e di durata massima dell’orario di lavoro è motivato in sentenza ─ al di là di incidentali affermazioni che sembrerebbero volte a negare la stessa sussistenza della violazione o il suo carattere grave e manifesto ─ essenzialmente per la divisata insussistenza della terza delle suindicate condizioni, vale a dire il nesso di causalità tra la violazione dell’obbligo a carico dello Stato e il danno subito dai soggetti lesi.
Si osserva, infatti, in sentenza che « il superamento dell’orario imputabile ad una diversità di cause, tra le quali anche la scelta del dirigente … per il raggiungimento del risultato concordato » e che ciò avrebbe richiesto da parte degli attori/appellanti l’allegazione e la prova ─ nella specie mancanti ─ che il superamento dei limiti orari previsti dalle norme europee derivava da una imposizione dell’Azienda datrice di lavoro e non da una opzione dello stesso dirigente per l’attuazione del risultato programmato .
Al riguardo, mette conto anzitutto rilevare che non può condividersi l’avviso espresso dal P.G. nelle proprie conclusioni scritte
secondo cui mancherebbe nel ricorso uno specifico motivo diretto a investire la sentenza impugnata nell’autonoma ratio decidendi rappresentata dal rilievo della mancata allegazione e prova di quali e quante ore di lavoro gli odierni ricorrenti abbiano svolto in ragione della mancanza di adeguata normativa di tutela in violazione delle direttive europee.
Come si è detto, infatti (v. supra , « Fatti di causa », par. 3 e relativi sottoparagrafi), tale rilievo è , nell’argomentare della Corte d’appello, diretta conseguenza dell’assunto secondo cui la qualifica dirigenziale attribuirebbe ai ricorrenti la possibilità di andare oltre, per propria scelta, l’orario contrattuale di lavoro ai fini del raggiungimento del risultato concordato e ciò in relazione a quanto previsto dall ‘art . 15, comma 3, del d.lgs. n. 502 del 1992, secondo cui « il dirigente, in relazione all’attività svolta, ai programmi concordati da realizzare e alle specifiche funzioni allo stesso attribuite, è responsabile del risultato anche se richiedente un impegno orario superiore a quello contrattualmente definito ».
Ebbene, non può negarsi che un siffatto impianto motivazionale sia attinto, nel suo complesso e in ciascuna delle sue articolazioni, dal motivo di ricorso, posto che, come sopra evidenziato, tra i vari e pur disarticolati argomenti che ne sono posti a fondamento vi sono certamente:
da un lato, la contestazione dell’assunto di partenza, circa la rilevanza della qualifica dirigenziale, osservandosi al riguardo che i medici, pur essendo dirigenti in base al diritto interno, non lo sono secondo la nozione europea di dirigenza, essendo il loro orario di lavoro solo in parte non misurato o predeterminato e potendo solo in parte essere determinato dai lavoratori stessi;
dall’altro, e conseguentemente, la contestazione anche della ratio decidendi rappresentata in sentenza dal rilievo del mancato assolvimento degli oneri di allegazione e prova, dal momento che,
proprio sulla scia del primo argomento di censura, i ricorrenti contestano a monte proprio l’esistenza di un onere quale quello postulato in sentenza, osservando che le modalità di svolgimento dell’attività svolta dai ricorrenti presso ogni singola Asl risultano irrilevanti, avendo rilievo, esclusivamente, la circostanza ‘non contestata’ che i medici avessero superato il limite delle quarantotto ore settimanali e fossero stati violati i vincoli sul riposo giornaliero (v. supra « Ragioni della decisione », par. 2, quinto alinea).
Ciò premesso in punto di ammissibilità del ricorso, se ne deve però rilevare, nel merito, l’in fondatezza.
Non si dubita tra le parti, né lo fanno i giudici di merito, che le menzionate Direttive 93/104/CE e 2003/88/CE, nel fissare limiti all’orario giornaliero di lavoro (art. 3 Dir. 2003/88/CE) e alla durata massima settimanale del lavoro (artt. 6, pt. 2, Dir. 93/104/CE e 6, lett. b, Dir . 2003/88/CE), nell’intento di rafforzare la tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori, siano univocamente idonee ad attribuire diritti a favore dei singoli e che tanto facciano in modo che il contenuto di tali diritti possa essere individuato sulla base delle disposizioni delle direttive medesime.
Ad essere dibattuto è piuttosto il tema delle deroghe a tali disposizioni pure previste dalla normativa europea, quale misura di « flessibilità », « in funzione dei problemi che possono essere sollevati dall’organizzazione dell’orario di lavoro nell’impresa » (Dir. 2003/88/CE, Considerando 15).
