Sentenza di Cassazione Civile Sez. L Num. 17026 Anno 2025
Civile Sent. Sez. L Num. 17026 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 25/06/2025
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 18128/2021 R.G. proposto da: COGNOME rappresentato e difeso dall’Avv. COGNOME
– ricorrente –
contro
ISTITUTO NAZIONALE PER L’ASSICURAZIONE CONTRO GLI INFORTUNI SUL LAVORO (INAIL), in persona del dirigente generale legale rappresentante, rappresentato e difeso dagli Avv.ti NOME COGNOME e NOME COGNOME
– controricorrente –
avverso la sentenza della Corte d’Appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, n. 551/2020, depositata il 23.12.2020, NRG 199/2015;
udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 18.3.2025 dal Consigliere NOME COGNOME
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale dott. NOME COGNOME che ha concluso per l’accoglimento del primo motivo di ricorso, con assorbimento dei rimanenti;
uditi gli avv.ti NOME COGNOME per il ricorrente e NOME COGNOME per il controricorrente.
FATTI DI CAUSA
NOME COGNOME, dipendente dell’INAIL, fu destituito dall’impiego secondo quanto previsto dall’art. 85 del d.p.r. n. 3 del 1957, per avere riportato una condanna penale definitiva a due anni e sei mesi di reclusione per reati di truffa aggravata e falsità materiale commessi come pubblico ufficiale in danno dell’ente.
Dichiarata l’illegittimità costituzionale del menzionato art. 85 (lett. a) del d.p.r. n. 3 del 1957, nella parte in cui non prevedeva, in luogo del provvedimento di destituzione di diritto, l’apertura e lo svolgimento del procedimento disciplinare (Corte Costituzionale 14 ottobre 1988 n. 971) è stata poi emessa la legge n. 19 del 1990, la quale, all’art. 10, ha previsto che il dipendente destituito potesse essere riammesso in servizio -nei termini di cui in dettaglio si dirà di seguito -se l’ente di appartenenza non avesse disposto la destituzione in un procedimento da instaurare e concludere in certi termini.
In fatto, è accaduto che il COGNOME propose la prescritta domanda nel giugno 1992, ma l’INAIL, che avrebbe dovuto promuovere il procedimento disciplinare entro il 9.9.1992 e concluderlo entro il 9.12.1992, non dette corso ad alcunché.
Il ricorrente reiterò quindi l’istanza, con domanda dell’aprile 1993 in esito alla quale venne disposta nei suoi confronti la destituzione, che egli impugnò davanti al TAR.
Secondo quanto si legge nel ricorso per cassazione, il TAR, con sentenza 9255 del 2005 annullò il provvedimento di destituzione ed il conseguente diniego di riammissione in servizio, affermando che i termini per la instaurazione e conclusione dello speciale
procedimento disciplinare di cui alla legge n. 19 del 1990 erano perentori.
Il Consiglio di Stato, raggiunto dall’appello dell’ente, lo ha poi rigettato, confermando la natura perentoria di quei termini e riconoscendo il diritto del lavoratore a essere riammesso in servizio senza dilazione, pur senza restitutio in integrum , relativamente al trattamento retributivo, per difetto medio tempore della controprestazione.
NOME COGNOME ha quindi agito per il pagamento delle retribuzioni ed il risarcimento del danno, parametrato sulle retribuzioni perdute, oltre al danno conseguito per il collocamento a riposo senza maturazione della contribuzione utile al fine di fruire del trattamento pensionistico di anzianità e ai danni non patrimoniali. quindi trasmigrato, per declaratoria di difetto di giurisdizione, davanti al
Ciò, dapprima, ancora presso il TAR, con giudizio Tribunale ordinario.
Quest’ultimo ha disatteso sia la domanda retributiva, sia quella risarcitoria e, interposto appello dal COGNOME sui soli profili risarcitori, la Corte d’Appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, ha rigettato il gravame, confermando la sentenza di primo grado.
2.
La Corte territoriale ha evidenziato come, ove l’INAIL si fosse pronunciato nei termini previsti dalla legge, niente affatto scontata era la riammissione in servizio e che anzi, a giudicare da come si è poi concluso il procedimento tardivamente instaurato, sarebbe stata quasi sicuramente adottata la destituzione, sicché proprio la tardiva iniziativa dell’Istituto aveva favorito il ricorrente, consentendogli di ottenere la riammissione, sebbene poi quest’ultima si sia avuta solo a distanza di anni, per il protrarsi del giudizio di annullamento del provvedimento tardivamente adottato.
