Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 2439 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 3 Num. 2439 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 25/01/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 14129/2021 R.G. proposto da: COGNOME NOMENOME COGNOME NOME, domiciliato ex lege in ROMA, INDIRIZZO presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE)
-ricorrente-
NOME, domiciliato ex lege in ROMA, INDIRIZZO presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE)
-ricorrente-
contro
COGNOME NOME, domiciliato ex lege in ROMA, INDIRIZZO presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE)
-controricorrente-
nonchè contro
COGNOME NOME, domiciliato ex lege in ROMA, INDIRIZZO presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE)
-controricorrente-
nonchè contro
COGNOME NOMENOME COGNOME COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME
-intimati- avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO ANCONA n. 166/2020 depositata il 20/02/2020.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 18/12/2023 dal consigliere NOME COGNOME
Rilevato che:
NOME COGNOME e NOME COGNOME convennero in giudizio innanzi al Tribunale di Macerata RAGIONE_SOCIALE, quale proprietaria dell’immobile subentrata alle originarie proprietarie, e gli
acquirenti dei singoli appartamenti, chiedendo il risarcimento del danno cagionato al villino di proprietà attorea in Civitanova Marche, per effetto del deprezzamento, dal mancato rispetto da parte dell’immobile di proprietà convenuta delle prescrizioni relative all’altezza degli edifici, oltre il danno non patrimoniale da reato (di falso ed edilizio) ed il danno morale. Con sentenza di data 25 febbraio 2011 il Tribunale adito rigettò la domanda. Avverso detta sentenza proposero appello gli attori con atto di citazione notificato in data 7 aprile 2012. Con sentenza di data 20 febbraio 2020 la Corte d’appello di Ancona accolse parzialmente l’appello, condannando in solido NOME COGNOME, quale successore di RAGIONE_SOCIALE, NOME COGNOME, NOME COGNOME, quale unico socio cessionario di tutte le quote di RAGIONE_SOCIALE, cancellata senza liquidazione dal registro delle imprese, NOME COGNOME e NOME COGNOME al pagamento della somma di Euro 49.000,00 oltre interessi, per il deprezzamento commerc iale dell’immobile, e dichiarò NOME COGNOME a tenere indenne i condebitori da quanto corrisposto agli appellanti; dispose infine la compensazione delle spese di entrambi i gradi di giudizio.
Premise la corte territoriale che la tutela risarcitoria spettava, a differenza dell’azione reale ripristinatoria, anche nei confronti dei successivi proprietari (ciò che legittimava il rigetto della eccezione di difetto di legittimazione passiva) e che co n riferimento all’azione reale proposta nei confronti delle originarie proprietarie era intervenuta la sentenza della Corte di Cassazione n. 27558 del 2014 di annullamento della sentenza di appello.
Osservò quindi, sulla base della citata sentenza di legittimità, e dei precedenti ivi richiamati, che le limitazioni edificatorie dettate dalla norma della L. 6 agosto 1967, n. 765, art. 17, comma 1, lett. c), si applicavano nei comuni sprovvisti di piano regolatore generale e di programma di fabbricazione, e quindi anche nei comuni che, privi di tali piani, fossero muniti di un piano di ricostruzione, giacchè questo
ultimo aveva contenuto e finalità diversi da quelle degli strumenti urbanistici ai quali la norma espressamente si riferiva, essendo diretta ad attuare, con la maggiore rapidità possibile, e con il minimo dispendio per le amministrazioni pubbliche, le opere necessarie per la ricostruzione degli aggregati edilizi danneggiati dagli eventi bellici, secondo i criteri rispondenti ai dettami di una zona urbanistica. Precisò, sempre sulla base della pronuncia richiamata, che le limitazioni stabilite, in materia di altezza, e di distanze degli edifici, dalla L. 6 agosto 1967, n. 765, art. 17, comma 1, lett. c), che non operavano nei comuni provvisti di piano regolatore o di programma di fabbricazione, erano invece applicabili nei comuni soggetti a piani di ricostruzione (d. lgs. n. 154 del 1945 e L. 27 ottobre 1951, n. 1402), salvo che tali piani -costituenti una speciale categoria di strumenti urbanistici caratterizzata dallo scopo specifico di attuare con immediatezza la ricostruzione degli agglomerati distrutti o danneggiati da eventi bellici – contenessero, in aggiunta alle normali disposizioni volte ad ottenere la rapida esecuzione del programma ricostruttivo, prescrizioni di carattere urbanistico nella medesima materia cui si riferivano le limitazioni poste dalla norma predetta. Osservò quindi che nel piano di ricostruzione e nel regolamento edilizio adottati dall’ente comunale non era riscontrabile alcuna puntuale prescrizione di carattere urbanistico riguardante l’indice volumetrico e le altezze, per cui nessuna validità, per la determinazione degli standard urbanistici, poteva essere attribuita al piano di ricostruzione e al regolamento edilizio e che le norme edilizie vigenti all’epoca erano da identificare nell’art. 17 l. n. 765 del 1967, la cui lettera c) aveva imposto un’altezza massima non sup eriore alla larghezza degli spazi su cui l’edificio prospettava. Aggiunse che, in base alla CTU, gran parte dell’edificio si trovava in una situazione di illegittimità, risultando abusivi una piccola porzione del piano rialzato e tutti i restanti piani in elevazione.