Si tratta, più precisamente, delle deroghe previste dagli artt. 17, 18 e 22 della citata Direttiva 2003/88/CE, il cui testo conviene qui di seguito riportare nelle parti che vengono in rilievo, rammentandosi che ogni articolo è di regola al suo interno suddiviso in paragrafi (numerati) o in commi (non numerati) e il paragrafo può essere suddiviso al suo interno in commi (non numerati):
-Art. 17 (« Deroghe »):
« 1. Nel rispetto dei principi generali della protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori, gli Stati membri possono derogare agli articoli 3, 4, 5, 6, 8 e 16 quando la durata dell’orario di lavoro, a causa delle caratteristiche dell’attività esercitata, non è misurata e/o predeterminata o può essere determinata dai lavoratori stessi e, in particolare, quando si tratta:
di dirigenti o di altre persone aventi potere di decisione autonomo; …
Le deroghe di cui ai paragrafi 3, 4 e 5 possono essere adottate con legge, regolamento o con provvedimento amministrativo, ovvero mediante contratti collettivi o accordi conclusi fra le parti sociali, a condizione che vengano concessi ai lavoratori interessati equivalenti periodi di riposo compensativo oppure, in casi eccezionali in cui la concessione di tali periodi equivalenti di riposo compensativo non sia possibile per ragioni oggettive, a condizione che venga loro concessa una protezione appropriata.
In conformità al paragrafo 2 del presente articolo le deroghe agli articoli 3, 4, 5, 8 e 16 possono essere concesse:
…
per le attività caratterizzate dalla necessità di assicurare la continuità del servizio o della produzione, in particolare, quando si tratta:
…
di servizi relativi all’accettazione, al trattamento e/o alle cure prestati da ospedali o stabilimenti analoghi, comprese le attività dei medici in formazione, da case di riposo e da carceri »;
-Art. 18 (« Deroghe mediante contratto collettivo »)
« Si può derogare agli articoli 3, 4, 5, 8 e 16 mediante contratti collettivi o accordi conclusi tra le parti sociali a livello nazionale o regionale o, conformemente alle regole fissate da dette parti sociali, mediante contratti collettivi o accordi conclusi tra le parti sociali ad un
livello inferiore.
Gli Stati membri in cui, giuridicamente, non esiste un sistema che garantisca la conclusione di contratti collettivi o di accordi tra le parti sociali a livello nazionale o regionale, per i settori contemplati dalla presente direttiva, o gli Stati membri in cui esiste un quadro legislativo specifico a tal fine, e nei limiti di tale quadro, possono, conformemente alle legislazioni e/o prassi nazionali, consentire deroghe agli articoli 3, 4, 5, 8 e 16 mediante contratti collettivi o accordi conclusi tra le parti sociali ad un livello collettivo adeguato.
Le deroghe di cui al primo e secondo comma sono consentite soltanto a condizione che ai lavoratori interessati siano accordati periodi equivalenti di riposo compensativo o, in casi eccezionali in cui la concessione di tali periodi equivalenti di riposo compensativo non sia possibile per motivi oggettivi, a condizione che ai lavoratori interessati sia accordata una protezione appropriata.
Gli Stati membri possono prevedere norme:
per l’applicazione del presente articolo ad opera delle parti sociali; e
per l’estensione delle disposizioni dei contratti collettivi o accordi conclusi in conformità del presente articolo ad altri lavoratori, conformemente alle legislazioni e alle prassi nazionali »;
-Art. 22 (« Disposizioni varie »)
« 1. Gli Stati membri hanno facoltà di non applicare l’articolo 6, nel rispetto dei principi generali della protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori, a condizione che assicurino, mediante le necessarie misure a tale scopo, che:
nessun datore di lavoro chieda a un lavoratore di lavorare più di 48 ore nel corso di un periodo di 7 giorni, calcolato come media del periodo di riferimento di cui all’articolo 16, lettera b), a meno che non abbia ottenuto il consenso del lavoratore all’esecuzione di tale lavoro;
…
».
10. A tali disposizioni occorre raffrontare il testo degli artt. 3, comma 85, legge n. 244 del 2007 e 41, comma 13, d.l. n. 112 del 2008 (convertito, con modificazioni, dalla l. n. 133 del 2008), trattandosi di stabilire se con essi possa dirsi realizzata, per il limitato periodo della loro vigenza (come detto da gennaio 2008 al 25 novembre 2015), una violazione « grave e manifesta » delle suindicate norme unionali.
Reputa il Collegio che a tale quesito debba darsi risposta affermativa con riferimento sia alle disposizioni relative al riposo orario giornaliero (art. 3 di entrambe le Direttive), sia a quelle che fissano limiti alla durata massima settimanale del lavoro .
Le citate norme nazionali (asseritamente violative delle disposizioni delle direttive in tema di riposo giornaliero e durata massima settimanale del lavoro) prevedono rispettivamente:
─ Art. 3, comma 85, d.l. 24 dicembre 2007, n. 244:
« All’articolo 17 del decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66, è aggiunto, in fine, il seguente comma:
«6bis . Le disposizioni di cui all’articolo 7 non si applicano al personale del ruolo sanitario del Servizio sanitario nazionale, per il quale si fa riferimento alle vigenti disposizioni contrattuali in materia di orario di lavoro, nel rispetto dei princìpi generali della protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori »:
─ Art. 41, comma 13, d.l. 25 giugno 2008 n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133:
« Al personale delle aree dirigenziali degli Enti e delle Aziende del Servizio Sanitario Nazionale, in ragione della qualifica posseduta e delle necessità di conformare l’impegno di servizio al pieno esercizio della responsabilità propria dell’incarico dirigenziale affidato, non si applicano le disposizioni di cui agli articoli 4 e 7 del decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66. La contrattazione collettiva definisce le modalità
atte a garantire ai dirigenti condizioni di lavoro che consentano una protezione appropriata ed il pieno recupero delle energie psicofisiche ».