Aggiungeva poi la Corte territoriale che il ricorrente aveva mostrato acquiescenza rispetto alla parte della sentenza di primo grado che gli aveva negato le retribuzioni richieste per il periodo anteriore alla ripresa del servizio, in mancanza di prestazione lavorativa ed ha ritenuto che la pretesa di risarcimento in misura pari a tali retribuzioni non potesse identificarsi con il danno subito, stante la mancata maturazione del diritto alla controprestazione.
La Corte d’Appello riteneva infine che, essendo mancate migliori allegazioni sul danno patrimoniale o risultando esse generiche, come generiche erano le deduzioni sul danno morale e psicologico, doveva confermarsi il rigetto della domanda quale pronunciato in primo grado.
3.
NOME COGNOME ha proposto ricorso per cassazione sulla base di cinque motivi, cui l’INAIL ha opposto difese con controricorso.
Il Pubblico Ministero ha depositato memoria con la quale ha insistito per l’accoglimento del primo motivo, con assorbimento degli altri.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione ed omessa ovvero erronea applicazione dell’art. 10, co. 2 e ss. della legge n. 19 del 1990 in relazione agli artt. 1218, 1175, 1176, 2043 e 1223 c.c., oltre che dell’art. 111 Cost. e dell’art. 132, co. 2, n. 4 c.p.c.
Con esso si assume l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui essa ha ritenuto che quanto addotto in causa riguardasse l’inadempimento da ritardo nell’adozione del provvedimento conseguente al procedimento disciplinare di cui all’art. 10 della legge n. 19 cit.
Il motivo evidenzia in particolare come la responsabilità ascritta all’INAIL non traesse affatto origine da tale ritardo, quanto dalla
mancata riammissione in servizio pur dopo lo spirare dei termini perentori per lo svolgimento del procedimento disciplinare.
In tal modo la Corte territoriale, oltre ad esprimere una mera congettura sui possibili esiti dell’azione disciplinare, aveva adottato un’impostazione che consentirebbe di delibare sine die la domanda di riammissione di servizio, così apertamente violando il diritto alla reintegrazione nel ruolo che derivava dal vano decorso dei termini e vanificando anche quanto ritenuto dal giudice amministrativo in ordine alla perentorietà di quei termini ed al diritto del lavoratore a riprendere il lavoro senza dinieghi e dilazioni.
Il secondo motivo adduce la violazione ed omessa ovvero erronea applicazione dell’art. 1218 c.c., in relazione all’art. 10, co. 2 e ss. della legge n. 19 del 1990 e con esso si sottolinea come, data la natura contrattuale della responsabilità, era l’INAIL che, una volta violato l’obbligo per lo svolgimento del procedimento disciplinare, avrebbe dovuto provare l’impossibilità della prestazione o altra causa non imputabile dell’inadempimento, risultando altrimenti ineludibile la condanna al risarcimento del danno per il pregiudizio al diritto del ricorrente alla reintegrazione nel ruolo.
Il terzo motivo, denunciando la violazione degli artt. 1223 c.c., 10, co. 2 e ss. della legge n. 19 del 1990 e degli artt. 111 Cost. e 132, co. 2, n. 4, c.p.c., sostiene che erroneamente la Corte territoriale avrebbe indagato sul nesso causale tra il ritardo o l’omessa definizione del procedimento disciplinare nei termini e il danno, in quanto quello che rilevava era semmai il nesso tra il superamento di quei termini ed il pregiudizio consistente nella mancata tempestiva riammissione in servizio.
2. I motivi, riguardando tutti l’interpretazione della norma a base del contenzioso (art. 10, della legge n. 19 del 1990) e le questioni sulla responsabilità da ritardo nella riammissione in servizio e sul nesso causale tra inadempimento dell’ente e pregiudizi ad ess o conseguenti, vanno esaminati congiuntamente.
Va preliminarmente escluso ogni profilo di inesistenza della motivazione, pur denunciato attraverso il richiamo all’art. 132 n. 4 c.p.c. in combinazione con l’art. 111 Cost.
