Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 5639 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 3 Num. 5639 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 04/03/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 2870/2021 R.G. proposto da:
NOME COGNOME, elettivamente domiciliato in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALECODICE_FISCALE che lo rappresenta e difende
-ricorrente-
contro
NOME
NOME
-intimato- avverso SENTENZA del TRIBUNALE di CATANZARO n. 765/2020 depositata il 17/06/2020.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 29/01/2024 dal Consigliere NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
1.- NOME COGNOME propone ricorso per cassazione articolato in sei motivi nei confronti di NOME COGNOME per la cassazione della sentenza n. 7652020, pronunciata dal Tribunale di Catanzaro in sede di appello in data 17 giugno 2020, non notificata.
Il COGNOME, regolarmente intimato, non ha svolto attività difensive in questa sede.
Il ricorso è stato avviato alla trattazione in adunanza camerale. Non sono state depositate memorie. All’esito della discussione il collegio ha riservato la decisione nei successivi 60 giorni.
2. – I fatti da cui trae origine la vicenda risalgono al lontano 1993: il COGNOME, all’epoca sedicenne, condotto in stato di fermo presso la stazione dei Carabinieri di Gimigliano di cui il ricorrente maresciallo COGNOME era all’epoca comandante, subiva percosse dalle quali conseguivano lievi lesioni personali, in relazione alle quali l’COGNOME veniva condannato per il reato di cui all’articolo 582 del codice penale.
2.1. – La sentenza penale di condanna era solo in parte riformata in appello, in quanto il giudice dell’impugnazione dichiarava non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato, ma confermava la condanna generica al risarcimento del danno da determinarsi in sede civile.
– Sulla base della decisione penale definitiva, il COGNOME adiva il Giudice di pace di Catanzaro per ottenere il risarcimento dei danni nei confronti dell’COGNOME. Il giudice di pace condannava il maresciallo COGNOME al risarcimento dei danni per le lesioni personali subite dal COGNOME, consistenti in escoriazioni di tipo lineare alla regione posteriore del torace e agli arti superiori, escoriazioni ecchimotiche rosso violacee ai glutei e alla coscia destra e sinistra,
con prognosi di sette giorni, al risarcimento del danno nella misura complessiva di euro 1.871,40 da rivalutarsi dal giorno del fatto al saldo. La sentenza civile di primo grado affermava, tra l’altro, che il fatto illecito era stato ormai definitivamente accertato a mezzo della sentenza penale con ‘ effetto vincolante nell’odierno giudizio civile non solo in ordine all’accertamento del fatto, alla sua rilevanza e alla sua commissione ma anche in ordine all’esistenza del diritto al risarcimento che per tali reati (articolo 582 c.p.) deve ritenersi implicita ‘.
– L’appello dell’COGNOME, volto a contestare sia l’esistenza sia la quantificazione del danno, che segnalava fosse stato liquidato come danno in re ipsa , in difetto di prova dello stesso, era integralmente rigettato dal Tribunale di Catanzaro con la sentenza qui impugnata, la quale, pur puntualizzando che, anche in sede di sentenza penale recante condanna generica al risarcimento, la prova del danno non possa ritenersi in re ipsa , confermava la sentenza di prime cure negli esiti, ritenendo che il giudice di pace avesse opportunamente motivato, sulla base dell’istruttoria espletata, in merito all’esistenza e all’entità del danno.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.- Con il primo motivo il ricorrente denuncia la nullità della sentenza per violazione dell’articolo 132, secondo comma, numero 4 c.p.c. in relazione all’articolo 360 numero 4 c.p.c.
Ricorda di aver sostenuto fin dal primo grado che mancasse una prova della esistenza e dell’ammontare del danno e che i suoi rilievi erano stati rigettati in primo grado sulla base del ritenuto effetto vincolante della sentenza del giudice penale, che aveva pronunciato condanna definitiva dell’imputato al risarcimento del danno in favore della costituita parte civile.
In appello, il ricorrente denunciava sia che il giudice di primo grado fosse arrivato alla condanna risarcitoria nei suoi confronti senza neppure un principio di prova sul danno, sia che avesse ritenuto il
danno in re ipsa . Sostiene che a questi rilievi il giudice d’appello non abbia affatto risposto, essendosi dilungato in una motivazione meramente apparente, che non rendeva minimamente percepibile il fondamento della decisione in quanto non indicava per quali ragioni fosse giunto a confermare la condanna al risarcimento, evidenziata dall’appellante come del tutto priva di prova.
