Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 24833 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 24833 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 16/09/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 9663/2019 R.G. proposto da
RAGIONE_SOCIALE , in persona del legale rappresentante pro tempore , domiciliato in Roma, INDIRIZZO, presso l ‘ Avvocatura generale dell ‘Istituto , rappresentato e difeso dalle AVV_NOTAIO NOME AVV_NOTAIO e NOME COGNOME
– ricorrente –
contro
– intimato – avverso la sentenza n. 211/2019 de lla Corte d’Appello di Bari, depositata il 31.1.2019;
udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 10.9.2024 dal Consigliere NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
NOME COGNOME, già dipendente dell’RAGIONE_SOCIALE, venne collocato a riposto nel 2015, al compimento del 65° anno d’età, avendo già da alcuni anni maturato l’anzianità contributiva necessaria per il diritto alla pensione anticipata. Egli si rivolse, però, al Tribunale di Bari per chiedere la reintegrazione in servizio, sostenendo di avere diritto a continuare a lavorare fino all’età di 66 anni e 7 mesi , e, in ogni caso, la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno subito per l’anticipato collocamento a riposo.
Il Tribunale respinse le domande del lavoratore, che impugn ò la sentenza davanti alla Corte d’Appello della medesima città.
Instauratosi nuovamente il contraddittorio, la Corte territoriale accolse parzialmente l’appello, confermando l’accertamento negativo del preteso diritto al mantenimento in servizio oltre il 65° anno d’età, ma condannando l’RAGIONE_SOCIALE al risarcimento del danno subito dal lavoratore per avere percepito la pensione solo a partire da cinque mesi dopo la cessazione del rapporto di lavoro.
Contro la sentenza di secondo grado l’RAGIONE_SOCIALE ha proposto ricorso per cassazione articolato in tre motivi.
Il lavoratore è rimasto intimato.
Il difensore che lo patrocinò nel giudizio d’a ppello -il quale provvide anche a notificare la sentenza di secondo grado e presso il quale venne notificato il ricorso per cassazione -si è limitato a depositare, in data 16.11.2023, una «dichiarazione di decesso del resistente» con «Istanza ex art. 300 c.p.c.».
La trattazione si svolge in camera di consiglio ai sensi de ll’ art. 380 -bis .1 c.p.c.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Preliminarmente si deve constatare la regolare costituzione del contraddittorio tra le parti anche nel presente giudizio di legittimità.
1.1. Dal certificato anagrafico depositato il 16.11.2023 dall’AVV_NOTAIO, risulta che NOME COGNOME decedette in data 16.4.2018 , ovverosia in pendenza del giudizio d’appello , iscritto a ruolo nel 2016 e definito con sentenza in data 28.1.2019, depositata il 31.1.2019.
In quel grado di giudizio il lavoratore era costituito con il patrocinio del medesimo AVV_NOTAIO, che non dichiarò la morte del suo assistito, sicché il processo non subì interruzione, ai sensi dell’art. 300 c.p.c. («Se alcuno degli eventi previsti nell ‘ articolo precedente si avvera nei riguardi della parte che si è costituita a mezzo di procuratore, questi lo dichiara in udienza o lo notifica alle altre parti. Dal momento di tale dichiarazione o notificazione il processo è interrotto …»).
Il difensore del lavoratore provvide anche a notificare la sentenza d’appello all’ RAGIONE_SOCIALE (come risulta dalla copia del provvedimento depositata dal ricorrente), facendo così decorrere il termine breve per l’impugnazione, ai sensi dell’art. 326 c.p.c.
Quindi l’ RAGIONE_SOCIALE notificò il ricorso per cassazione a NOME COGNOME nel domicilio eletto presso il suo difensore.