Il percorso motivazionale, infatti, esiste ed è chiaro, nei termini riepilogati nello storico di lite, oltre che palesemente percepito dal ricorrente, come si evince anche dalla formulazione dei motivi.
L’asse decisionale, per quanto qui interessa, muove dal rilievo per cui, ove l’ente avesse tempestivamente provveduto, si sarebbe quasi sicuramente avuta la destituzione, sicché la tardiva iniziativa aveva favorito e non pregiudicato il ricorrente.
Ciò detto sul piano meramente formale-processuale, i motivi vanno quindi esaminati sul piano del diritto sostanziale.
La norma che rileva -ovverosia l’art. 10, co. 2 e 3 della legge n. 19 del 1990 – è intervenuta, anche in esito alla sentenza della Corte Costituzionale 14 ottobre 1988, n. 971 (dichiarativa dell’illegittimità dell’art. 85 lett. a del d.p.r. n. 3 del 1957 nella parte in cui non prevedeva, in luogo del provvedimento di destituzione di diritto, l’apertura e lo svolgimento del procedimento disciplinare), al fine di regolare rapporti di lavoro chiusi sulla base di destituzioni di diritto applicate secondo la disciplina anteriore alla declaratoria di incostituzionalità e quindi in mancanza delle difese e delle necessarie valutazioni di proporzionalità o gradualità sanzionatoria proprie di ciascun caso di specie.
Il citato art. 10 in proposito ha stabilito (comma 2) che « i pubblici dipendenti che anteriormente alla data di entrata in vigore della presente legge siano stati destituiti di diritto sono, a domanda, riammessi in servizio », ma consentiva ciò (comma 3) « solo se all’esito del procedimento disciplinare, che deve essere proseguito o promosso entro novanta giorni dalla ricezione della domanda di riammissione da parte dell’amministrazione competente e che deve essere concluso entro i successivi novanta giorni, non venga inflitta la destituzione ».
Dall’impostazione della norma deriva che la P.A. era obbligata a svolgere quel procedimento, in quanto esso era condizione (‘solo se’) della domandata riammissione.
La riammissione in servizio dipendeva dunque dallo svolgimento non sfavorevole del procedimento disciplinare, da iniziare entro novanta giorni dalla domanda dell’interessato e da concludere nei successivi novanta giorni.
Nel caso di specie, invece, il procedimento non è stato svolto nei termini, ma solo in esito ad ulteriore istanza presentata successivamente allo spirare di essi vi è stato un provvedimento di destituzione, che è stato annullato dalle sentenze intervenute in ambito di giurisdizione amministrativa, proprio perché attuato dopo che erano trascorsi invano quei termini.
Il ricorrente precisa, infatti, che egli fece domanda nel giugno 1992, rispetto alla quale il procedimento avrebbe dovuto essere promosso entro il 9.9.1992 e concluso entro il 9.12.1992, mentre solo nel 1993 fu disposta, in esito a ulteriore istanza, la destituzione, con il provvedimento successivamente annullato in sede giudiziale.
4.1 È indubbio -e la Corte territoriale non lo nega ponendosi con ciò pienamente in linea con le sentenze rese in sede di giurisdizione amministrativa e per quanto di esse è trascritto nel ricorso per cassazione che dall’accaduto sia scaturito comunque il diritto del ricorrente alla riammissione in servizio fin dal momento dell’originario spirare del termine per provvedere , la quale, essendo stata poi attuata dall’INAIL solo dopo la sentenza del Consiglio di Stato, è intervenuta nel 2007.
Qui il tema è tuttavia diverso e consiste nel danno correlato a tale ritardo.
Si deve in proposito considerare -come si è detto -che l’art. 10, co. 3 in sé condiziona la riammissione allo svolgimento favorevole del procedimento disciplinare (ancora il ‘solo se’), che però, se non
ha avuto luogo, non realizza il fatto tipico da cui la norma fa dipendere l’effetto.
Riconoscendo, come ha fatto anche il giudice amministrativo, che l’ipotesi dell’inerzia della P.A. pur se le disposizioni nulla dicono espressamente sia parimenti idonea a realizzare quell’effetto in ragione della ‘perentorietà’ dei relativi termini, si deve concludere che la riammissione finisca per operare, nella norma complessivamente intesa, quale effetto legale dell’inerzia, senza alcuna ulteriore possibile valutazione e ciò pur a fronte di fatti gravi come quelli che illo tempore giustificavano la destituzione ope legis .
