Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 25743 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 3 Num. 25743 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 21/09/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 20901/2022 R.G. proposto da :
NOME, elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato RAGIONE_SOCIALE rappresentato e difeso dagli avvocati COGNOME (CODICE_FISCALE e NOME COGNOME‘ (CODICE_FISCALE
-ricorrente-
contro
NOMECOGNOMENOME COGNOME, elettivamente domiciliato in Rende INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE che lo rappresenta e difende
avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di NAPOLI n. 805/2022 depositata il 04/03/2022.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 13/05/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
Svolgimento del processo
Con ricorso depositato il 23 maggio 2017 NOME COGNOME esponeva di aver preso in locazione (per uso abitativo) da NOME COGNOME un immobile in Napoli alla INDIRIZZO con contratto del 20 aprile 2006, per la durata di quattro anni dal 1° maggio 2006, rinnovato per altri quattro anni, alla scadenza dei quali il locatore aveva comunicato la volontà di risolvere il rapporto; di avere pattuito per iscritto il canone mensile di € 1.000,00 mensili, regolarmente pagato, nonché, verbalmente, l’ulteriore importo mensile di € 1.400,00 (da agosto 2006 a dicembre 2009) e di € 1.500,00 (da gennaio 2010 a luglio 2013), il cui pagamento era in buona parte attestato dal rilascio di quietanze; di avere subito l’aggiornamento del canone (aumentato, su richiesta del 1 6 settembre 2011, a € 1.058,48), sebbene il locatore avesse comunicato di avvalersi del regime agevolato della cedolare secca (ai sensi dell’articolo 3, comma 11, del D. Lgs. 23/11); di ritenere non dovute (ex art. 13 della legge 431/98) le somme pagate in eccedenza rispetto al canone convenuto per iscritto (pari a € 123.970,83, di cui € 102.291,23 documentati dalle ricevute rilasciate dal d’Elia); di avere riconsegnato l’immobile il 28 novembre 2016.
Ciò premesso, chiedeva al Tribunale di Napoli la condanna di NOME COGNOME alla restituzione delle somme percepite indebitamente, per complessivi € 123.970,83, oltre agli interessi e alla rivalutazione monetaria dal giorno dei singoli pagamenti al saldo.
NOME COGNOME nel costituirsi in giudizio, segnalava, in via preliminare, che il ricorrente aveva adito il giudice senza esperire il necessario procedimento di mediazione.
Nel merito, rispondeva che i pagamenti richiamati da NOME COGNOME per i quali aveva rilasciato ricevuta, erano stati eseguiti in surroga di quanto dovuto dal coniuge NOME COGNOME che, da maggio del 2006, deteneva due beni immobili di sua proprietà, di valore elevatissimo, forse anche superiore a quello dell’abitazione già condotta in locazione dal COGNOME, e, precisamente, un box auto e un locale deposito in INDIRIZZO, Napoli.
Il COGNOME non aveva pagato in più di quanto dovuto in forza del contratto da lui sottoscritto, per cui avrebbe dovuto chiedere alla debitrice surrogata il rimborso delle somme pagate in sua vece; che il COGNOME aveva ‘supportato’ la detenzione della mogli e, tacitando il locatore e intervenendo con trattative interlocutorie per finalità dilatorie; che, svanita la possibilità di prolungare la locazione abitativa, i coniugi si erano sottratti a ogni dovere rifiutando di far visionare l’appartamento ad aspiran ti inquilini (col pretesto che al Gargano, agli arresti domiciliari, non era consentito ricevere nessuno) e simulando una separazione coniugale; che l’aggiornamento ISTAT era stato legittimamente richiesto finché non era arrivata la legge sulla cedolare secca, quasi alla fine del contratto; che il Gargano aveva procurato danni all’appartamento, mediante modifiche non autorizzate e deprezzanti, danneggiamenti e asportazioni volontarie, il tutto dettagliatamente descritto. In conclusione, chiedeva il rigetto della domanda di NOME COGNOME e, in riconvenzionale, la condanna di questo al risarcimento dei danni (anche ex art. 96 c.p.c.).