1.2. In base a tale sequenza dei fatti, si deve osservare che -in forza dell ‘ ultrattività alla procura alle liti, che conserva al difensore costituito della parte deceduta il potere di rappresentarla in giudizio -l’AVV_NOTAIO validamente notificò all’RAGIONE_SOCIALE. la sentenza d’appello . Ma, in ogni caso, ciò che qui conta è che l’ RAGIONE_SOCIALE validamente notificò il ricorso per
cassazione al difensore costituito in appello, dal momento che questi non aveva ancora mai dichiarato il potenziale evento interruttivo, pur già verificatosi in capo al suo cliente (v., ex multis , Cass. nn. 8754/2024; 190/2022; 20964/2018).
1.3. Una volta così regolarmente instaurato il giudizio di legittimità, la sopravvenuta comunicazione del decesso della parte non produce l’interruzione del processo, perché nel giudizio davanti alla Corte di Cassazione, che è dominato dall ‘ impulso d ‘ ufficio, non sono applicabili le comuni cause interruttive previste dalla legge in generale (anche qui, ex multis , Cass. nn. 3630/2021; 25603/2018; 2625/2018; 3323/2014).
Ciò posto, il primo motivo di ricorso denuncia « Violazione dell’art. 24, comma 4, secondo periodo, del d.l. 6.12.2011, n. 201, convertito in legge 22.12.2011, n. 214, e dell’art. 2, comma 5, del d.l. n. 101/201 3, convertito in legge n. 125/2013 (art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.)».
Il ricorrente si duole che la Corte territoriale, pur avendo ribadito che il lavoratore andava obbligatoriamente collocato a riposo al compimento del 65° anno d’età, abbia poi tuttavia posto a carico dell’Istituto il ritardo di cinque mesi con cui il COGNOME iniziò a percepire la pensione, confondendo la maturazione dell’anzianità contributiva necessaria per il diritto alla pensione anticipata (verificatasi già qualche anno prima del collocamento a riposo) con la maturazione del diritto a percepire la pensione (che richiede anche la relativa domanda all’RAGIONE_SOCIALE , che il lavoratore presentò solo cinque mesi dopo il collocamento a riposo, nonostante l’avviso tempestivamente comunicatogli dal datore di lavoro).
Il secondo motivo censura « Violazione dell’art. 1218 e ss. c.c. , in relazione alla condanna dell’Istituto al risarcimento del danno (art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.)».
Con questo motivo il ricorrente contesta al giudice d’appello di avere violato le comuni norme in materia di responsabilità contrattuale, sia affermando tale responsabilità in rapporto a un comportamento del datore di lavoro riconosciuto (non solo legittimo, ma) addirittura doveroso, sia condannando il datore di lavoro al risarcimento di un danno n ient’affatto riconducibile causalmente a quel comportamento.
I due motivi, da esaminare congiuntamente, data la loro stretta connessione, sono fondati.
4.1. Non serve ulteriormente ribadire che il collocamento a riposo de l dipendente al compimento del 65° anno d’età fu un atto obbligato da parte dell’RAGIONE_SOCIALE Infatti, lo ha già affermato la Corte d’Appello, confermando sul punto la decisione del Tribunale, sulla base di una esatta interpretazione -conforme a Cass. n. 13983/2015 -del regime transitorio determinato dal l’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, convertito con modificazioni dalla legge n. 214 del 2011, come autenticamente interpretato dall’art. 2 del d.l. 101 del 2013. E la sentenza della Corte territoriale non è stata impugnata in parte qua .
4.2. Nonostante tale corretto presupposto di partenza, la Corte barese ha però del tutto incongruamente affermato la responsabilità dell’RAGIONE_SOCIALE per il ritardo con cui il lavoratore percepì la pensione, pur dando atto che l’Istituto aveva comunicato in anticipo l’obbligatorietà del collocamento a riposo e, quindi, messo sull’avviso il dipendente in merito alla necessità di fare domanda di pensione all’RAGIONE_SOCIALE
4.2.1. È innanzitutto evidente l’insanabile (e non spiegata in sentenza) contraddizione tra la ribadita affermazione che il collocamento a riposo del dipendente era un atto imposto al datore di lavoro dalla legge (trattandosi di nient’altro che della necessaria presa d’atto della risoluzione di diritto del rapporto) e la contestuale qualifica del medesimo collocamento a riposo come inadempimento contrattuale, implicita nell’accertamento della responsabilità del datore di lavoro e nella sua condanna al risarcimento del danno.
