Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 14419 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 14419 Anno 2024
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 23/05/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 3936/2018 R.G. proposto da
– ricorrente –
contro
NOME COGNOME , elettivamente domiciliata in Roma, INDIRIZZO, presso lo studio degli AVV_NOTAIO, che la rappresentano e difendono
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 630/2017, depositata il 19.7.2017 della Corte d’Appello di Torino;
udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 20.2.2024 dal Consigliere NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
La Corte d’Appello di Torino ha respinto entrambe le contrapposte impugnazioni RAGIONE_SOCIALE parti contro la sentenza con cui il Tribunale di quella città, in parziale accoglimento RAGIONE_SOCIALE domande svol te dall’attuale controricorrente, aveva condannato l’RAGIONE_SOCIALE al risarcimento dei danni provocati con l’abuso dei contratti di lavoro a termine, danni liquidati in misura pari a 2,5 mensilità della retribuzione dovuta alla lavoratrice.
Contro la decisione della Corte d’Appello la sola RAGIONE_SOCIALE ha proposto ricorso per cassazione articolato in due motivi.
La lavoratrice si è difesa con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memoria illustrativa nel termine di legge anteriore alla data fissata per la trattazione in camera di consiglio ai sensi de ll’ art. 380 -bis .1 c.p.c.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso l ‘RAGIONE_SOCIALE denuncia «violazione degli artt. 99, 112, 324, 434 c.p.c., nonché dell’art. 2909 c.c. , in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.».
La ricorrente si duole che la Corte territoriale abbia ritenuto non censurate, c on l’atto d’ appello, « né l’affermazione da parte del Tribunale della sussistenza di una fattispecie di abuso del contratto a termine, né l’affermazione (tratta da Cass. S.U. n. 5072/2016) secondo cui il danno da perdita di chance ‘è presunto e predeterminato tra un minimo ed un massimo’, sicché ‘il lavoratore pubblico ha diritto, senza necessità di prova alcuna, all’indennità risarcitoria ex art. 32, comma 5, legge 183/2010’ ».
Il secondo motivo di ricorso censura «violazione dell’art. 52 d.lgs. n. 165 del 2001, dell’art. 32, comma 5, della legge n. 183 del 2010, degli artt. 1218, 1223 c.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.».
La ricorrente sostiene che «nessun danno, né perdita di chance , è configurabile» in favore dell’attuale controricorrente, perché «il lungo espletamento di mansioni superiori nel pubblico impiego, ex art. 52 d.lgs. n. 165 del 2001, non dà titolo al conseguimento della corrispondente qualifica e, dunque, non crea in capo al dipendente una situazione giuridica rilevante sub specie di aspettativa o di legittimo affidamento al passaggio, per ciò solo, all’inquadramento superiore, men che meno di diritto soggettivo». La Corte d’Appello avrebbe dunque errato nel riconoscere alla lavoratrice il diritto al risarcimento di un danno in assenza dei presupposti richiesti dalla legge per il sorgere di un tale diritto.
I due motivi, da trattare congiuntamente, per la stretta connessione logica tra di loro, sono fondati nei termini di seguito precisati.
3.1. L’attuale controricorrente è una impiegata a tempo indeterminato presso l’RAGIONE_SOCIALE alla quale furono conferiti incarichi dirigenziali, in via provvisoria, per una durata superiore a 36 mesi, prima che la sentenza n. 37 del 2015 della Corte costituzionale intervenisse a sancire l’illegittimità dell’art. 8, comma 24, del decreto legge n. 16 del 2012 (convertito, con modificazioni, dalla legge n. 44 del 2012), il quale aveva elevato a norma di legge una prassi regolamentare interna che consentiva all’RAGIONE_SOCIALE di conferire incarichi dirigenziali
provvisori ai propri dipendenti di livello inferiore, senza bandire pubblici concorsi.
Revocato l’incarico a seguito della sentenza della Corte costituzionale, la lavoratrice -rimasta dipendente dell’RAGIONE_SOCIALE per lo svolgimento RAGIONE_SOCIALE sue originarie funzioni non dirigenziali -si rivolse al giudice del lavoro per chiedere l’accertamento del proprio diritto di mantenere il ruolo dirigenziale a tempo indeterminato, proponendo una serie di domande alternative e subordinate, tra le quali la condanna del l’RAGIONE_SOCIALE al risarcimento del danno per abuso del lo strumento del contratto di lavoro a termine di durata superiore a 36 mesi.
Il Tribunale di Torino accolse solo quest’ultima domanda, condannando l’RAGIONE_SOCIALE al risarcimento in misura pari a 2,5 mensilità, ritenendo che, ai fini della sussistenza dell’abuso del contratto a termine, fosse «irrilevante la circostanza che la ricorrente , con il venir meno del contratto a tempo determinato, non abbia perso il posto di lavoro, riprendendo a svolgere le mansioni di funzionario in virtù del contratto a tempo indeterminato che la lega all’amministrazione».
