Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 8667 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 2 Num. 8667 Anno 2024
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 02/04/2024
ORDINANZA
sul ricorso 24300-2019 proposto da:
COGNOME NOME, rappresentato e difeso dall’AVV_NOTAIO e domiciliato presso la cancelleria della Corte di Cassazione
– ricorrente –
contro
COGNOME NOME, COGNOME VITTORIO, COGNOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME, rappresentati e difesi dall’AVV_NOTAIO e domiciliati presso la cancelleria della Corte di Cassazione
– controricorrenti e ricorrenti incidentali-
nonchè contro
COGNOME NOME, rappresentato e difeso dall’AVV_NOTAIO e domiciliato presso la cancelleria della Corte di Cassazione
– controricorrente –
nonchè contro
LA ROCCA NOME e COGNOME NOME
– intimate –
avverso la sentenza n. 2886/2019 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 27/05/2019;
udita la relazione della causa svolta in camera di consiglio dal Consigliere COGNOME
FATTI DI CAUSA
Con atto di citazione ritualmente notificato NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME evocavano in giudizio COGNOME NOME innanzi il Tribunale di Benevento, invocandone la condanna al rilascio di alcuni immobili, assegnati agli attori giusta divisione per atto AVV_NOTAIO in data 6.4.1993, rep. 216070, ed occupati senza titolo dal convenuto, nonché al risarcimento del danno.
Nella resistenza del convenuto, che eccepiva l’usucapione dei beni controversi ed invocava comunque, in subordine, la condanna degli attori al pagamento di una indennità per le migliorie apportate agli stessi, e con l’intervento di COGNOME NOME, il quale allegava di aver acquistato parte del bene controverso e faceva propria la domanda proposta dagli originari attori, il Tribunale, con sentenza n. 1419/2011, accoglieva la domanda principale di rilascio, rigettando quella risarcitoria. Dichiarava inoltre inammissibile la domanda del COGNOME.
Con la sentenza impugnata, n. 2886/2019, la Corte di Appello di Napoli rigettava il gravame interposto dall’odierno ricorrente avverso
la decisione di prima istanza, accogliendo invece quello incidentale spiegato dagli attori in prime cure; rigettava quindi la domanda di indennizzo che era stata proposta, in via riconvenzionale, dal COGNOME NOME in prima istanza e condannava lo stesso al risarcimento del danno da occupazione senza titolo dei beni oggetto di causa.
Propone ricorso per la cassazione di tale pronuncia COGNOME NOME, affidandosi a tre motivi.
Resiste con controricorso COGNOME NOME.
Resistono con autonomo controricorso NOME, COGNOME NOME, unitamente a COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME, questi ultimi in qualità di eredi del defunto COGNOME NOME, spiegando a loro volta ricorso incidentale affidato ad un unico motivo.
La COGNOME NOME e COGNOME NOME, eredi di COGNOME NOME, non hanno svolto attività difensiva nel presente giudizio di legittimità.
Con istanza del 2.4.2022 il ricorrente COGNOME NOME chiedeva la riunione del presente ricorso a quello, pendente tra le stesse parti, distinto dal numero 3736/2019.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Preliminarmente, va rigettata l’istanza di riunione, posto che i due ricorsi sono diretti avverso distinte sentenze, sia pure rese tra le stesse parti. Né la parte istante specifica per quali ragioni sussisterebbe l’allegata connessione tra le due impugnazioni.
Passando all’esame dei motivi di ricorso, con il primo di essi il ricorrente principale lamenta la violazione o falsa applicazione degli artt. 115, 116 c.p.c. e 2697 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente ritenuto provati i fatti dedotti da parte attrice a sostegno della domanda di rilascio dei beni controversi, fondando la propria decisione sulla base
di produzioni ed atti che non aveva a disposizione, perché materialmente non presenti nel fascicolo.
Il motivo è infondato.
Va premesso che la Corte distrettuale ha ritenuto, in particolare, che i motivi di gravame con i quali l’odierno ricorrente si doleva dell’accoglimento della domanda proposta in prime cure dal NOME COGNOME non contenevano alcuna motivata critica alla sentenza di primo grado, che aveva accolto la domanda, rigettando l’eccezione di usucapione sollevata dall’odierno ricorrente, valorizzando il contenuto dell’atto di divisione del 1993 (cfr. pag. 9 della sentenza impugnata). La Corte di Appello ha poi osservato che il Tribunale aveva, contraddittoriamente, da un lato escluso la riconoscibilità delle migliorie invocate dall’odierno ricorrente, e dall’altro lato disposto la compensazione delle stesse con il danno da occupazione sine titulo invocato dagli originari attori in prime cure, appellanti incidentali; e, di conseguenza, ha riformato in parte la sentenza di prime cure, rigettando la domanda riconvenzionale avente ad oggetto le migliorie ed accogliendo invece quella risarcitoria proposta in via principale dai proprietari dei beni oggetto di causa (cfr. pag. 10 e s. della sentenza). A sostegno di tale statuizione, la Corte distrettuale ha posto fondamentalmente le risultanze della C.T.U. esperita in prime cure, nel corso della quale il procuratore dell’odierno ricorrente si era riservato di produrre documentazione a supporto delle spese per miglioramenti, cosa che poi non era mai stata fatta (cfr. pag. 11 della sentenza).
