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Risarcimento del danno: escluso se il ritardo ti salva

Un dipendente pubblico, inizialmente destituito di diritto, ha richiesto la riammissione in servizio in base a una nuova legge. L’ente pubblico non ha avviato il necessario procedimento disciplinare entro i termini perentori, facendo così sorgere il diritto alla riammissione. Nonostante ciò, il lavoratore ha agito per ottenere il risarcimento del danno per il lungo periodo trascorso prima dell’effettiva ripresa del servizio. La Corte di Cassazione ha rigettato la domanda, stabilendo che l’omissione dell’ente, sebbene illecita, ha di fatto favorito il lavoratore. Attraverso un giudizio controfattuale, i giudici hanno concluso che un procedimento tempestivo avrebbe quasi certamente portato a una legittima destituzione, data la gravità dei reati commessi. Pertanto, mancando il nesso causale tra la condotta dell’ente e un effettivo pregiudizio, il risarcimento del danno non è dovuto.

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Risarcimento del Danno: Negato se l’Errore del Datore di Lavoro Finisce per Favorire il Dipendente

Il tema del risarcimento del danno nel rapporto di lavoro è complesso, soprattutto quando l’inadempimento del datore di lavoro genera conseguenze paradossali. Una recente sentenza della Corte di Cassazione, la n. 17026 del 2025, offre un’analisi illuminante su un caso in cui un’omissione colpevole di un ente pubblico ha, di fatto, salvato il posto di lavoro a un dipendente, escludendo così il suo diritto a un risarcimento. Vediamo insieme i dettagli di questa affascinante vicenda giuridica.

I Fatti di Causa

La vicenda ha origine dalla destituzione di un dipendente di un istituto nazionale a seguito di una condanna penale definitiva per truffa aggravata e falsità materiale. All’epoca, la legge prevedeva la destituzione automatica. Tuttavia, una successiva pronuncia della Corte Costituzionale e una nuova legge (la n. 19/1990) hanno stabilito l’illegittimità di tale automatismo, introducendo la necessità di un procedimento disciplinare per valutare la proporzionalità della sanzione.

In base a questa nuova normativa, il dipendente presentò domanda di riammissione in servizio. L’ente avrebbe dovuto avviare e concludere un procedimento disciplinare entro termini perentori (90 giorni per l’avvio e 90 per la conclusione). L’ente, però, rimase inerte.

Solo a seguito di una successiva istanza, l’ente avviò tardivamente il procedimento, concludendolo con la destituzione. Tale provvedimento fu però annullato dalla giustizia amministrativa, proprio perché adottato fuori tempo massimo. Il risultato? Il lavoratore, dopo un lungo contenzioso, ottenne il diritto alla riammissione in servizio, che avvenne molti anni dopo.
A questo punto, il dipendente ha citato in giudizio l’ente per ottenere il risarcimento del danno, parametrato alle retribuzioni perse nel lungo periodo intercorso tra la scadenza dei termini per il procedimento e l’effettiva riammissione.

L’Analisi della Corte e il Nesso Causale nel Risarcimento del Danno

Il cuore della questione, sia per la Corte d’Appello che per la Cassazione, è stato l’accertamento del nesso causale. Per ottenere un risarcimento del danno, non basta dimostrare un comportamento illecito del datore di lavoro (l’omissione del procedimento disciplinare nei termini); è necessario provare che proprio quel comportamento ha causato un pregiudizio economico o morale.

Per fare ciò, i giudici hanno utilizzato il cosiddetto “giudizio controfattuale”. Si sono chiesti: cosa sarebbe successo se l’ente avesse agito correttamente e avviato il procedimento disciplinare nei tempi previsti?

Il Giudizio Controfattuale: L’errore che Beneficia

La risposta a questa domanda è stata determinante. Considerando la gravità dei reati per cui il dipendente era stato condannato (truffa aggravata ai danni dello stesso ente), la Corte ha ritenuto “quasi sicuramente” che un procedimento disciplinare tempestivo si sarebbe concluso con la sanzione massima: la destituzione. In altre parole, se l’ente non avesse commesso l’errore, il lavoratore avrebbe perso definitivamente il suo posto di lavoro in modo del tutto legittimo.