– Con il secondo motivo denuncia l’illogicità e contraddittorietà della decisione, per violazione dell’articolo 132 comma secondo numero 4 c.p.c. in relazione all’articolo 360 numero 4 c.p.c. sul punto, oggetto di uno specifico motivo di appello, della mancanza di prova del danno.
Sottolinea di aver denunciato in appello che, anche quando ci sia stato l’accertamento del reato con condanna generica al risarcimento del danno da coltivare in sede civile, sul danneggiato gravi comunque l’onere di fornire la prova delle conseguenze pregiudizievoli subìte a cagione del fatto reato.
Il giudice d’appello avrebbe solo apparentemente fatto propri i rilievi mossi dall’appellante in tal senso, affermando che la prova del danno non possa essere ritenuta esistente in re ipsa , per poi confermare la correttezza della valutazione contenuta nella sentenza impugnata, affermando che il giudice di pace avesse condannato l’odierno ricorrente al risarcimento del danno previa una disamina del materiale probatorio, sia penale che civile.
Sostiene per contro il ricorrente che la motivazione sarebbe solo apparente, perché non indicherebbe affatto né da quali atti emergerebbe il danno, né quale sarebbe stata l’attività istruttoria compiuta in sede civile.
– I primi due motivi possono essere trattati congiuntamente in quanto connessi, e sono entrambi inammissibili .
La sentenza civile d’appello è estremamente laconica nella ricostruzione del fatto, profilo peraltro non oggetto di autonoma censura. Nondimeno, essa richiama la sentenza di primo grado, che
traeva il fatto illecito, fonte dell’obbligo risarcitorio, dalla ricostruzione e dall’accertamento svolto in sede penale, valorizzando alcune delle risultanze istruttorie, in conformità all’esercizio del potere di formare il proprio libero convincimento sulla base dell’apprezzamento dei fatti processuali, sostenendo la scelta con una idonea giustificazione motivazionale. Benché l’COGNOME sia stato prosciolto, in sede penale, per intervenuta prescrizione del reato, è stato definitivamente accertato, ai fini civilistici, il fatto, cioè che il maresciallo responsabile della stazione dei carabinieri abbia picchiato un ragazzo condotto in stato di fermo presso la stazione stessa, infliggendogli lesioni guaribili in sette giorni: quindi, dal fatto accertato in sede penale, recepito nella prima sentenza civile, a sua volta fatta propria dalla sentenza di appello, emergono non solo il fatto illecito, ma precisi parametri di riferimento utili ai fini di una quantificazione del danno, equitativa ma correlata alla fattispecie concreta (l’età della vittima – la durata delle conseguenze fisiche le peculiari circostanze di fatto tali da caratterizzare l’esperienza negativa cui era andato incontro il giovane ed il peso psicologico che essa aveva potuto avere per il ragazzo).
La sentenza d’appello recepisce l’accertamento e la struttura logica motivazionale della sentenza di prime cure, pur dissentendo correttamente, come si dirà, dalla qualificazione del danno in re ipsa . La motivazione dal provvedimento impugnato pertanto non può ritenersi inesistente, o completamente contraddittoria e resiste alle critiche, tenuto conto dei ristretti limiti nei quali il vizio di motivazione è tuttora censurabile.
Sulla quantificazione del danno, il ricorrente si duole che, pur avendo i giudici civili recepito che i postumi delle lesioni erano modesti sette giorni di prognosi – abbiano poi liquidato in danno in misura eccessiva. La censura si appunta quindi sulla valutazione di fatto del giudice di merito nel quantificare il danno, ed è inammissibile sia perché non prospetta neppure una violazione di legge, sia perché è
del tutto generica, limitandosi a lamentare l’eccessività dell’importo liquidato in relazione al danno effettivo.
– Con il terzo motivo l’COGNOME denuncia la violazione e falsa applicazione dell’articolo 578 c.p.p. e dell’articolo 2909 c.c. in relazione all’articolo 360 numero 3 c.p.c.
Il ricorrente denuncia che il giudice di pace avrebbe fornito una errata interpretazione dell’articolo 588 c.p.p. là dove ha reputato che nei casi in cui si dichiara il reato estinto per amnistia o per prescrizione questa condanna comporti necessariamente come suo indispensabile presupposto l’affermazione della sussistenza del reato e della sua commissione e che quindi dia luogo a un giudicato civile sul diritto al risarcimento del danno, che non può essere più posto in discussione.