12. Tanto premesso, devesi anzitutto rilevare, con riferimento al riposo giornaliero, che il rimando che nelle citate disposizioni legislative interne si fa alla contrattazione collettiva, accompagnato dalla indicazione della necessaria definizione, ad essa demandata, delle « modalità atte a garantire ai dirigenti condizioni di lavoro che consentano una protezione appropriata ed il pieno recupero delle energie psico-fisiche », non è di per sé sufficiente ad escludere la dedotta violazione, né il suo carattere grave e manifesto.
È bensì vero che gli artt. 17, par. 2, e 18 della Direttiva 2003/88/CE prevedono, come visto, che all’art. 3 della medesima Direttiva gli Stati membri possano derogare (anche) « mediante contratti collettivi o accordi conclusi fra le parti sociali a livello nazionale o regionale o, conformemente alle regole fissate da dette parti sociali, mediante contratti collettivi o accordi conclusi tra le parti sociali ad un livello inferiore » e tuttavia una tale deroga, per le norme in tema di riposo giornaliero, è consentita « a condizione che vengano concessi ai lavoratori interessati equivalenti periodi di riposo compensativo oppure, in casi eccezionali in cui la concessione di tali periodi equivalenti di riposo compensativo non sia possibile per ragioni oggettive, a condizione che venga loro concessa una protezione appropriata » (art. 17, par. 2; art. 18, terzo comma).
Onde verificare se una tale deroga rispetti o meno la condizione prevista dalle norme europee non ci si può pertanto fermare al testo delle citate disposizioni normative interne, ma è necessario verificare ciò che era previsto nei contratti collettivi cui quelle disposizioni rimandavano in punto di riposo giornaliero, e in particolare a quelli conclusi a livello nazionale, posto che, secondo il chiaro disposto dei primi tr e commi dell’art. 18 della Direttiva, le deroghe a un livello
inferiore sono consentite solo all’interno e nei limiti di un quadro che deve risultare già fissato a livello di contrattazione collettiva nazionale o regionale o, in mancanza, a livello legislativo.
Occorre al riguardo inoltre rimarcare che, venendo dunque necessariamente in rilievo quanto previsto nei contratti collettivi nazionali di settore, la verifica del rispetto delle condizioni predette deve essere compiuta dal giudice ex officio , a tanto non ostando la mancanza di specifica allegazione di parte.
Secondo indirizzo incontrastato nella giurisprudenza di questa Corte, infatti, « la conoscibilità ex officio di un contratto collettivo si atteggia diversamente a seconda che si versi in un’ipotesi di violazione del contratto collettivo nazionale di lavoro privatistico o di un contratto collettivo nazionale del pubblico impiego, atteso che, mentre nel primo caso il contratto è conoscibile solo con la collaborazione delle parti, la cui iniziativa, sostanziandosi nell’adempimento di un onere di allegazione e produzione, è assoggettata alle regole processuali sulla distribuzione dell’onere della prova e sul contraddittorio (che non vengono meno neppure nell’ipotesi di acquisizione giudiziale ex art. 425, comma 4, c.p.c.), nel secondo caso il giudice procede con mezzi propri, secondo il principio iura novit curia» (Cass. Sez. 6-L 05/03/2019, n. 6394, Rv. 653173 -01: nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza gravata che, nel rigettare la domanda del ricorrente volta a conservare il trattamento economico di dirigente medico di secondo livello, aveva riqualificato d’ufficio la fattispecie controversa secondo la disciplina applicabile del CCNL della Dirigenza Medica).
Ebbene, deve darsi atto che, come evidenziato in ricorso, riprendendo quanto già dedotto in appello dagli odierni ricorrenti, « nella disciplina collettiva prima del 25 novembre 2015, mancano disposizioni in tema di riposo giornaliero, pause, … infatti solamente con la disciplina collettiva dopo il 25 novembre 2015 (CCNL del 21
maggio 2018, relativo al triennio 2016-2018), alcuni di essi vengono normati, in conformità alla normativa europea: riposo giornaliero: non inferiore a 11 ore consecutive (art. 27, comma 5); … ».
In particolare, il C.C.N.L., Area Dirigenza Medico-Veterinaria del S.S.N., Parte Normativa, del 17 ottobre 2008, valido per il quadriennio 2006 -2009 , prevede all’art. 7:
« 1. Nel rispetto dei principi generali di sicurezza e salute dei dirigenti e al fine di preservare la continuità assistenziale, le aziende definiscono, in sede di contrattazione integrativa, ai sensi dell’art. 4, comma 4, del CCNL del 3 novembre 2005, modalità di riposo nelle ventiquattro ore, atte a garantire idonee condizioni di lavoro ed il pieno recupero delle energie psicofisiche dei dirigenti, nonché prevenire il rischio clinico.