Il giudice designato, con ordinanza del 15 gennaio 2018, assegnava alle parti il termine di quindici giorni per introdurre il procedimento di mediazione e, successivamente, con sentenza del 9 dicembre 2020, così provvedeva: ‘a) accerta che le somme corrisp oste in più
dal ricorrente rispetto al canone contrattuale ammontano ad euro 109.087,60; b) accerta e liquida il danno subito all’immobile del resistente in euro 16.630,00 in valori monetari attuali; c) condanna il resistente, operata la atecnica compensazione, alla restituzione dell’importo di euro 92.457,60 oltre interessi dalla domanda al soddisfo; d) condanna il resistente al pagamento della metà delle spese processuali’.
Avverso tale decisione proponeva appello NOME COGNOME chiedendo la nullità della sentenza di primo grado.
Nell’ambito di un separato giudizio, con citazione notificata (in rinnovazione) il 17 luglio 2017 NOME COGNOME conveniva NOME COGNOME innanzi al Tribunale di Napoli esponendo: – che a maggio del 2006 aveva stipulato con NOME COGNOME un contratto di locazione per un box auto e un locale deposito di sua proprietà, siti in Napoli alla INDIRIZZO; – che, dopo la sottoscrizione del contratto, NOME COGNOME si era dichiarata non più interessata alla locazione ma si era trattenuta le chiavi, adducendo che il marito NOME COGNOME, conduttore allo stesso indirizzo di un appartamento ad uso abitativo, poteva avere interesse a riunire in un unico contratto i tre immobili; – che effettivamente il COGNOME aveva avviato lunghe trattative in tal senso, durante le quali aveva versato alcune somme, per le quali aveva predisposto le ricevute con formulazione assai ingannevole (la loro causale era ‘integrazione del canone di locazione’, sicché d’Elia ritenne a quanto pare erroneamente -di essere indennizzato per la transitoria situazione creatasi in attesa del nuovo contratto); – che il nuovo contratto non era stato concluso per l’insufficienza delle proposte del Gargano mentre, nel frattempo, il contratto ad uso abitativo era giunto alla scadenza e non era stato rinnovato; – che in un precedente giudizio il Gargano era stato condannato a pagargli un risarcimento di € 192.184,50; – che NOME COGNOME non aveva pagato e deteneva da undici anni (considerato che le somme versate da NOME
Gargano erano a dire di questo tutte relative alla locazione ad uso abitativo da lui stipulata), traendone considerevole profitto, sì da essere tenuta al risarcimento del danno procurato dalla mancata fruizione dei beni che sono molto appetiti.
Ciò premesso, NOME COGNOME chiedeva la condanna di NOME COGNOME al rilascio degli immobili sopra indicati e al ristoro dei danni subiti dall’inizio fino alla cessazione dell’occupazione sine titulo.
NOME COGNOME nel costituirsi in giudizio, eccepiva l’inesistenza della procura ad litem , l’improcedibilità della domanda, perché non preceduta dal tentativo di mediazione; l’errata adozione del rito ordinario; la nullità della notificazione dell’atto di citazione, perché eseguita in rinnovazione per un atto difforme da quello depositato nel fascicolo d’ufficio. Nel merito, negava l’occupazione degli immobili e, in ogni caso, eccepiva la prescrizione del diritto al risarcimento dei danni.
Con sentenza n. 1832/2021 del 24 febbraio 2021 il Tribunale di Napoli rigettava la domanda e condannava NOME COGNOME al pagamento, in favore di NOME COGNOME, delle spese di lite, liquidate in € 9.775,00 (di cui € 8.500,00 per compensi ed € 1.275,00 per spese forfettarie), oltre ad IVA e CPA come per legge. Avverso tale decisione proponeva appello NOME COGNOME sostenendo che il tribunale aveva travisato le prove fornite.