Sottolinea che il giudice di pace non considera che la condanna generica al risarcimento del danno in sede civile lascia in ogni caso spazio alla necessità di accertare nel giudizio civile la presenza di un effettivo danno ossia l’esistenza e l’entità delle conseguenze pregiudizievoli derivanti dal fatto illecito, prova che non può ritenersi in re ipsa ma deve essere fornita dalla vittima danneggiata, ben potendo verificarsi che il danno non sia provato e che quindi, pur in presenza di un reato accertato non faccia seguito a ciò nessun risarcimento.
Sottolinea poi che il giudice di secondo grado avrebbe dovuto correggere questa erronea applicazione dell’articolo 578 c.p.p. operata dal giudice di primo grado, dalla quale era derivata la disapplicazione delle norme civili sul risarcimento del danno, mentre il giudice d’appello aveva rigettato i rilievi dell’appellante sul punto ritenendo che il giudice di prime cure avesse fatto corretta applicazione dei principi di diritto applicabili alla fattispecie.
– Con il quarto motivo di ricorso, il ricorrente si duole della violazione e falsa applicazione degli articoli 2059, 2697 e 2909 c.c. in relazione all’articolo 360 numero 3 c.p.c.
Rileva che il giudice d’appello non si sarebbe attenuto alla corretta interpretazione delle norme citate, come risulta anche nell’interpretazione della giurisprudenza di legittimità, che devono essere correttamente intese nel senso che qualora un giudice penale abbia pronunciato una condanna definitiva dell’imputato al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile demandandone la liquidazione ad un successivo e separato giudizio civile, il giudice civile appunto sarà vincolato in ordine alla affermata responsabilità dell’imputato ma resta aperto il diritto-dovere del giudice ad un accertamento in concreto circa l’esistenza e l’entità di un pregiudizio risarcibile, ovvero resta a carico del danneggiato l’onere di provare di aver subito un pregiudizio e di provarne l’entità o almeno di fornire criteri indicativi per provarne l’ammontare (richiama in tal senso Cass. n. 8477 del 2020), perché il danno di cui all’articolo 2059 c.c. è un danno conseguenza, dal che deriva, sul piano probatorio, l’esigenza di dimostrare, oltre al danno evento anche le ripercussioni negative derivanti dal fatto illecito, cioè appunto il danno conseguenza e la causalità giuridica che riconnette le stesse alla lesione dei valori fondamentali dell’individuo.
Al termine della esposizione del quarto motivo il ricorrente torna a censurare la quantificazione del danno, sempre rapportandosi alla sentenza di primo grado. Afferma che, essendo state accertate lesioni che hanno causato conseguenze fisiche complessivamente modeste, pari a sette giorni di prognosi, il giudice civile avrebbe dovuto eventualmente riconoscere il danno sulla base di quanto emerso dal giudizio penale, limitandosi a liquidare il risarcimento per quei sette giorni di inabilità mentre, oltre a ciò, ha ritenuto di liquidare anche un danno non patrimoniale completamente carente di prova.
6. -I motivi terzo e quarto superano appena la soglia dell’inammissibilità, in quanto tesi anch’essi ad una rivalutazione dei fatti, ma sono comunque infondati .
Il giudice di primo grado ha affermato che il diritto al risarcimento del danno da fatto illecito era stato definitivamente accertato in sede penale, aggiungendo che il danno fosse in re ipsa .
Il giudice d’appello, in risposta ad uno dei motivi di impugnazione dell’COGNOME, ha fatto propria la prima affermazione del giudice di primo grado, corretta, secondo la quale il diritto al risarcimento del danno da fatto illecito era stato definitivamente accertato in sede penale, ma ne ha corretto il passaggio finale, eliminando in tal modo l’errore in diritto compiuto dal giudice di primo grado, e ha affermato che il danno non potesse ritenersi in re ipsa .
Ha poi rigettato ugualmente l’appello, ritenendo che il riconoscimento del diritto della vittima al risarcimento del danno ed anche la sua quantificazione fossero stati ancorati, dal giudice di pace, agli elementi istruttori a disposizione, e che la valutazione equitativa effettuata su quella base fosse condivisibile. Quindi la sentenza impugnata non contiene un’affermazione errata sul punto della necessità di compiere un autonomo accertamento, in sede civile, delle conseguenze del fatto illecito.