In tale ambito, al fine di conformare l’impegno di servizio al ruolo e alla funzione dirigenziale, la contrattazione dovrà prevedere, in particolare, dopo l’effettuazione del servizio di guardia notturna o della turnazione notturna, la fruizione immediata, in ambito diurno, di un adeguato periodo di riposo obbligatorio e continuativo, in misura tale da garantire l’effettiva interruzione tra la fine della prestazione lavorativa e l’inizio di quella successiva.
Le misure previste dai commi precedenti garantiscono ai dirigenti una protezione appropriata evitando che, a causa della stanchezza, della fatica o di altri fattori, sia ridotta l’efficienza della prestazione professionale, aumentando il rischio di causare lesioni agli utenti o a loro stessi, ad altri lavoratori o di danneggiare la loro salute, a breve o a lungo termine.
La contrattazione si svolge nel rispetto della normativa vigente, tenuto conto delle linee di indirizzo emanate dalle Regioni ai sensi dell’art. 5, lett. k del presente CCNL.
Resta fermo quanto previsto per la programmazione e per la articolazione degli orari e dei turni di guardia dall’art. 14, commi 7 e
8, del CCNL 3.11.2005, tenendo conto di quanto stabilito in materia di riposi giornalieri dal presente articolo.
È fatta salva l’attuale organizzazione del lavoro, purché non sia in contrasto con quanto stabilito nei precedenti commi, da verificarsi a livello aziendale dalle parti entro 90 giorni dalla stipula del presente CCNL ».
Si tratta di disposizione che, nel demandare a sua volta alla contrattazione integrativa aziendale la concreta definizione delle modalità di riposo nelle ventiquattro ore, fissa dei criteri e dei limiti (ai quali la contrattazione di livello inferiore dovrà attenersi) alquanto generici e certamente non rispettosi delle condizioni dettate dalla Direttiva, sia quanto alla durata del riposo giornaliero, sia quanto alla definizione di un riposo compensativo (parlandosi al riguardo, del tutto genericamente, di « un adeguato periodo di riposo obbligatorio e continuativo, in misura tale da garantire l’effettiva interruzione tra la fine della prestazione lavorativa e l’inizio di quella successiva »), sia quanto alla definizione della subordinata misura di « protezione adeguata ».
Lacuna, questa, resa evidente dal raffronto con il ben diverso testo dell’art. 27, commi 5 e 9, del C.C.N.L. del 21 maggio 2018 che, in termini ben più specifici e aderenti alle prescrizioni unionali prevedono, rispettivamente:
« 5. Il lavoratore ha diritto ad un periodo di riposo consecutivo giornaliero non inferiore a 11 ore per il recupero delle energie psicofisiche fatto salvo quanto previsto dal successivo comma 9 . …
Al fine di garantire la continuità assistenziale, da parte del personale addetto ai servizi relativi all’accettazione, al trattamento e alle cure delle strutture ospedaliere l’attività lavorativa dedicata alla partecipazione alle riunioni di reparto e alle iniziative di formazione obbligatoria determina la sospensione del riposo giornaliero. Il recupero del periodo di riposo non fruito, per il completamento delle
undici ore di riposo, deve avvenire immediatamente e consecutivamente dopo il servizio reso. Nel caso in cui, per ragioni eccezionali, non sia possibile applicare la disciplina di cui al precedente periodo, quale misura di adeguata protezione, le ore di mancato riposo saranno fruite nei successivi sette giorni fino al completamento delle undici ore di riposo ».
A maggior ragione la violazione indubbiamente sussiste, ed è grave e manifesta, per quanto riguarda le prescrizioni in tema di durata massima del lavoro settimanale, per le quali ─ giova subito rimarcare ─ non è prevista analoga facoltà di deroga, da parte degli Stati membri, attraverso la contrattazione collettiva.
Al riguardo non può condividersi la tesi sostenuta dal P.G. nelle sue conclusioni scritte secondo cui non potrebbe riconoscersi il carattere « grave e manifesto » della violazione di tale disposizione sul duplice rilievo che:
la violazione contestata sarebbe stata favorita dall’ampiezza del potere discrezionale riservato alle autorità nazionali dalle norme comunitarie;
non vi era, prima della emanazione delle norme derogatorie (art. 3, comma 85, l. n. 244 del 2007 e art. 41, comma 13, d.l. n. 112 del 2008), una giurisprudenza consolidata della Corte, dalla quale risulti l’illegittimità del comportamento in questione .
Nessuno dei due argomenti appare invero condivisibile.
Quanto al primo, non si ricava dalla formulazione della norma unionale alcuna incertezza o ambiguità sui margini entro i quali è consentita al legislatore nazionale di derogare ai limiti fissati circa l’orario giornaliero di lavoro e la durata massima settimanale del lavoro.
In particolare, quanto alle disposizioni in tema di durata massima, ad essere sottratta alla loro osservanza è solo la legislazione che abbia ad oggetto l’organizzazione del lavoro la cui durata:
i ) non è misurata e/o predeterminata a causa delle caratteristiche dell’attività esercitata;
ii ) può essere determinata dai lavoratori stessi e, in particolare, quando si tratta di dirigenti o di altre persone aventi potere di decisione autonomo.