La Corte d’appello di Napoli, disposta la riunione dei procedimenti, con sentenza del 4 marzo 2022 rilevava l’assenza di prova idonea che gli immobili, consegnati dal d’Elia in esecuzione di un contratto invalido stipulato con NOME COGNOME, fossero stati restituiti, onde, in riforma della sentenza di primo grado, così provvedeva:
a) rigettava l’appello di NOME COGNOME contro la sentenza del Tribunale di Napoli n. 8462/2020 del 9 dicembre 2020; b) condannava NOME COGNOME al pagamento in favore di NOME COGNOME (con distrazione in favore degli avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME) delle
spese di appello; condannava NOME COGNOME al rilascio in favore di NOME COGNOME dei locali siti in Napoli alla INDIRIZZO nonché al pagamento, in favore dello stesso COGNOME, di € 19.987,16, oltre agli interessi legali (al tasso previst o dall’articolo 1284, comma 1°, c.c.) dal 25 febbraio 2022 al saldo; condannava NOME COGNOME al pagamento in favore di NOME COGNOME delle spese processuali.
Avverso tale decisione propone ricorso per cassazione NOME COGNOME affidandosi a sette motivi. Resiste con controricorso NOME COGNOME. La ricorrente deposita memoria ex art. 380 -bis. 1 c.p.c. NOME COGNOME non svolge attività processuale in questa sede.
Motivi della decisione
Con il primo motivo si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 434 cpc; si assume che nell’atto di appello non erano indicati specifici motivi sui quali si fondava l’impugnazione atteso che l’appellante si doleva genericamente di una presunta errata valutazione delle prove da parte del Giudice.
I motivi di appello non sarebbero stati specifici, coordinati ed articolati, ma avrebbero solo ribadito quanto prospettato nel primo giudizio.
Il motivo è inammissibile per violazione dell’art. 366 n. 6 c.p.c. poiché la deduzione non consente di apprezzare quali specifici motivi di impugnazione siano stati obliterati dalla Corte territoriale. La ricorrente avrebbe dovuto allegare o trascrivere il testo dei motivi di appello e i relativi passaggi della sentenza del Tribunale (Cass. n. 8462 del 5 maggio 2020 e Cass. 7 aprile 2017, n. 9122); infatti, quando il ricorrente censuri, come nel caso di specie, la statuizione di ammissibilità e conseguente rigetto dell’eccezione di inammissibilità ex art. 342 o 434 c.p.c. dell’appello, ha l’onere di individuare, nel ricorso, le ragioni per cui ritiene erronea tale statuizione del giudice di appello e non sufficientemente specifico, invece, il gravame sottoposto a quel giudice, e non può limitarsi a
rinviare all’atto di appello, ma deve riportarne il contenuto nella misura necessaria ad evidenziarne la pretesa specificità (Cass. n. 22880 del 29/09/2017, Rv. 645637 -01).
Con il secondo motivo si deduce l’omesso esame circa un fatto decisivo e violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cpc. La Corte dopo avere ritenuto provato l’uso dei locali di D’Elia da parte del Gargano, avrebbe escluso che fosse lo stesso ad occuparli ritenendo che, invece, fosse la Napoletano a farlo. La decisione sarebbe contraddittoria – dunque censurabile ai sensi de ll’art. 360 comma 1 n. 5 cpc – proprio in relazione alle prove valutate dai giudici.
Nella sentenza impugnata si rinverrebbe l’ulteriore contraddizione laddove la tesi dell’occupazione da parte della Napoletano si fonderebbe sulle dichiarazioni di un testimone, ovvero il portiere COGNOME che, seppur confermando la detenzione dei beni da parte di Gargano, affermava di aver visto alcune rare volte -quando i coniugi COGNOME/Napoletano vivevano nel palazzo -l’odierna ricorrente recarsi al locale cantina. Tuttavia, gli stessi Giudici nella sentenza rappresentano che lo stesso testimone COGNOME sarebbe inattendibile. Il motivo è inammissibile perché la ricorrente non indica le argomentazioni specifiche che si ritengono contraddittorie, in una sentenza di 25 pagine che si occupa di due procedimenti riuniti, dovendosi rilevare che la mera critica alla decisione di per sé non consente di identificare i passaggi motivazionali censurati specificamente.