Tale immediata consecuzione di effetti fa tuttavia ritenere che la vicenda sia da valutare su di un piano giuridicamente unitario e che unitario sia anche l’inadempimento, consistente nel mancato svolgimento del procedimento disciplinare e nell’inosservanza dell’obbligo di riammissione in servizio sorto quale conseguenza della mancata attivazione nei termini del procedimento medesimo. La vicenda e quanto dedotto come inadempimento non può quindi essere valutata frazionando le diverse componenti che hanno caratterizzato lo sviluppo temporale degli eventi, finendosi altrimenti per travisare l’effettiva consistenza complessiva giuridica dell’accaduto.
Il comportamento dell’INAIL – senza dubbio caratterizzato da una macroscopica violazione delle regole sulla reiterazione del procedimento disciplinare, non svolto nei termini nonostante la normativa specifica e la domanda del ricorrente – va quindi apprezzato, sul piano del nesso causale tra esso e i danni che si asserisce ne sarebbero derivati, attraverso una integrale considerazione delle circostanze fattuali e giuridiche, che sia coerente con la necessità di riscontrare un nesso diretto e di immediatezza tra l’inadempienza che ha cagionato l’intera dinamica
successiva e quanto addotto come pregiudizio ad esso conseguente.
La norma in commento, nel subordinare la riammissione al corretto espletamento della sequenza domanda – procedimento -irrogazione di sanzione diversa dalla destituzione, può essere intesa come tale da individuare in capo al lavoratore un interesse legittimo di tipo pretensivo allo svolgimento del procedimento, dal cui esito sarebbe derivata l’attribuzione o meno del bene rivendicato, il che comporta, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa, che il risarcimento è dovuto solo se sia data prova, sul piano della probabilità, che un regolare iter procedurale avrebbe comportato l’ottenimento del provvedimento favorevole (v., per i principi generali, Cons. Stato ad. plen., 23 aprile 2021, n. 7 e giurisprudenza amministrativa ivi citata, tra cui Cons. Stato, sez. IV, 1 dicembre 2020, n. 7622; v., altresì, Cons. Stato, sez. IV, 14 giugno 2018, n. 3657).
Non senza peraltro trascurare che, anche a ricostruire l’assetto giuridico nei termini di diritto condizionato alla scelta della P.A., non potrebbe trovare applicazione la fictio di avveramento (art. 1359 c.c.), per il trattarsi in ipotesi di condizione palesemente di natura potestativa (Cass. 18 ottobre 2024, n. 27124 e giurisprudenza costante ivi richiamata), sicché tutto anche in tale diversa prospettiva va riportato, fermo l’effetto ‘legale’ conseguente al vano spirare del termine per provvedere, alla logica risarcitoria, rispetto alla quale valgono comunque analoghe regole sul giudizio c.d. controfattuale.
Dalla dinamica giuridica sopra riepilogata deriva quindi che, a determinare il danno lamentato, sta un concatenarsi di eventi di cui il primo è il mancato svolgimento del procedimento disciplinare che l’INAIL era tenuta a svolgere.
A tale omissione è seguito il conseguimento di un beneficio (l’obbligo di riassunzione), in concreto limitato nei suoi effetti dai
tempi in cui la riammissione in servizio che ne costituiva l’oggetto è stata in concreto attuata dall’ente.
Su tali premesse, è agevole osservare che, in tanto si può predicare l’esistenza di danno a qualsivoglia titolo contrattuale o extracontrattuale – imputabile ad altri a titolo omissivo, in quanto tale danno sia conseguenza di un comportamento doveroso che, se tenuto, avrebbe appunto evitato quel pregiudizio.
Il mancato conseguimento di un certo risultato utile (qui, la riassunzione) può in effetti essere imputato causalmente a chi si assume essere stato inadempiente, se quell’esito sarebbe stato conseguito a seguito dell’esatto adempimento, ma non altrimenti.
Tutto ciò significa che un inadempimento può dirsi causa di un danno se, inserendo, secondo la logica c.d. controfattuale, il comportamento lecito nella sequenza causale, il pregiudizio non si sarebbe verificato.