Se ne trae univocamente che la qualifica di « dirigente » ai fini di tale norma rileva non in quanto tale, ovvero per il solo dato formale o nominale, quanto perché, e se, correlabile ad un « potere di decisione autonomo » ai fini della determinazione della durata dell’orario di lavoro.
Il testo della norma europea sul punto è estremamente chiaro, tale per cui non può ritenersi necessaria, affinché se ne possa valutare la violazione, l’esistenza di pronunce della Corte di giustizia che ne precisino ulteriormente, in sede interpretativa, contenuto e limiti di applicazione.
La questione interpretativa attiene piuttosto alla normativa interna, ovvero alla questione se al dirigente medico possano riconoscersi quei poteri di autonomia decisionale sull’orario di lavoro chiaramente postulati dalla norma unionale.
È questo, però, profilo della controversia che può e deve risolvere il giudice nazionale, non quello europeo (v. Corte di giustizia 09/09/2003, in causa C-151/02, Jaeger , punto 43 e ivi altre pronunce richiamate).
15 . Ebbene, tale questione ─ tutta di diritto interno ─ trova già risposta nella giurisprudenza di questa Corte Suprema, formatasi con riferimento al contesto normativo previgente .
Tali testi normativi -giova premettere -dettavano, per quanto in questa sede interessa, la seguente disciplina, per molti versi analoga a quella cui attiene la questione in scrutinio:
Art. 1 r.d.l. n. 962 del 1923:
« La durata massima normale della giornata di lavoro degli operai ed impiegati nelle aziende industriali o commerciali di qualunque natura, anche se abbiano carattere di Istituti d’insegnamento professionale o di beneficenza, come pure negli uffici, nei lavori pubblici, negli ospedali ovunque è prestato un lavoro salariato o stipendiato alle dipendenze o sotto il controllo diretto altrui, non potrà eccedere le otto ore al giorno o le quarantotto ore settimanali di lavoro effettivo.
Il presente decreto non si applica al personale addetto ai lavori domestici, al personale direttivo delle aziende ed ai commessi viaggiatori ».
Art. 3 r.d. n. 1955 del 1923 (ora abrogato dall’art. dall’art. 1 L. 7 aprile 2025, n. 56, con salvezza però degli « effetti provvedimentali delle disposizioni prive di effettivo contenuto normativo degli atti abrogati »):
« Agli effetti del comma 2 dell’art. 1 del R.D.L.:
1. … 2. Si considera «personale direttivo» quello preposto alla direzione tecnica o amministrativa dell’azienda o di un reparto di essa con la diretta responsabilità dell’andamento dei servizi e cioè: gli institori, i gerenti, i direttori tecnici o amministrativi, i capi ufficio ed i capi reparto che partecipano soltanto eccezionalmente al lavoro manuale, esclusi i commessi di negozio e gli altri impiegati di grado comune di cui al numero 3 dell’art. 3 del D.L. 9 febbraio 1919 numero 112, e coloro che pur essendo adibiti alla direzione tecnica di una lavorazione, concorrono con prestazione d’opera manuale, alla esecuzione di essa ».
Ragionando su tali disposizioni, questa Corte (v. Cass. Sez. L n.
11637 del 22/06/2004) ha avuto modo di chiarire che:
─ la seconda di esse (art. 3 n. 2 del r.d. 10 settembre 1923, n. 1955) fornisce del personale direttivo una particolare qualificazione legale, espressamente diretta « agli effetti del secondo comma dell’art. 1 del r.d.l. 15 marzo 1923, n. 692 convertito in legge 17 aprile 1925 n. 473 »;
─ i n base alla predetta disposizione, da un canto, è da escludere che « l’inquadramento nella categoria del personale direttivo possa derivare dal mero dato formale del conferimento della qualifica e tantomeno dal solo esonero esplicito dall’obbligo di timbrare il cartellino o, addirittura, di sottostare alle limitazioni di orario » (Cass. 30/03/1992, n. 3914); d’altro canto, per la sua espressa specifica limitata funzione (escludere il limite di « orario massimo normale di lavoro », previsto dall’art. 1 del r.d.l. n. 692 del 1923), la predetta disposizione (art. 3 n. 2 r.d. n. 1955 del 1923) costituisce, nei confronti di ogni altra qualificazione dirigenziale data da norme legislative o collettive, una norma speciale;
─ l a ragione di questa norma è nel rapporto fra mansioni ed orario: queste mansioni sono indicate (ed il dirigente è qualificato) esclusivamente in funzione dell’orario;
─ o gni altra qualificazione normativa, essendo fondata su una diversa ragione, resta inapplicabile;
─ a i fini dell’orario massimo di lavoro, deve pertanto farsi riferimento esclusivamente all’indicata disposizione, secondo cui « si considera personale direttivo quello preposto alla direzione tecnica od amministrativa dell’azienda o d’un reparto di essa con diretta responsabilità dell’andamento dei servizi » (e l’elemento della “direzione” trova risonanza nelle specifiche ipotesi normativamente previste: institori, gerenti, direttori tecnici od amministrativi, capi ufficio e capi reparto);
─ i n tal modo, ai fini del limite orario in esame, l’art. 15 del d.lgs.