Il ricorso per cassazione deve, a pena di inammissibilità, essere articolato su motivi dotati dei caratteri della specificità, della completezza e della riferibilità alla decisione impugnata; in particolare, il vizio della sentenza previsto dall’art. 360, numero 3), cod. proc. civ. deve essere dedotto mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici
della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza o dalla dottrina, diversamente non ponendosi la Corte regolatrice in condizione di adempiere al suo istituzionale compito di verificare il fondamento della lamentata violazione (Cass. Sez. 1, 19/10/2006, n. 22499, Rv. 592250 – 01).
Infine, con il secondo profilo dedotto (censura in ordine alla valenza dei mezzi di prova espletati) parte ricorrente pur denunciando, formalmente, ipotetiche violazioni di legge che vizierebbero la sentenza di secondo grado, (perché in contrasto con gli stessi limiti morfologici e funzionali del giudizio di legittimità) sollecita a questa Corte una nuova inammissibile valutazione di risultanze di fatto (ormai definitivamente cristallizzate sul piano processuale) sì come emerse nel corso dei precedenti gradi del procedimento, così strutturando il giudizio di cassazione in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito, nel quale ridiscutere analiticamente tanto il contenuto, ormai consolidatosi, di fatti storici e vicende processuali, quanto l’attendibilità maggiore o minore di questa o di quella ricostruzione probatoria, quanto ancora le opzioni espresse dal giudice di appello non condivise e per ciò solo censurate al fine di ottenerne la sostituzione con altre più consone ai propri desiderata quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa fossero ancora legittimamente proponibili dinanzi al giudice di legittimità. Il motivo in parte qua si colloca al di fuori delle modalità di deduzione del vizio di violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., siccome indica te a suo tempo da Cass. n. 11892 del 2016 e ribadite, ex multis , da Cass., Sez. Un., n. 20867 del 2020.
Quanto al vizio di omesso esame non si rinviene alcuna individuazione del fatto omesso nei termini indicati dalle note sentenze delle Sezioni Unite nn. 8053 e 8054 del 2014.
Con il terzo motivo si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 437 cpc; nel primo grado di giudizio COGNOME aveva domandato un risarcimento del danno che sarebbe derivato dal mancato utilizzo
del box e della cantina ‘sui 1.350 € mensili’. COGNOME, però, secondo il Tribunale non provava il presunto valore di locazione degli immobili di cui si tratta e le richieste di locazione del box e della cantina, ovvero il lucro cessante.
Con la successiva impugnazione la difesa di COGNOME non avendo dimostrato eventuali danni subiti, nelle conclusioni, proponeva una domanda nuova chiedendo ‘un indennizzo secondo equità a carico della convenuta Napoletano per la sua detenzione senza titolo’ .
Tale domanda avrebbe dovuto essere dichiarata inammissibile dalla Corte territoriale.
Il motivo è inammissibile in quanto deduce la doglianza in modo inidoneo ed essa appare comunque anche nuova, perché già preclusa.
In tema di ricorso per cassazione, il ricorrente che proponga una determinata questione giuridica – che implichi accertamenti di fatto – ha l’onere, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione (Cass. Sez. 3 -, Ordinanza n. 27568 del 21/11/2017, Rv. 646645 – 01).
Nel caso di specie avrebbe dovuto trascrivere i passaggi essenziali della comparsa di costituzione in appello, del ricorso originario e le relative conclusioni proposte da COGNOME in primo grado e nel giudizio di appello (testo dell’atto di impugnazione e conclusioni).
A prescindere da ciò, era onere della ricorrente dedurre nel grado la pretesa novità della domanda rispetto a quella originariamente proposta e ciò entro il termine di deposito delle note conclusive -trattandosi di una ipotetica questione rilevabile d’ufficio dal giudice di appello fino alla decisione.
Poiché parte ricorrente non ha ottemperato a ciò, ha causato la nullità ai sensi dell’art. 157, terzo comma, c.p.c. e non può farla valere in sede di impugnazione, non essendo la questione rilevabile in ogni stato e grado del giudizio (Cass. n. 21381 del 2018).