– Con il quinto motivo il ricorrente deduce la violazione dell’articolo 115 e dell’articolo 116 c.p.c. in relazione all’articolo 2059 c.c.
Ricorda di aver denunciato, in appello, che non vi fosse né prova del danno né del nesso causale col fatto di reato risalente al lontano 1993 né tantomeno una prova dell’ammontare del danno; lamenta che il giudice d’appello, nel rigettare l’appello dell’COGNOME abbia affermato, diversamente dal primo giudice, che il danno non potesse ritenersi in re ipsa ma poi abbia comunque rigettato l’appello, affermando che il danno doveva ritenersi adeguatamente provato pur in mancanza assoluta di prove relative all’ammontare del danno, quindi senza specificare quali fossero gli elementi probatori posti a fondamento della sua valutazione, per cui avrebbe fondato il proprio giudizio su prove ritenute presenti ma in realtà assenti, quindi su
prove inesistenti o comunque non indicate nell’ambito della decisione.
Torna a dire che, se si voleva recepire l’accertamento dei fatti contenuto nella sentenza penale, come ha fatto il giudice di primo grado, allora il giudice d’appello avrebbe dovuto considerare tutti gli elementi istruttori, ovvero sia quanto emergeva contro l’COGNOME sia quanto emergeva a suo favore. Critica poi direttamente la decisione di primo grado affermando che essa abbia recepito la valutazione del giudice penale anche sul danno non patrimoniale subito dal COGNOME, nel senso che questi, sottoposto a percosse all’interno di una stazione dei carabinieri oltre ad evidenti lesioni fisiche avrebbe riportato un danno non patrimoniale perché l’episodio aveva sicuramente inciso negativamente sullo sviluppo psichico del COGNOME, all’epoca sedicenne.
Critica, in definitiva, che siano state prese in considerazione alcune risultanze del giudizio penale piuttosto che altre, e sostiene che il giudice civile avrebbe dovuto considerare tutti i fatti nel loro complesso, e non poteva far rivivere l’aggravante del fatto che le percosse sarebbero state inflitte dall’COGNOME con abuso di potere e violazione dei doveri inerenti alla pubblica funzione perché questa aggravante era stata poi, in sede penale, ritenuta equivalente all’attenuante.
8. – La censura è inammissibile , perché non attiene alla violazione di norme ma bensì all’apprezzamento dei fatti da parte del giudice civile, il quale ha tenuto conto della funzione svolta dall’COGNOME e della sua posizione di responsabilità all’interno della stazione dei carabinieri ove sono avvenuti i fatti non ai fini della applicabilità della aggravante in sede penalistica ma per qualificare il disvalore da annettere alla sua condotta, in virtù del ruolo di responsabilità ricoperto dal ricorrente e per apprezzarne le ripercussioni negative sulla persona della vittima proprio perché giovane veniva percosso allorchè si trovava soggetto all’autorità di un adulto che avrebbe
dovuto svolgere una pubblica funzione di protezione sociale, all’interno di una stazione dei carabinieri.
9. – Con il sesto motivo il ricorrente si duole di una violazione di diritto -senza precisare la norma violata-in relazione alla determinazione degli interessi e in particolare censura la sentenza d’appello, come già quella di primo grado, per aver quantificato il danno individuando poi il momento di decorrenza degli interessi nel momento del fatto, quindi critica il criterio seguito nella liquidazione del danno per non essere lo stesso stato liquidato ai valori attuali.
10. – Il motivo è infondato .
La sentenza impugnata dedica al computo degli interessi, in relazione al danno come quantificato già dal giudice di prime cure una affermazione coerente con i principi di diritto applicati da questa Corte in materia, in quanto rimanda i criteri enunciati da Cass. S.U. n. 1712 del 1995 e tuttora validi : ‘ trattandosi di debito di valore, pertanto, sulla somma riconosciuta in favore del danneggiato a titolo di risarcimento del danno, sono dovuti gli interessi dal verificarsi dell’evento dannoso fino al saldo ( principi tratti dalla nota pronuncia a sezioni unite della cassazione, sentenza n. 1712 del 17/2/1995.
11. – Il ricorso va pertanto rigettato.
Nulla sulle spese, in difetto di attività processuale da parte dell’intimato.
Il ricorso per cassazione è stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013, e la parte ricorrente risulta soccombente, pertanto è gravata dall’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis dell’art. 13, comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale.
Così deciso nella camera di consiglio della Corte di cassazione il 29