30 dicembre 1992 n. 502 (nei cui confronti l’art. 1 del R.D.L. 15 marzo 1923 n. 692 costituisce norma speciale) resta irrilevante;
─ i rrilevanti anche le disposizioni dell’art. 20 del d.P.R. d.P.R. 30 giugno 1972 n. 748 “sullo stato giuridico dei dirigenti statali” e dell’art. 16 della legge 18 maggio 1968 n. 249, in quanto relative ai dipendenti statali.
Non v’è ragione di ritenere tali principi non più attuali in rapporto al mutato quadro normativo nazionale e sovranazionale in tema di limiti dell’orario lavorativo, trattandosi di disposizioni che utilizzano un lessico -e soprattutto postulano esigenze di tutela -per molti versi sovrapponibili a quelli delle previgenti norme, né risulta introdotta una diversa definizione della qualifica dirigenziale in funzione dell’orario.
Varrà al riguardo rammentare che il d.lgs. 8 aprile 2003, n. 66 (recante, come detto, « Attuazione delle direttive 93/104/CE e 2000/34/CE concernenti taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro »), al comma 5 dell’art. 17 prevede testualmente, in termini sostanzialmente riproducenti il tenore dell’art. 17 della Direttiva 2003/88/CE:
« Nel rispetto dei principi generali della protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori, le disposizioni di cui agli articoli 3, 4, 5, 7, 8, 12 e 13 non si applicano ai lavoratori la cui durata dell’orario di lavoro, a causa delle caratteristiche dell’attività esercitata, non è misurata o predeterminata o può essere determinata dai lavoratori stessi e, in particolare, quando si tratta:
di dirigenti, di personale direttivo delle aziende o di altre persone aventi potere di decisione autonomo; … ».
Ed è anche da rimarcare che il Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale, Direzione generale per l’attività ispettiva, con nota prot. n. 25/I/000174 dell’8 febbraio 2007, in risposta a istanza di interpello che chiedeva se « il personale direttivo appartenente alle
categorie D e DS, nonché il personale con qualifica dirigenziale del comparto sanità possano essere ricondotti al regime derogatorio previsto dall’art. 17 co. 5 del D. Lgs. n. 66/2003 in materia di riposo giornaliero, pausa, lavoro notturno e durata massima settimanale » ha osservato ─ « acquisito il parere della Direzione generale della Tutela delle Condizioni di Lavoro » ─ che « l’operatività dell’art. 17, comma 5, del D.Lgs. n. 66/2003 presuppone che, a causa delle caratteristiche peculiari dell’attività esercitata, la durata dell’orario di lavoro non risulti quantificata né predeterminabile, ovvero la sua determinazione sia rimessa al lavoratore’. Nel caso prospettato il Ccnl di riferimento prevede una durata determinata delle prestazioni per la totalità delle categorie dei lavoratori citati (D, DS ed il personale con qualifica dirigenziale), pertanto detto personale non sembra rientrare nel regime derogatorio previsto dall’art. 17, comma 5, del D.Lgs. n. 66/2003 in regione delle esplicite previsioni della contrattazione collettiva di settore ».
17. Che la normativa interna non correli la definizione di dirigente medico alla attribuzione di una piena autonomia decisionale sulla organizzazione dell’orario di lavoro è peraltro esplicitamente attestato anche dall’atto con il quale la Commissione europea ha avviato, nel 2011, nei confronti dell’Italia, una procedura d’infrazione ( n. 2011/4185), ex art. 258 del TFUE per la violazione gli artt. 2, 3, 6 e 17, par. 2, della Direttiva 2003/88/CE.
In esso si rileva, infatti, che l’art. 41, comma 13, d.l. n. 112 del 2008 « dilata indebitamente i confini di detta deroga, prevedendo che la garanzia della durata massima del lavoro giornaliero non si applichi al personale, con funzioni dirigenziali, del Servizio Sanitario Nazionale. Tale deroga verrebbe prevista in ragione delle rilevanti mansioni di responsabilità di cui sarebbero investiti tali lavoratori. Tuttavia, risulta alla Commissione che, in Italia, “tutti” I medici operanti nel SSN sono qualificati ufficialmente come “dirigenti”, anche
nel caso in cui non rivestano posizioni apicali implicanti una vasta responsabilità e una cospicua autonomia decisionale. Pertanto, verrebbe disattesa la massima già espressa dalla Corte UE, per la quale le deroghe alle norme di durata massima dell’orario di lavoro, per essere compatibili con il diritto UE, devono essere strettamente limitate a quanto necessario a soddisfare gli interessi, cui esse deroghe sono funzionali ».