Di conseguenza, l’omissione dell’ente, pur essendo un inadempimento, non ha causato un danno al lavoratore. Al contrario, lo ha “favorito”, creando i presupposti giuridici per un diritto alla riammissione in servizio che altrimenti non sarebbe mai sorto. L’errore procedurale si è trasformato, paradossalmente, nell’unica via per il dipendente per recuperare il lavoro.

Le Motivazioni della Sentenza

La Corte di Cassazione ha confermato la decisione dei giudici di merito, rigettando il ricorso del lavoratore. La ratio decidendi si basa sull’insussistenza del nesso di causalità tra l’inadempimento originario dell’ente e il danno lamentato. Il danno (la perdita delle retribuzioni) non è una conseguenza dell’omissione, perché senza quell’omissione il rapporto di lavoro si sarebbe comunque interrotto, e questa volta legittimamente.

I giudici hanno chiarito che l’inerzia dell’ente ha fatto sorgere il diritto alla riassunzione, ma non può allo stesso tempo essere la causa di un danno risarcibile. Il ritardo con cui poi è avvenuta l’effettiva riammissione è una questione distinta, che avrebbe potuto fondare un’azione diversa (ad esempio, per inosservanza del giudicato amministrativo), ma che non era stata specificamente dedotta in giudizio in tali termini. Pertanto, l’originario innesco causale (l’omissione del procedimento) non ha prodotto un danno, ma un beneficio, interrompendo la catena causale necessaria per il riconoscimento del risarcimento.

Conclusioni

La sentenza n. 17026/2025 ribadisce un principio fondamentale in materia di responsabilità: non c’è risarcimento del danno senza un nesso causale diretto tra la condotta illecita e il pregiudizio subito. Un comportamento inadempiente che, per una concatenazione di eventi, si traduce in un vantaggio per la presunta parte lesa, non può fondare una pretesa risarcitoria. Questo caso dimostra come il diritto non operi per automatismi, ma richieda sempre una valutazione concreta degli effetti, anche paradossali, delle condotte umane, applicando rigorosamente i principi della causalità giuridica.

Un datore di lavoro che non rispetta i termini per un procedimento disciplinare deve sempre pagare il risarcimento del danno al dipendente?
No, non sempre. Come dimostra questa sentenza, se l’omissione o il ritardo del datore di lavoro, pur essendo un inadempimento, finisce per favorire il lavoratore (ad esempio, facendogli acquisire il diritto alla riammissione che altrimenti non avrebbe avuto), viene a mancare il nesso causale tra la condotta illecita e un effettivo danno. Senza danno, non c’è risarcimento.

Cosa significa “giudizio controfattuale” nel contesto del risarcimento del danno?
Il giudizio controfattuale è un ragionamento logico con cui il giudice valuta cosa sarebbe accaduto se la condotta illecita (in questo caso, l’omissione del procedimento) non fosse stata posta in essere. Se, ipotizzando un comportamento corretto, il danno si sarebbe verificato ugualmente (il lavoratore sarebbe stato destituito), allora la condotta illecita non ne è la causa e il risarcimento non è dovuto.

Se un errore procedurale del datore di lavoro porta un beneficio al lavoratore, quest’ultimo può comunque chiedere i danni per il ritardo?
Secondo la Corte, l’errore iniziale che genera il beneficio (il diritto alla riammissione) non può essere la stessa causa del danno risarcibile per il ritardo. Il ritardo nell’adempiere all’obbligo di riammissione potrebbe costituire un’autonoma fonte di danno, ma deve essere specificamente provato e collegato a un inadempimento successivo, come la mancata esecuzione di una sentenza, e non all’omissione originaria che ha generato il diritto stesso.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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