In ciò si ravvisa la denunciata violazione dell’art. 1218 c.c., perché non può esserci inadempimento contrattuale imputabile nel semplice adeguamento ad un obbligo di legge.
4.2.2. In secondo luogo, manca del tutto, nella sentenza impugnata, la giustificazione del nesso causale tra l’atto del datore di lavoro (collocamento a riposo) e il pregiudizio economico subito dal lavoratore, ovverosia l’essere rimasto privo di reddito per cinque mesi tra la cessazione del rapporto di lavoro e l’inizio della percezione dell’assegno pensionistico.
Un nesso causale si sarebbe potuto ravvisare se il datore di lavoro avesse collocato a riposo il dipendente prima che egli avesse maturato l’anzianità contributiva necessaria per avere diritto a percepire la pensione. Ma non è questo il fatto allegato a sostegno della domanda del lavoratore, il quale ha sostenuto di avere diritto di restare in servizio nonostante avesse già maturato quell’anzianità al compimento del 65° anno d’età.
Ne consegue che la differita decorrenza della percezione dell’assegno pensionistico è dipesa esclusivamente dal ritardo con cui il lavoratore fece domanda di pensione all’RAGIONE_SOCIALE, come del resto esplicitamente rilevato anche nella sentenza, ove si
legge di un «’ritardo’ nella presentazione della domanda amministrativa», sia pure con l’aggiunta della valutazione secondo cui «tale ritardo non pare imputabile al COGNOME».
Anche questo apprezzamento soffre di un’insanabile contraddizione, in quanto ad esso segue immediatamente la constatazione, da parte del giudice d’appello, che l’RAGIONE_SOCIALE aveva avvisato in anticipo il lavoratore dell’ineluttabilità del suo pensionamento. Ma, in ogni caso, per motivare la condanna del debitore al risarcimento del danno non basta affermare che il creditore ha subito un pregiudizio per un fatto a lui «non … imputabile», ma occorre concentrarsi (oltre che sull’esistenza di un inadempimento imputabile al debitore) sul nesso causale tra quel pregiudizio e il comportamento attribuito al debitore.
Aspetto, questo, del tutto trascurato nella sentenza impugnata, nel che si ravvisa anche la violazione dell’art. 1223 c.c.
L’accoglimento dei primi due motivi rende superfluo l’esame del terzo, che è rubricato «violazione dell’art. 112 c.p.c., ovvero del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.)», e che censura l’individuazione del danno da risarcire nella perdita delle retribuzioni per cinque mesi, piuttosto che, come richiesto dal lavoratore, nella perdita degli assegni pensionistici per il medesimo periodo.
5.1. L’assorbimento deriva dal fatto che , accolti i primi due motivi di ricorso e conseguentemente cassata la sentenza impugnata, non sono necessari ulteriori accertamenti in fatto per decidere la causa nel merito (art. 384, comma 2, c.p.c.) con il definitivo rigetto delle domande del lavoratore, proposte sulla
base di un’errata interpretazione delle norme invocate ( art. 24 d.l. n. 201 del 2011, convertito in legge n. 214 del 2011 e art. 2 d.l. n. 101 del 2013, convertito in legge n. 125 del 2013).
Nonostante la totale soccombenza del lavoratore, si ravvisano i presupposti per la compensazione delle spese dell’intero processo , considerati l’incertezza dell ‘originaria questione controversia (tanto da richiedere l’intervento di una norma di interpretazione autentica) e gli esiti parzialmente contrastanti dei due gradi di merito.
7 . Si dà atto che, in base all’esito del giudizio, non sussiste il presupposto per il raddoppio del contributo unificato ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. n. 115 del 2002.
P.Q.M.
La Corte:
accoglie i primi due motivi di ricorso, assorbito il terzo, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, respinge l’originaria domanda del lavoratore ;
compensa le spese dell’intero processo . Così deciso in Roma, il 10.9.2024.