18. Né a diversa conclusione ─ nel senso, cioè, della piena riconducibilità dei dirigenti medici alla categoria dirigenziale tenuta presente dall’art. 17 della Direttiva 2003/88/CE per sottrarla all’obbligo di rispetto dei limiti da essa dettati quanto alla organizzazione dell’orario di lavoro ─ può condurre di per sé il principio, consolidato nella giurisprudenza della Sezione Lavoro di questa Corte, che esclude, di regola, il diritto dei dirigenti medici al compenso per le « ore di servizio prestate oltre l’orario contrattualmente previsto sul rilievo che, ai sensi dell’art. 15, comma 3, del d.lgs. n. 502 del 1992 … il dirigente, in relazione all’attività svolta, ai programmi concordati da realizzare e alle specifiche funzioni allo stesso attribuite, è responsabile del risultato anche se richiedente un impegno orario superiore a quello contrattualmente definito » e che, pertanto, l’eventuale superamento dell’orario contrattuale ben può essere oggetto di una scelta del dirigente per il raggiungimento del risultato concordato (cui è collegata una retribuzione di risultato).
Tale principio, e la norma da cui esso è tratto, attengono ad un profilo diverso, quello cioè del trattamento economico del dirigente medico, con specifico riferimento all’eventuale superamento dell’orario di lavoro per essi contrattualmente stabilito.
Da essi non si ricava affatto l’attribuzione di una piena autonomia decisionale ai dirigenti medici (quanto meno a tutti) nella determinazione degli orari di lavoro, ma anzi al contrario si trae implicita conferma ─ visto che si propongono di disciplinare gli effetti
del ‘superamento’ di limiti contrattualmente stabiliti ─ dell’esistenza anche per essi di una fonte eteronoma della relativa disciplina.
L’art. 15, comma 3, d. lgs. n. 502 del 1992 non autorizza i medici a derogare alla regolamentazione legale o contrattuale riguardante l’organizzazione dell’orario di lavoro o a dettare ex se , autonomamente, la regolamentazione relativa, ma si limita a prevedere che il dirigente è responsabile dei risultati programmati, anche se comportano il superamento di quei limiti. Prevede, dunque, un vincolo di risultato che non deroga di per sé alle norme, legali o contrattuali, sulla organizzazione dell’orario di lavoro, ma ne prescinde ai fini della valutazione del conseguimento o meno degli obiettivi programmati.
La giurisprudenza ne trae argomenti sotto il ristretto profilo del diritto allo straordinario (escluso per essere la retribuzione già fissata in rapporto al risultato), ma fa espressamente salve eventuali conseguenze risarcitorie nel caso in cui la durata della prestazione lavorativa ecceda i limiti della ragionevolezza in rapporto alla tutela, costituzionalmente garantita, del diritto alla salute (v. Cass. Sez. U. 17/04/2009, n. 9146; v. anche, ex aliis , Cass. Sez. L. 23/07/2004, n. 13882; 04/06/2012, n. 8958; 28/03/2017, n. 7921; 25/06/2020, n. 12629).
19. Per analoghe ragioni deve anche escludersi che una tale disciplina integri l’ipotesi derogatoria contemplata dall’art. 22 della Direttiva 2003/88/CE (v. supra , « Ragioni della decisione », par. 9, terzo alinea), atteso che -come fondatamente rilevato in ricorso -la c.d. opzione ‘ opt-out ‘ (vale a dire la possibilità per i dirigenti medici di rinunciare ai limiti relativi all’orario di lavoro e alla disciplina dei riposi, a fronte di particolari condizioni o accordi) presuppone che la facoltà di deroga sia stata recepita dall’ordinamento nazionale e non può essere regolamentata da un contratto collettivo o da un accordo sindacale, in difetto il consenso del lavoratore essendo
irrilevante (Corte giustizia, 14/10/2010, in causa C-243/09, NOME COGNOME c.d. Fuß 1 , punto 38); la possibilità di una tale opzione non può dirsi recepita dall’ordinamento con la menzionata norma di cui all’art. 15, comma 3, d. lgs. n. 502 del 1992 che non è diretto a regolare tale ipotesi, ma ne prescinde avendo altro scopo e obiettivo.
Escluso, dunque, che le deroghe previste dall’art. 17 della Direttiva 2003/88/CE possano essere riferite alla categoria dei dirigenti medici, se ne deve dedurre, alla luce di quanto sopra esposto che:
─ le norme di cui agli artt. 3, comma 85, della legge n. 244 del 2007 e 41, comma 13, del d.l. n. 112 del 2008, nel disporre l’esclusione del personale del ruolo sanitario del Servizio sanitario nazionale (la prima) e del « personale delle aree dirigenziali » (la seconda) dal campo di applicazione degli artt. 4 (durata massima dell’orario settimanale) e 7 (riposo giornaliero) del d. lgs. n. 66 del 2003 si pongono in contrasto con le menzionate Direttive europee;
─ la violazione, peraltro implicitamente confermata di per sé dalla successiva abrogazione di tali norme con l’art. 14 della legge n. 161 del 2014 (emanata proprio al fine di evitare che fosse portata a conclusione la procedura d’infrazione avviata dalla Commissione europea), è « grave e manifesta »;
─ il risultato prescritto dalla direttiva implica certamente l’attribuzione di diritti a favore dei singoli ;
─ il contenuto di tali diritti può essere individuato sulla base delle disposizioni della direttiva.