Con il quarto motivo si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 2041 cc e 112 cpc; secondo parte ricorrente le risultanze processuali non dimostrerebbero un arricchimento della Napoletano ai danni di COGNOME, in quanto sarebbe stato il Gargano a detenere, sino all’anno 2016, i locali corrispondendo somme in nero fino al momento del rilascio.
L’art. 2041 c.c. non sarebbe applicabile per mancanza del presupposto dell’arricchimento , giacché le testimonianze rese in primo grado dimostrerebbero che, dopo il 2016, i locali non sarebbero più stati utilizzati nemmeno dal Gargano e che, quindi, costui nessun vantaggio avrebbe avuto da quei locali. Mancherebbe, quindi, il presupposto dell’arricchimento da parte sia di Napoletano che del Gargano.
Il motivo è inammissibile.
Quanto alla violazione dell’art. 112 c.p.c., che si prospetta nel senso che la controparte non avrebbe esercitato un’azione ex art. 2041 c.c., si rileva la censura non coglie la ratio decidendi , dato che la Corte di merito non ha accolto l’azione ai sensi dell’art. 2041 c.c., ma ha ravvisato un ingiustificato rifiuto della conduttrice di restituire l’immobile e quindi un suo comportamento illecito.
Il riferimento all’art. 2041 c.c., pertanto, non è stato fatto per qualificare la domanda, ma solo per individuare il danno, che si fa coincidere con l’irripetibilità della prestazione concernente il godimento del bene. Tanto rende manifestamente priva di fondamento -al di là della postulazione sulla base di una sollecitazione a rivalutare questioni di fatto, tra l’altro indicare genericamente – la violazione di detta norma.
Per il resto, infatti, le censure, nella sostanza, si traducono in una critica alla valutazione delle prove operata dalla Corte territoriale sostenendo che sarebbe stato il Gargano e non la odierna ricorrente a detenere i locali e che nessuno dei coniugi, al momento del rilascio dell’abitazione occupava più i locali box e cantinola.
Il motivo si risolve in una (ormai del tutto inammissibile) richiesta di rivisitazione di fatti e circostanze come definitivamente accertati in sede di merito. Parte ricorrente, difatti, lungi dal prospettare a questa Corte un vizio della sentenza rilevante sotto il profilo di cui all’art. 360 n. 3 c.p.c. mediante una specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che si assumono in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie astratta applicabile alla vicenda processuale, si volge piuttosto ad invocare una diversa lettura delle risultanze procedimentali così come accertare e ricostruite dalla Corte territoriale, muovendo all’impugnata sentenza censure del tutto irricevibili, volta che la valutazione delle risultanze probatorie, al pari della scelta di quelle fra esse – ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, postula un apprezzamento di fatto riservato in via esclusiva al giudice di merito il quale, nel porre a fondamento del proprio convincimento e della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, nel privilegiare una ricostruzione circostanziale a scapito di altre (pur astrattamente sostenibili), non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere in alcun modo tenuto ad affrontare e discutere ogni singola risultanza processuale, ovvero vincolato a confutare qualsiasi deduzione difensiva.
Con il quinto motivo si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 1226 cc, 115 e 116 cpc, nonché vizio di motivazione per aver male esercitato il proprio prudente apprezzamento; in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 cpc. ed all’art. 360 comma 1 n. 5 cpc.
Il giudice di appello non avrebbe potuto operare una valutazione equitativa del danno, che non ha natura sostitutiva rispetto alle carenze o decadenze istruttorie. Non sussisterebbe l’ipotesi di impossibilità oggettiva di quantificare il danno.
Inoltre, nel secondo grado di giudizio il ricorrente non avrebbe più fatto riferimento all’ipotetico danno subito ‘per 1350 € mensili’ , come invece ritenuto erroneamente dai giudici e non avrebbe fornito indicazioni su come determinare il pregiudizio subito.
Il motivo è infondato.
La Corte territoriale ha correttamente affermato che il pregiudizio subito può ‘ritenersi, in via presuntiva, che, per la durata consistente dell’occupazione, dalla data anzidetta a quella della presente decisione, e per la natura e l’ubicazione del box, m a non anche della cantinola (tenuto conto della modesta estensione di questa, di soli 4 mq., come si evince dai dati catastali riportati nel contratto di locazione, e, quindi, della sua ridotta utilità), per la notoria appetibilità di tale tipo di cespite nel mercato delle locazioni immobiliari nelle zone centrali della città di Napoli, ottenutane la restituzione il d’Elia avrebbe sicuramente messo a reddito il suo garage, come da lui stesso puntualmente allegato: ciò sul presupposto che il danno da occupazione sine titulo , in quanto particolarmente evidente, può essere agevolmente dimostrato sulla base di presunzioni semplici, ferma la necessità che sia allegata l’intenzione concreta del proprietario di mettere l’immobile a frutto (cfr. Cass. 14268/21, Cass . 26331/21)’.
Ha ragionevolmente escluso alcuni parametri di liquidazione (‘quanto alla misura del risarcimento del danno, non può farsi riferimento al canone di € 1.400,00 previsto nel contratto di locazione, che ictu oculi non pare rispondente all’effettivo valore loc ativo dei cespiti, ma stabilito nell’ambito di un più ampio assetto d’interessi’) ritenendo, condivisibilmente, di poter fare riferimento al valore locativo desumibile dalle cosiddette quotazioni OMI,
gratuitamente consultabili sul sito www.agenziaentrate.it, ‘quali nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza, utilizzabili ex art. 115, comma 2°, c.p.c. come strumento di ausilio e indirizzo per l’esercizio della potestà di valutazione estimati va, e che, se idonee a condurre a indicazioni di valori di larga massima (Cass. 25707/15, Cass. 19421/19), appaiono, nel caso in esame, in grado di fornire un criterio di determinazione del danno più realistico rispetto alle ipotesi formulate dalla parte a ppellante’.
La sentenza ha fatto corretta applicazione dei principi affermati da Cass., Sez. Un., n. 36645 del 2022, secondo cui, contrariamente a quanto sostenuto da parte ricorrente, in tema di valutazione equitativa ‘se il danno da perdita subita di cui il propriet ario chiede il risarcimento non può essere provato nel suo preciso ammontare, esso è liquidato dal giudice con valutazione equitativa, se del caso mediante il parametro del canone locativo di mercato’.
Sotto tale profilo la Corte territoriale ha tenuto conto che ‘il fatto costitutivo del diritto del proprietario al risarcimento del danno da mancato guadagno è lo specifico pregiudizio subito, rappresentato dall’impossibilità di concedere il bene in godimento ad altri verso un corrispettivo superiore al canone locativo di mercato’.
Le Sezioni Unite hanno evidenziato che ‘a fronte della specifica contestazione del convenuto, è chiamato a fornire la prova anche mediante presunzioni o il richiamo alle nozioni di fatto rientranti nella comune esperienza; poiché l’onere di contestazione, la cui inosservanza rende il fatto pacifico e non bisognoso di prova, sussiste soltanto per i fatti noti, l’onere probatorio sorge comunque per i fatti ignoti al danneggiante, ma il criterio di normalità che generalmente presiede, salvo casi specifici, alle ipotesi di mancato esercizio del diritto di godimento, comporta che l’evenienza di tali fatti sia tendenzialmente più ricorrente nelle ipotesi di mancato guadagno’.
Sotto tale profilo si deve ritenere che i giudici di merito hanno fatto sostanziale applicazione del criterio di liquidazione corretto affermato dalle Sezioni Unite, ritendendo, in buon sostanza, che la COGNOME non avesse sollevato particolari contestazioni sulla possibilità di impiego dell’immobile tramite locazione a terzi.
Con il sesto motivo si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 346 cpc, nonché dell’art. 2697 cc con riguardo al difetto dell’onere della prova in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 cpc.
Secondo parte ricorrente nel giudizio di appello che segue il rito lavoro doveva trovare applicazione la norma di cui all’art. 346 cpc secondo il quale ‘Le domande e le eccezioni non accolte nella sentenza di primo grado, che non sono espressamente riproposte in appello, si intendono rinunciate’.
Conseguentemente, la richiesta risarcitoria di COGNOME quantificata ‘sui 1350 €’ mensili non accolta nel primo grado e non riproposta nel secondo -dal momento in cui il ricorrente ha chiesto con l’atto introduttivo un indennizzo secondo equità -avrebbe dovuto essere considerata rinunciata. Al contrario, quella quantificazione è stata considerata errata e per la determinazione del danno la Corte territoriale ha fatto riferimento ai valori medi OMI.
Il motivo è inammissibile in quanto parte ricorrente non evidenzia quale sarebbe l’interesse e quindi l’utilita processuale derivante dall’accoglimento del motivo, giacché secondo la stessa prospettazione della ricorrente, la Corte territoriale non avrebbe esaminato il parametro risarcitorio offerto dal COGNOME per utilizzare un differente criterio di liquidazione del danno.
Sotto altro profilo la scelta del criterio liquidatorio individuato in concreto dalla Corte territoriale non è sindacabile in sede di legittimità, perché congruamente argomentata così come evidenziato nel motivo precedente.
Inoltre, lo si rileva ad abundantiam , la pretesa violazione dell’art. 346 c.p.c. appare mal motivata, dato che la richiesta di liquidazione
secondo equità non si potrebbe di per sé idonea ad integrare rinuncia alla sua identificazione con la somma prima indicata.
Con il settimo motivo si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 115 comma secondo cpc. con riguardo alla determinazione del danno in base ai valori medi delle quotazioni OMI in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 cpc.
I giudici avrebbero liquidato il danno in base alle quotazioni OMI dell’Agenzia delle entrate basandosi sui valori medi e, dunque, in € 19.331,81 che, rivalutato, è pari ad € 19.987,16 oltre interessi. Quantificando il danno secondo i valori medi, senza che ve ne fosse una precisa ragione, l’importo è risultato sproporzionato ed ingiusto. La Corte d’appello, tra l’altro, avrebbe dovuto considerare la circostanza della ricezione in nero, a far data dal 2006, di somme per l’utilizzo di quei beni da parte del Gargano.
Il motivo è inammissibile.
La liquidazione in via equitativa del danno morale soggettivo – quale autonoma voce di pregiudizio non patrimoniale – è suscettibile di rilievi in sede di legittimità sotto il profilo del vizio di motivazione, solo se difetti totalmente di giustificazione o si discosti sensibilmente dai dati di comune esperienza, o sia fondata su criteri incongrui rispetto al caso concreto o radicalmente contraddittori, ovvero se l’esito della loro applicazione risulti particolarmente sproporzionato per eccesso o per difetto (Cass. Sez. L -, Ordinanza n. 31358 del 03/11/2021).
Nel caso di specie la censura riguarda il presupposto di applicabilità della valutazione equitativa del pregiudizio, sulla base della argomentazione secondo cui l’art. 1223 c.c. sarebbe applicabile solo nel caso di impossibilità oggettiva di pervenire ad una quantificazione del danno. Al contrario, nel caso di specie l’originario ricorrente non avrebbe dimostrato alcunché in violazione dell’art. 2697 cc.
Il motivo, dedotto in questi termini è inammissibile, per quanto già detto. Infatti, la ricorrente mette in questione esclusivamente la valutazione delle prove, senza poter dimostrare incongruenze od illogicità della motivazione.
Il ricorrente per cassazione non può rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l’apprezzamento in fatto dei giudici del merito, tratto dall’analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sé coerente, atteso che l’apprezzamento dei fatti e delle prove è sottratto al sindacato di legittimità, in quanto, nell’ambito di quest’ultimo, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione del giudice di merito, a cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra esse, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (Cass. Sez. 5, 22/11/2023, n. 32505, Rv. 669412 – 01).
Il ricorso deve essere, pertanto, rigettato.
Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, ai sensi dell’art. 13, comma 1quater, d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto (Cass., sez. un., 20/02/2020, n. 4315).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in favore del controricorrente in € 1500 per
compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, oltre esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del d.p.r. 115 del 2002, da atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso principale, a norma del comma 1bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso nella camera di Consiglio della Terza Sezione della Corte Suprema di Cassazione in data 13 maggio 2025.
Il Presidente NOME COGNOME NOME COGNOME