Osservò ancora che, ai fini della decorrenza prescrizione del diritto al risarcimento, erroneamente il Tribunale aveva fatto riferimento al rilascio della concessione edilizia in sanatoria in data 15 marzo 1996, reputando estinto il diritto in considerazio ne della notifica dell’atto di citazione in data 12 aprile 2002, atteso che soltanto con provvedimento sindacale del 23 aprile 1997, di rettifica della precedente concessione edilizia in sanatoria, si era provveduto ad includere «anche la maggior altezza del fabbricato», su istanza della proprietaria ricomprendente anche la «rettifica dei conteggi generali», mentre le altre pratiche di condono presentate dai singoli acquirenti delle unità immobiliari del fabbricato erano state avanzate in epoca successiva.
Infine, in relazione alla cancellazione dal registro delle imprese di RAGIONE_SOCIALE in data 24 giugno 2008, osservò che la costituzione in giudizio del socio rimasto, NOME COGNOME, consentiva di ritenere integrato il contraddittorio, con sanatoria del l’eventuale vizio di notifica dell’impugnazione, e, disattendendo l’eccezione di estinzione del giudizio per tardiva riassunzione, che non ricorrevano i presupposti dell’interruzione del processo perché l’COGNOME si era costituito nella fase cautelare dell’ inibitoria, proposta dagli appellanti, deducendo la cancellazione del registro delle imprese al solo fine di conseguire la pronuncia di inammissibilità dell’impugnazione, e non quale dichiarazione dell’evento interruttivo.
Ha proposto ricorso per cassazione sulla base di sei motivi NOME COGNOME, in proprio, quale avente causa dei crediti e beni appartenuti a RAGIONE_SOCIALE, cancellata dal registro delle imprese senza liquidazione in data 24 giugno 2008, e resistono con controricorso NOME COGNOME e NOME COGNOME. Successivamente hanno proposto ricorso per cassazione sulla base di quattro motivi NOME COGNOME e NOME COGNOME e resistono con controricorso NOME COGNOME e NOME COGNOME. E’ s tato fissato il ricorso in camera di
consiglio ai sensi dell’art. 380 bis.1 cod. proc. civ.. E’ stata presentata memoria.
Considerato che:
va previamente disposta la riunione delle impugnazioni.
Muovendo dal ricorso proposto da NOME COGNOME, con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 299, 300 e 305 cod. proc. civ., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.. Osserva la parte ricorrente che, dato che la memoria depositata in sede di inibitoria dall’COGNOME, con cui si dava notizia della cancellazione dal registro delle imprese, non era un atto di costituzione in giudizio, era insorto l’onere della riassunzione del giudizio a fronte della comunicazione de ll’evento interruttivo e che non vi è stata riassunzione nel termine perentorio.
Con il secondo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 156, 300 e 305 cod. proc. civ., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.. Osserva la parte ricorrente che è intervenuta l’estinzione del giudizio di appello per la mancata riassunzione e che, pur ritenendo valida la notifica dell’atto di appello al procuratore costituito della società già cancellata dal registro delle imprese, erroneamente è stata considerata la costituzione del socio come sanante l’inammissibilità dell’impugnazione proposta nei confronti di un soggetto inesistente al momento della detta notifica, dovendo l’impugnazione essere indirizzata ai soci succeduti alla società estinta.
Il primo ed il secondo motivo, da trattare congiuntamente, sono infondati. La cancellazione della società dal registro delle imprese dà luogo ad un fenomeno estintivo che priva la società stessa della capacità di stare in giudizio, determinando così – qualora l’estinzione intervenga nella pendenza di un giudizio del quale la società è parte costituita – un evento interruttivo, disciplinato dagli artt. 299 e ss. cod. proc. civ., la cui omessa dichiarazione o notificazione, ad opera del procuratore, comporta, in applicazione della regola dell’ultrattività del
mandato alla lite, che il difensore continui a rappresentare la parte, risultando così stabilizzata la sua posizione giuridica (rispetto alle altre parti ed al giudice) nella fase attiva del rapporto processuale, nonché in quelle successive di sua quiescenza od eventuale riattivazione dovuta alla proposizione dell’impugnazione. Tale posizione è suscettibile di modificazione qualora, nella fase di impugnazione, si costituiscano i soci successori della società, ovvero se il procuratore costituito per la società, già munito di procura alla lite valida anche per gli ulteriori gradi del processo, dichiari in udienza l’evento o lo notifichi alle altre parti, o ancora se, in caso di contumacia, tale evento sia documentato dall’altra parte o notificato o certificato dall’ufficiale giudiziario ex art. 300, quarto comma, cod. proc. civ. (Cass. n. 23141 del 2014).
