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Risarcimento danno ritardo PA: il caso dell’alloggio

Un cittadino ha richiesto il risarcimento del danno alla Pubblica Amministrazione per un ritardo di quattordici anni nella gestione di una pratica di riscatto di un alloggio pubblico. La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, sottolineando come il ricorrente non abbia contestato in modo specifico le motivazioni della corte d’appello e non abbia utilizzato gli strumenti amministrativi a sua disposizione per contrastare l’inerzia dell’ente. La decisione chiarisce i limiti della richiesta di risarcimento danno da ritardo.

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Pubblicato il 9 ottobre 2025 in Diritto Civile, Giurisprudenza Civile, Procedura Civile

Risarcimento Danno da Ritardo della PA: Quando l’Inerzia Non Basta

Un’attesa lunga quattordici anni per una risposta dalla Pubblica Amministrazione può sembrare una base solida per ottenere un risarcimento. Tuttavia, una recente ordinanza della Corte di Cassazione ci ricorda che la strada per il risarcimento danno da ritardo è disseminata di oneri procedurali specifici. Il caso analizzato riguarda la mancata conclusione di una pratica per il riscatto di un alloggio popolare, un’odissea burocratica che si è conclusa con la dichiarazione di inammissibilità del ricorso del cittadino. Vediamo perché.

I Fatti: Una Domanda di Riscatto Lunga Oltre un Decennio

La vicenda ha inizio nel 1995, quando l’assegnatario di un alloggio pubblico, in possesso dei requisiti di legge, presenta domanda per riscattare l’immobile. Pochi mesi dopo, l’uomo decede e nella titolarità del contratto subentra la moglie, la quale per anni sollecita l’ente gestore a dare seguito alla pratica.

Solo nel 2006, dopo undici anni e numerosi solleciti, l’ente avvia l’iter, ma la burocrazia continua il suo lento corso. Nel frattempo, anche la donna viene a mancare e il figlio, convivente, prosegue la battaglia. Infine, nel 2009, il Comune proprietario dell’immobile rigetta definitivamente la domanda, adducendo la mancanza di un requisito in capo al figlio (la quinquennale convivenza con la madre).

Stremato da quattordici anni di attesa, il figlio cita in giudizio sia l’ente gestore che il Comune, chiedendo il riconoscimento del suo diritto al riscatto o, in subordine, il risarcimento dei danni subiti a causa dell’enorme ritardo procedurale. Sia il Tribunale che la Corte d’Appello respingono le sue richieste, spingendolo a ricorrere in Cassazione.

Il Ricorso in Cassazione e il mancato risarcimento danno da ritardo

Davanti alla Suprema Corte, il ricorrente basa la sua difesa su un unico motivo: la violazione del principio del neminem laedere e delle norme che impongono alla Pubblica Amministrazione di concludere i procedimenti entro un termine certo (in particolare l’art. 2 della L. 241/1990). Secondo il cittadino, un ritardo di quattordici anni è di per sé prova della colpa dell’amministrazione e fondamento sufficiente per una richiesta di risarcimento danno da ritardo.

La Corte d’Appello aveva rigettato questa tesi sostenendo che la legge specifica sul riscatto degli alloggi (L. 560/1993) non prevedeva un termine per la conclusione del procedimento e che, data la complessità della materia, le norme generali della L. 241/1990 non fossero applicabili.

le motivazioni

La Corte di Cassazione dichiara il ricorso inammissibile per diverse ragioni di natura prettamente processuale, ma estremamente significative. In primo luogo, il ricorrente non ha contestato in modo specifico e puntuale la motivazione della Corte d’Appello. Non ha, cioè, smontato l’argomentazione secondo cui la specificità della procedura di riscatto escluderebbe l’applicazione dei termini generali.

In secondo luogo, la Cassazione rileva che il ricorrente ha introdotto argomentazioni e prospettazioni giuridiche nuove, che non erano state formulate nei precedenti gradi di giudizio. Il giudizio di legittimità, infatti, non è una terza istanza di merito dove poter sollevare questioni inedite, ma serve a verificare la corretta applicazione della legge da parte dei giudici precedenti.

Infine, la Corte aggiunge una considerazione cruciale: prima di arrivare a chiedere un risarcimento, il cittadino (e prima di lui sua madre) avrebbe potuto e dovuto utilizzare gli strumenti specifici che l’ordinamento mette a disposizione contro l’inerzia della P.A., come l’azione avverso il silenzio amministrativo. Non avendolo fatto, e avendo scelto la sola via risarcitoria, la sua posizione processuale risulta indebolita.

le conclusioni

Questa ordinanza offre una lezione importante: il solo trascorrere del tempo, per quanto irragionevole, non è sufficiente a garantire un risarcimento danno da ritardo da parte della Pubblica Amministrazione. È fondamentale che il cittadino, attraverso il suo legale, utilizzi tempestivamente tutti gli strumenti procedurali a sua disposizione per costringere l’amministrazione a provvedere. Inoltre, in sede di ricorso, è essenziale costruire una censura che colpisca il cuore della motivazione della sentenza impugnata, senza introdurre elementi di novità non ammessi nel giudizio di Cassazione. L’inerzia va combattuta con gli strumenti giusti al momento giusto; attendere e poi chiedere i danni può rivelarsi una strategia perdente.

Un lungo ritardo della Pubblica Amministrazione nel rispondere a un’istanza dà automaticamente diritto a un risarcimento?
No. Secondo la sentenza, il semplice ritardo, anche se significativo, non è sufficiente. È necessario che il cittadino abbia utilizzato gli strumenti procedurali a sua disposizione per contrastare l’inerzia dell’amministrazione e che, in sede di giudizio, contesti specificamente le motivazioni con cui i giudici di merito hanno eventualmente negato il suo diritto.

Quali strumenti ha il cittadino per combattere l’inerzia della Pubblica Amministrazione?
La sentenza menziona esplicitamente l’azione contro il cosiddetto ‘silenzio amministrativo’, prevista dalla legge sul procedimento amministrativo (L. 241/1990). Questo strumento consente di rivolgersi a un giudice per ottenere un ordine all’amministrazione di concludere il procedimento, prima ancora di intraprendere una causa per il risarcimento dei danni.

È possibile introdurre nuove argomentazioni legali per la prima volta nel giudizio davanti alla Corte di Cassazione?
No. La Corte di Cassazione ha ribadito che il suo ruolo è quello di verificare la corretta applicazione del diritto da parte dei giudici dei gradi precedenti (giudizio di legittimità), non di riesaminare il caso nel merito. Pertanto, non è possibile sollevare questioni o argomentazioni di fatto e di diritto che non siano state già trattate in appello, a meno che non si tratti di questioni rilevabili d’ufficio.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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