Tale affermazione del giudice di primo grado venne nettamente (e correttamente) contraddetta dalla Corte d’Appello nel motivare il rigetto del gravame proposto dalla lavoratrice. Nella sentenza qui impugnata è infatti scritto che, nel caso dell’attuale controricorrente , «non ricorre affatto una situazione di precarietà o di instabilità del rapporto di impiego in quanto -al contrario di quanto si verifica nel caso di stipulazione di un contratto di lavoro a tempo determinato con
un lavoratore privo di occupazione -alla cessazione del suo temporaneo incarico dirigenziale non è venuto a cessare il suo rapporto di lavoro con l’RAGIONE_SOCIALE (il che è, appunto, l’evento che la normativa europea e nazionale sopra citata si propone di contrastare), ma la lavoratrice ha semplicemente ripreso lo svolgimento RAGIONE_SOCIALE sue precedenti mansioni di funzionaria».
3.3. Nella sentenza impugnata è dunque contenuta l’esplicita e corretta affermazione che l’illiceità del ricorso ai contratti a termine non deriva, nel caso di specie, dalla normativa europea volta a tutelare e, ove possibile, a contrastare il lavoro precario (poiché non ricorre un’ipotesi di occupazione lavorativa precaria), bensì dalla violazione, da parte dell’RAGIONE_SOCIALE, de lle norme -anche di rango costituzionale, ma rilevanti esclusivamen te per l’ordinamento interno -che regolano l’accesso agli incarichi pubblici e, in particolare, agli incarichi dirigenziali (art. 97 Cost.).
3.4. In tale contesto avrebbe dovuto essere collocata anche l’impugnazione dell’RAGIONE_SOCIALE , il cui atto d’appello per come trascritto nel ricorso per cassazione -sebbene non contenesse alcuna censura sull’affermata illiceità della reiterazione dei contratti a termine, tuttavia contestava la pronuncia di una condanna al risarcimento del danno in mancanza di prova dell’esistenza del danno risarcibile («violazione e falsa applicazione dell’art. 32, comma 5, legge n. 183/2010, insussistenza del danno derivante da perdita di chance »).
Siffatta condanna al risarcimento di un danno non provato dal lavoratore costituisce una vistosa deroga alle regole generali
sulla ripartizione degli oneri probatori; deroga che l’ordinamento interno ammette eccezionalmente , solo in funzione del necessario adeguamento al diritto dell’Unione , che pretende una reazione proporzionata ed effettiva all’abuso dei contratti a termine (in funzione di tutela dei lavoratori precari), anche laddove il diritto interno non ammette la conversione in contratto di lavoro a tempo indeterminato (come avviene in Italia per il pubblico impiego, vigendo il principio costituzionale dell’accesso al lavor o per concorso, che ammette, con riserva di legge, solo deroghe giustificate dalla necessità di contemperare quel principio con altre norme di rilevanza costituzionale: v. Cass. S.U. n. 5072/2016 e Corte cost. n. 37 del 2015).
Statuito ch e, nel caso dell’attuale controricorrente, «non ricorre affatto una situazione di precarietà o di instabilità del rapporto di impiego» e constatato che l’appello dell’RAGIONE_SOCIALE censurava la sentenza di primo grado per avere riconosciuto il diritto al risarcimento nonostante la mancanza di prova dell’esistenza del danno, la Corte torinese avrebbe dovuto coerentemente accogliere l’appello , seppure non specificamente motivato sull’errore di diritto commesso dal Tribunale e piuttosto concentrato sugli aspetti, in fatto, dell’assenza del danno. L’affermazione, in diritto, che l’illeceità dei reiterati incarichi dirigenziali temporanei non dipende dalle norme europee a tutela del lavoro precario è già contenuta nella sentenza impugnata. Da tale affermazione discende la conseguenza che non è consentita la condanna del preteso danneggiante al risarcimento di un danno non provato; il che dava fondamento alla specifica censura mossa contro la sentenza da ll’appellante RAGIONE_SOCIALE.
3.5. Ne consegue che fondato è anche il ricorso per cassazione, che censura la sentenza d’appello per non avere dato p untuale risposta al gravame proposto dall’attuale ricorrente.
Accolto il ricorso e cassata la sentenza impugnata, non occorre provvedere al rinvio, essendo possibile decidere la causa nel merito senza necessità di ulteriori accertamenti in fatto , ai sensi dell’art. 384, comma 2, c.p.c. (la mancanza di prova del danno è un dato pacifico nel processo).
Si provvede, pertanto, al rigetto della domanda della lavoratrice, anche per quanto riguarda la richiesta condanna dell’RAGIONE_SOCIALE al risarcimento del danno, mentre sussistono valide ragioni per compensare integralmente le spese dell’intero processo, sia per l’esito contrastato dei giudizi di merito, sia perché all’origine della vicenda vi è comunque un comportamento illecito ascrivibile all’amministrazione pubblica .
Si dà atto che, stante l’esito del ricorso (ma anche perché l’amministrazione ricorrente rientra tra quelle esonerate dal pagamento del contributo), non sussistono i presupposti per il raddoppio del contributo unificato ai sensi dell’ art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. n. 115 del 2002.
P.Q.M.
La Corte:
accoglie il ricorso e, decidendo nel merito, rigetta anche la domanda della lavoratrice di condanna dell’RAGIONE_SOCIALE al risarcimento del danno, fermo il resto;
compensa integralmente tra le parti le spese del l’intero processo.
Così deciso in Roma, il 20.2.2024 e poi, in riconvocazione,