Fermo quanto sopra, quel che però, nella specie, non consente il riconoscimento della fondatezza della pretesa risarcitoria è l’impossibilità di ravvisare la terza condizione della responsabilità dello Stato che ne è dedotta a fondamento, vale a dire « l’esistenza di un nesso di causalità tra la violazione dell’obbligo a carico dello Stato e il danno subito dai soggetti lesi ».
L’impostazione aziendalistica che connot a, nell’ordinamento interno, lo statuto dei dirigenti medici, con il vincolo di risultato di cui s’è detto, impedisce in effetti, come rilevato dai giudici di merito, in mancanza di specifica allegazione e prova sul punto, di apprezzare se e in che misura la prestazione di attività lavorativa per una durata eccedente i limiti fissati dalle norme unionali sia conseguenza della fissazione, su base legale o contrattuale, di turni e orari settimanali non conformi a quelle regole e non invece del consapevole e volontario superamento di quei limiti, pur stabiliti conformemente a quelle norme dalla contrattazione collettiva, in funzione del raggiungimento degli obiettivi programmati.
Con ciò non si intende certo disconoscere i rischi che una tale impostazione comporta rispetto a quegli obiettivi, che le Direttive intendono perseguire, di tutela della salute e sicurezza del lavoro, specie in un settore di tale rilevanza pubblica come quello della sanità, pubblica e privata. « La salute ─ come è stato scritto in dottrina ─ non è un prodotto industriale e l’ospedale non è una fabbrica; esso non si può gestire secondo una logica unicamente aziendale ».
Resta il fatto però che un tale rischio ─ e i danni che singolarmente ne patisce il personale di tali aree, indotti al perseguimento del risultato a scapito anche delle esigenze di riposo dal lavoro ─ non può dirsi conseguenza dei fatti posti a fondamento della domanda che ci occupa: vale a dire della sospensione, per effetto delle citate norme (artt. 3, comma 85, della legge n. 244 del 2007 e 41, comma 13, del d.l. n. 112 del 2008 ), dell’operatività degli artt. 4 e 7 d. lgs. n. 66 del 2003 nei confronti dei dirigenti medici nel periodo compreso tra il 1° gennaio 2008 e il 25 novembre 2015.
Pur se tali norme non fossero state emanate, infatti, nulla esclude che, per effetto dell’impostazione aziendalistica di cui si è detto , già allora imperante, e del connesso « vincolo di risultato », pur in
presenza di una normativa di fonte legale o contrattuale pienamente rispettosa delle direttive europee sotto i profili considerati, i dirigenti medici fossero di fatto indotti a prescindere dall’orario di lavoro loro assegnato per il raggiungimento degli obiettivi concordati.
Il che, come fondatamente argomentato nella sentenza impugnata, in mancanza di specifica allegazione e prova che le durate eccedenti della prestata attività lavorativa indicate in domanda siano da riferire ad una regolamentazione difforme dalle norme unionali dell’orario giornaliero e della durata massima settimanale dei lavori, anziché al perseguimento degli obiettivi programmati, impedisce di considerarle fonte di pregiudizio risarcibile in quanto direttamente correlato, con nesso di causa effetto, alle dedotte violazioni della normativa europea.
Non sussistono i presupposti perché abbia a disporsi, come sollecitano i ricorrenti, il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia ai sensi dell’art. 267 T.F.U.E..
Le considerazioni sopra esposte prescindono totalmente dalle norme unionali la cui interpretazione appare di per sé pacifica e non suscettibile di contrasti ed essendo l’unico tema di dibattito relativo semmai, come detto, alla corretta interpretazione delle norme interne circa il contenuto da dare alla qualifica di dirigente medico (contrasto questo peraltro risolto, come sopra, in senso conforme alla tesi dei ricorrenti).
È appena il caso di rammentare che, secondo principio consolidato, « il giudice nazionale di ultima istanza non è soggetto all’obbligo di rimettere alla Corte di giustizia delle Comunità europee la questione di interpretazione di una norma comunitaria quando non la ritenga rilevante ai fini della decisione o quando ritenga di essere in presenza di un acte claire che, in ragione dell’esistenza di precedenti pronunce della Corte ovvero dell’evidenza dell’interpretazione, rende inutile (o non obbligato) il rinvio pregiudiziale » (cfr. Corte di giustizia
CEE 6 ottobre 1982, C-283/81, Cilfit )» (v. anche Cass. n. 22103 del 2007; n. 10813 del 2011).
23. La memoria che, come detto, è stata depositata dai ricorrenti, ai sensi dell’art. 380 -bis.1 , primo comma, cod. proc. civ., reitera le tesi censorie già esposte in ricorso e non offre argomenti che possano indurre a diverso esito dell’esposto vaglio dei motivi .
24. Il ricorso deve essere pertanto rigettato.
Avuto tuttavia riguardo alla novità ed alla complessità delle questioni trattate si ravvisano i presupposti per l’integrale compensazione delle spese.
25. Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti , ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1 -bis dello stesso art. 13.
P.Q.M.
rigetta il ricorso. Compensa integralmente le spese processuali.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 -quater del d.P .R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1bis , dello stesso articolo 13.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza