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Risarcimento del danno: come si calcola per demansionamento

Un lavoratore ha citato in giudizio un ente pubblico per demansionamento. La Corte d’Appello, pur confermando l’illecito, ha ridotto il risarcimento del danno dal 100% al 30% della retribuzione. La Corte di Cassazione ha annullato questa riduzione, giudicando la motivazione troppo generica e insufficiente. La sentenza sottolinea che la liquidazione equitativa del danno richiede un percorso logico chiaro e trasparente, soprattutto in caso di notevole divergenza con la decisione di primo grado. Il caso è stato rinviato alla Corte d’Appello per una nuova quantificazione.

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Pubblicato il 21 settembre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile, Procedura Civile

Risarcimento del Danno da Demansionamento: La Cassazione Impone una Motivazione Concreta

Il demansionamento professionale è una delle più gravi violazioni dei diritti del lavoratore, con conseguenze che vanno oltre l’aspetto economico. Quando un tribunale accerta l’illecito, la fase successiva è cruciale: la quantificazione del risarcimento del danno. Con una recente ordinanza, la Corte di Cassazione ha ribadito un principio fondamentale: la decisione del giudice su questo punto deve essere supportata da una motivazione solida e trasparente, non da formule generiche.

I Fatti di Causa

Un dipendente di un ente comunale si era rivolto al giudice del lavoro lamentando di essere stato dequalificato professionalmente per un lungo periodo. Il Tribunale, in primo grado, gli aveva dato ragione, condannando l’ente a un risarcimento del danno pari al 100% della retribuzione mensile per tutto il periodo del demansionamento.

L’ente pubblico ha però impugnato la sentenza. La Corte d’Appello, pur confermando l’illegittimità del comportamento del datore di lavoro, ha drasticamente ridotto l’entità del risarcimento, portandolo al 30% della retribuzione. Il lavoratore ha quindi presentato ricorso in Cassazione, contestando proprio la logica dietro questa notevole riduzione.

La Decisione della Corte di Cassazione e il Risarcimento del Danno

La Suprema Corte ha accolto le ragioni del lavoratore, concentrandosi sul secondo motivo del ricorso: la motivazione “meramente apparente” della Corte d’Appello. Quest’ultima aveva giustificato la riduzione del risarcimento facendo appello a un generico principio di “tutela della professionalità acquisita nel tempo”, ritenendo equo quantificare il danno nella misura del 30%.

Secondo la Cassazione, tale motivazione è del tutto insufficiente. Quando un giudice ricorre alla liquidazione equitativa del danno, specialmente se si discosta in modo così marcato dalla valutazione del primo giudice (dal 100% al 30%), ha l’obbligo di esplicitare il percorso logico-giuridico seguito. Deve indicare, almeno sommariamente, i criteri e gli elementi concreti che lo hanno portato a quella specifica quantificazione, per evitare che la decisione appaia arbitraria e per consentirne il controllo di legittimità.

Le Motivazioni

La Corte di Cassazione ha chiarito che il potere discrezionale del giudice nella liquidazione equitativa non è assoluto. Il giudice è chiamato a rendere evidente il percorso logico seguito, permettendo così di verificare il rispetto dei principi del danno effettivo e dell’integralità del risarcimento. Nel caso di specie, la Corte territoriale non si è attenuta a questo principio.

Il riferimento alla “tutela della professionalità acquisita nel tempo” è stato definito un “parametro equivoco, generico ed in quanto tale inidoneo” a fondare una riduzione del risarcimento del danno pari al 70% di quanto liquidato in primo grado. Una difformità così notevole non può essere spiegata con la normale “banda di oscillazione” propria della liquidazione equitativa, ma richiede una giustificazione puntuale e rigorosa che nel caso esaminato è mancata.

Le Conclusioni

L’ordinanza rafforza un importante baluardo a tutela dei lavoratori: la trasparenza e la concretezza delle decisioni giudiziarie in materia di risarcimento del danno. La sentenza insegna che non basta affermare un principio per motivare una decisione; è necessario dimostrare come quel principio sia stato applicato ai fatti specifici della causa. Per i datori di lavoro, pubblici e privati, questo costituisce un monito: il demansionamento ha un costo e la sua quantificazione non può essere ridotta sulla base di motivazioni vaghe. Per i giudici di merito, è un richiamo alla necessità di un rigore argomentativo che renda le loro sentenze comprensibili e verificabili, garantendo così giustizia sostanziale.

Quando un giudice riduce il risarcimento del danno per demansionamento, come deve motivare la sua decisione?
Secondo l’ordinanza, il giudice deve fornire una motivazione chiara, specifica e logica, indicando i criteri concreti utilizzati per determinare il nuovo importo. Una motivazione generica, come la “tutela della professionalità”, è considerata insufficiente, specialmente in presenza di una riduzione sostanziale rispetto al giudizio precedente.

Cosa significa che una motivazione è “meramente apparente”?
Una motivazione è “meramente apparente” quando è così generica e astratta da non permettere di comprendere l’iter logico-giuridico seguito dal giudice per giungere alla sua decisione. Di fatto, si tratta di una motivazione che esiste solo in apparenza, ma che nella sostanza è vuota, rendendo la decisione incontrollabile e potenzialmente arbitraria.

La Corte di Cassazione può riesaminare le prove di un caso?
No, sulla base di questa ordinanza, la Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il motivo di ricorso relativo alla valutazione delle prove. Il suo compito non è riesaminare i fatti o le testimonianze, competenza esclusiva dei giudici di merito (Tribunale e Corte d’Appello), ma verificare la corretta applicazione delle norme di diritto e la logicità della motivazione della sentenza impugnata.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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