Va quindi ripresa la menzionata considerazione dell’inadempimento datoriale quale vicenda unitaria di omissione del procedimento disciplinare nei termini prescritti e, nonostante tale mancanza, della riammissione in servizio.
Ciò comporta lo sviluppo del giudizio controfattuale attraverso l’inserzione del comportamento mancato (lo svolgimento del procedimento disciplinare), cui si aggiunge la necessità di apprezzare anche la probabilità che esso si concludesse favorevolmente al ricorrente o comunque l’esistenza o meno di una prova in tal senso.
6.1 E’ infatti indubbio che, in assenza di norme espresse in senso contrario, spetta a chi si assuma danneggiato la prova del nesso esistente tra l’inadempimento denunciato e i danni che ne sono conseguiti (v. in diversi ambiti, Cass. 31 luglio 2024, n. 21511; Cass. 17 luglio 2023, n. 20707; Cass. 24 giugno 2020, n. 12490)
L a Corte d’Appello ha motivato in merito facendo leva sul rilievo per cui ove l’INAIL avesse svolto il procedimento disciplinare nei
termini « niente affatto scontata era la riammissione in servizio » e che anzi a giudicare da come si era poi concluso il procedimento tardivamente svolto, « quasi sicuramente … sarebbe stata adottata una destituzione del dipendente », sicché l ‘accaduto aveva « favorito » e non danneggiato il ricorrente.
Tali conclusioni risultano manifestamente ragionevoli, ove si consideri la gravità dei fatti da cui era scaturita la condanna penale , senza contare che l’onere probatorio, come si è detto, riguardando il profilo causale, grava in proposito sul ricorrente.
6.2 L’originario innesco causale derivante dall’omissione di un provvedimento nei termini prescritti non ha dunque cagionato un danno, ma ha fatto sorgere il diritto alla riassunzione, che, se l’adempimento vi fosse stato, il ricorrente avrebbe potuto non avere.
È poi vero che i tempi in cui poi tale riammissione è avvenuta hanno comportato un ritardo, ma quest’ultimo, nella logica di cui sopra, ha finito per limitare le conseguenze favorevoli riconnesse all’inerzia dell’ente, senza però che ciò muti la conclusione per cui nell’accaduto non si può ravvisare giuridicamente un danno quale conseguenza di un comportamento omissivo pregiudizievole di cui l’ente debba rispondere.
Indubbiamente, non potendosi pensare che per l’ente fosse possibile esimersi sine die dall’adempiere, senza risentire dei danni consequenziali, va detto che il ragionamento cambia nel momento in cui ad imporre l’adempimento è sopravvenuta anche una statuizione giudiziale.
A parte gli effetti caducatori dell’annullamento degli atti di destituzione o di diniego della riammissione in servizio, l’effetto delle pronunce rese dal giudice amministrativo era infatti anche quello di imporre un obbligo conformativo il cui inadempimento realizza l’ulteriore fattispecie dell’inosservanza del provvedimento giudiziale o del giudicato.
Queste ultime inosservanze innescano una nuova sequenza causale, a quel punto autonoma dalla dinamica delle omissioni iniziali e che, dal momento del suo intervenire, individua un ritardo diversamente qualificato rispetto agli obblighi preesistenti e che è fonte solo di danno.
La valutazione di questo eventuale ritardo concerne tuttavia un profilo autonomo di inadempimento, che postula temi di indagine completamente nuovi, anche in fatto, coinvolgendo il tema dell’efficacia della sentenza del TAR e della sua eventuale sospensiva, nonché quello delle vicende e dei tempi intercorsi tra la sentenza del Consiglio di Stato e la riammissione in servizio.
7.1 Tuttavia, non solo il ricorso per cassazione non è indirizzato in questi termini, ma neanche emerge da esso che l’originaria domanda fosse impostata al fine di valorizzare quello specifico profilo di inadempimento, che dunque non può essere qui officiosamente posto a base della decisione, spettando pur sempre a chi agisce a titolo risarcitorio allegare gli specifici fatti su cui si fonda la pretesa azionata.