Con la censura in esame, l’odierno ricorrente si duole del fatto che il fascicolo di parte sia stato ricostruito mediante la produzione di veline , e non di copie autentiche, degli atti e documenti in esso contenuto (cfr. pag. 20 del ricorso), ma la censura non considera da un lato che la Corte distrettuale ha dato atto dell’avvenuta ricostruzione
degli atti mancanti (cfr. pag. 5 della sentenza impugnata), e dall’altro lato non è specifica, in quanto il ricorrente non deduce di aver tempestivamente sollevato, in sede di merito, eccezioni di non conformità, o non perfetta conformità, delle copie depositate in sede di ricostruzione rispetto al contenuto originario del fascicolo ricostruito.
Con il secondo motivo, il ricorrente si duole della violazione o falsa applicazione dell’art. 274 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., perché la Corte di Appello non avrebbe accolto l’istanza di riunione del giudizio di impugnazione con altra causa pendente tra le stesse parti.
La censura è infondata, poiché la decisione sulla riunione o separazione delle cause rientra nel potere discrezionale del giudice di merito. Va ribadito, sul punto, il principio secondo cui ‘La riunione dei procedimenti connessi ex art. 274 c.p.c. ha carattere facoltativo e l’esercizio del relativo potere è rimesso all’apprezzamento, anche per economia processuale, discrezionale ed insindacabile del giudice di merito’ (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1331 del 21/02/1996, Rv. 495938; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 9638 del 10/09/1999, Rv. 529815; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 778 del 19/01/2001, Rv. 543360; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 1194 del 19/01/2007, Rv. 598206; Cass. Sez. U, Sentenza n. 2245 del 06/02/2015, Rv. 634424; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 1053 del 21/01/2016, Rv. 638403).
Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta la violazione o falsa applicazione degli artt. 115, 116 c.p.c. e 2697 c.c., nonché dell’art. 92 c.p.c., ed omesso esame di fatto decisivo, in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 5, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente accolto l’appello incidentale spiegato dagli originari attori in prime cure, ritenendo provate le circostanze di fatto poste a base della domanda risarcitoria dagli stessi formulata a fronte
dell’occupazione dei beni di cui è causa, ed avrebbe di conseguenza posto a carico del ricorrente le spese di lite.
La censura è inammissibile, per diversi e concorrenti profili.
In primo luogo, essa difetta di specificità, perché non chiarisce quale sarebbe la critica mossa avverso il decisum della Corte territoriale: il ricorrente, infatti, fa riferimento al contenuto della procura allegata ad un atto di precetto del 1.7.2019, spiccato in esecuzione della decisione impugnata, con la quale COGNOME NOME, NOME COGNOME e gli eredi di COGNOME NOME avrebbero dichiarato di rinunciare ad ogni pretesa in relazione al pagamento della somma di € 1.270,12, ma tale atto non appartiene, evidentemente, al compendio istruttorio del giudizio di merito, poiché successivo al deposito della sentenza qui impugnata, e comunque non ha alcuna rilevanza ai fini della decisione.
Inoltre, la doglianza si risolve in una richiesta di riesame della valutazione del fatto e delle prove condotta dal giudice di appello. La Corte distrettuale ha ritenuto, in particolare, provata l’occupazione senza titolo degli immobili oggetto della domanda ed ha quantificato il relativo risarcimento sulla scorta delle risultanze della C.T.U. (cfr. pagg. 13 e s. della sentenza impugnata). Nel confutare tale statuizione l’odierno ricorrente, da un lato, non deduce di aver tempestivamente sollevato contestazione alle risultanze della consulenza tecnica, con conseguente deficit di specificità della censura.
La mancata compensazione delle spese non è sindacabile in questa sede, posto che la Corte di merito ha applicato la regola della soccombenza.
Il ricorso principale va quindi rigettato.
L’unico motivo del ricorso incidentale, proposto in forma condizionata, con il quale si deduce l’omesso esame di fatto decisivo,
in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente limitato il risarcimento del danno al solo importo di € 1.270,12 per ciascuno dei controricorrenti, non riconoscendo agli stessi il pregiudizio fino all’effettivo rilascio dei beni oggetto di causa, è logicamente assorbito dal rigetto dell’impugnazione principale.
Le spese del presente giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza, nei confronti di ambedue le parti controricorrenti.
Stante il tenore della pronuncia, va dato atto -ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater , del D.P .R. n. 115 del 2002- della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.
PQM
la Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento, in favore di ciascuna parte controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in € 3.200,00 di cui € 200,00 per esborsi, oltre rimborso delle spese generali in ragione del 15%, iva, cassa avvocati ed accessori tutti come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda Sezione Civile, addì 14 febbraio 2024.
IL PRESIDENTE NOME COGNOME