Il ricorrente fa infatti sempre riferimento all’obbligo di riammissione sorto per lo spirare del termine di cui all’art. 10 della legge n. 19 cit. e non a quanto rispetto ad esso può essere stato successivamente aggiunto, sul piano specifico del rilievo causale, per effetto del sopravvenire delle pronunce giudiziali.
Del resto, anche nella logica di cui a Cass., S.U., 30 ottobre 2001, n. 13533, è pur sempre onere del danneggiato che agisca a titolo contrattuale allegare l’inadempimento o l’inesatto adempimento, inteso nel nucleo essenziale di un dato effetto sfavorevole conseguente alla violazione di certi obblighi.
Obblighi della cui deduzione a fondamento della pretesa è certamente onerato il presunto creditore (v. Cass. 17 gennaio 2024, n. 1838 e Cass. 10 gennaio 2024, n. 1055, punto 12.2, in tema di adempimento; Cass. 16 marzo 2018, n. 6618 in tema di
risarcimento da inadempimento), anche per evidenti ragioni di contraddittorio sull’oggetto del contendere, non bastando la sola allegazione dell’evento sfavorevole (qui, la mancata ripresa del servizio).
7.2 Può quindi anche richiamarsi il principio per cui, nel vantare un giudicato a sé favorevole -diverso da quelle maturato presso la RAGIONE_SOCIALE – è necessaria la trascrizione integrale del testo della (o delle) sentenza di riferimento (Cass. 23 giugno 2017, n. 15737; Cass. 11 febbraio 2015, n. 2617 e, da ultimo, tra le molte, Cass. 11 settembre 2020, n. 18934; Cass. 17 luglio 2020, n. 15288; Cass. 15 luglio 2020, n. 15113; Cass. 24 giugno 2020, n. 12496) ed osservare che, nel caso di specie, l’apprezzamento di quanto giudicato in via amministrativa o accaduto comunque in quel processo, in base al ricorso per cassazione, è possibile solo per quanto parzialmente trascritto di esso o riferito dalla Corte d’Appello.
Al di là di ciò, è tuttavia assorbente quanto sopra osservato rispetto al non essersi azionato quello specifico inadempimento ed il ritardo ad esso conseguito, ma l’altro e più originario, che resta però condizionato, nella valutazione di inesistenza di un danno giuridicamente ad esso riferibile, dal giudizio controfattuale su cui già si è detto.
Dovendosi escludere che sia stata dunque dimostrata l’esistenza di un nesso causale tra l’inadempimento denunciato (omessa conduzione e ultimazione del procedimento disciplinare nei termini e conseguente obbligo di riammissione in servizio) e conseguenze di ciò qualificabili come danno, ne resta escluso il riconoscimento degli obblighi risarcitori.
In tal modo resta sostanzialmente confermata la ratio decidendi , in sé sufficiente a sorreggere la decisione, con cui la Corte territoriale ha ritenuto che non fosse configurabile una condotta dell’INAIL
foriera della situazione pregiudizievole, ovviamente rispetto a quanto dedotto in causa come inadempimento.
Ciò manda assorbiti i restanti motivi con i quali si censura l’essersi negata la pretesa risarcitoria parametrata sulle retribuzioni per il fatto che queste ultime non fossero dovute come tali stante l’assenza di prestazione (quarto motivo, dedotto come violazione dell’art. 1223 c.c., ancora in relazione all’art. 10, co. 2 ss. cit. ) e la decisione sfavorevole sui restanti danni (quinto motivo, in relazione ancora all’art. 1223 c.c. ed all’art. 10, co. 2 e ss. della legge n. 19 del 1990, oltre che dell’art. 132 n. 4 c.p.c. e 111 Cost.).
Infatti, l’impossibilità di considerare la mancata ripresa dell’attività lavorativa come danno causalmente conseguente all’inadempimento, unitariamente considerato nei termini di cui si è detto, esclude non solo che si debba discutere del rilievo che abbia l’avvenuto disconoscimento delle retribuzioni per difetto di prestazione, ma anche degli altri danni inevitabilmente consistenti in conseguenze ulteriori di quella mancanza di attività in sé e quale fonte di reddito.
Al rigetto del ricorso segue la regolazione secondo soccombenza delle spese del giudizio.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento in favore della controparte delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in euro 4.000,00 per compensi ed euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali in misura del 15 % ed accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto, per il ricorso a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Lavoro