La cancellazione della società in questione dal registro delle imprese nel corso del giudizio di primo grado, non dichiarata o oggetto di notificazione, non osta alla validità della notificazione dell’appello al procuratore della società costituita in giudizio, in forza dell’ultrattività del mandato alla lite. La posizione giuridica, così stabilizzata, è stata poi modificata dalla costituzione nel grado di appello del socio successore della società, instaurando così un valido rapporto processuale.
Con il terzo motivo si denuncia violazione degli artt. 324 e 329 cod. proc. civ., 2909 cod. civ., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.. Osserva la parte ricorrente che il Tribunale aveva rilevato la carenza di legittimazione passiva dei convenuti NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME, non essendo costoro né gli autori dell’abusivo innalzamento dell’altezza dell’appartamento posto all’attico dell’immobile, né i proprietari di quest’ultimo, ma soltanto i proprietari dei singoli appartamenti dei piani inferiori. Aggiunge che tale capo della sentenza non è stato oggetto di appello e che la
sentenza impugnata, nonostante l’eccezione di giudicato sollevata, ha violato il giudicato formatosi per effetto della mancata impugnazione.
Con il quarto motivo si denuncia violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ.. Osserva la parte ricorrente che il giudice di appello ha omesso di pronunciare sulla eccezione di giudicato interno relativa alla carenza di legittimazione passiva.
I motivi terzo e quarto, da valutare congiuntamente, sono infondati. Il giudice del merito ha affermato che nel campo della tutela risarcitoria la legittimazione passiva spetta anche ai successivi proprietari. In relazione all’eccezione di giudicato, la qu estione, in realtà, non è di rito (difetto di legittimazione in relazione al tipo astratto di azione proposta), ma di merito (titolarità del rapporto dedotto in giudizio), ed in questo secondo senso deve essere intesa l’esclusione della ‘legittimazione passiva’ da parte del Tribunale a causa dell’estraneità dei convenuti alla proprietà dell’unità immobiliare posta all’attico dell’edificio.
Ciò detto, va evidenziato che il difetto di legittimazione passiva ( rectius , difetto di titolarità passiva del rapporto dedotto in giudizio), rilevato sul presupposto dell’estraneità dei convenuti rispetto all’appartamento posto al piano attico dell’immobile, deve intendersi impugnato con il terzo motivo di appello, come ben illustrato dalla parte controricorrente. Nel momento in cui la sentenza di primo grado risulta censurata nella parte in cui ha limitato al piano attico il profilo di illegalità urbanistica dell’edificio, dovendo invece, secondo la parte appellante, essere estesa tale valutazione anche ai piani sottostanti, deve chiaramente intendersi impugnata la statuizione che comporta l’esclusione della ‘legittimazione passiva’, posto che la titolarità passiva del rapporto dedotto in giudizio spetta anche ai titolari del diritto di proprietà dei piani sottostanti.
Con il quinto motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 17, comma 1, lett. c) l. n. 765 del 1967, nonché del piano di ricostruzione e del regolamento edilizio con riferimento all’art. 41 quinquies l. n. 1150 del 1942, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.. Osserva la parte ricorrente che il piano di ricostruzione fa espresso rinvio alle disposizioni del regolamento edilizio emanato nel 1928 e che tale regolamento contiene chiare previsioni che, in funzione di normativa urbanistica, disciplinano dimensioni, ubicazione e volume degli edifici, fra cui i limiti di altezza. Aggiunge che è pertanto errata l’affermazione della corte territoriale secondo cui nel piano di ricostruzione e nel regolamento edilizio non è riscontrabile alcuna prescrizione di carattere urbanistico sull’indice volumetrico e l’altezza degli edifici.
Il motivo è infondato. Il Collegio intende sul punto dare continuità a quanto affermato da Cass. n. 27558 del 2014 nella controversia insorta fra l’odierna parte controricorrente e le originarie proprietarie dell’immobile. Rinviando sul punto a quanto affe rmato nella citata pronuncia con riferimento all’esame del secondo motivo di ricorso, è qui sufficiente richiamare i seguenti passaggi motivazionali.
In primo luogo si rammenta «l’insegnamento secondo cui i regolamenti edilizi emanati anteriormente all’entrata in vigore della legge urbanistica 17 agosto 1942, n. 1150, restano in vigore in quanto non siano in contrasto con le norme della legge stessa, anche se non siano uniformati alle sue disposizioni (cfr. Cass. 5.9.1969, n. 3067)». Su tale premessa si rileva poi che «è ben evidente, quindi, alla stregua delle prospettazioni difensive delle medesime controricorrenti, che il regolamento edilizio dell’anno 1928 del comune di Civitanova Marche nel prescindere dal “concetto di volume” e dall'”indice volumetrico”, fosse in contrasto con le più rigorose e restrittive disposizioni di cui alla legge urbanistica, fonte normativa successiva e sovraordinata».
Deve pertanto sul punto confermarsi il giudizio del giudice del merito.
Con il sesto motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2947 e 2935 cod. civ., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.. Osserva la parte ricorrente, con riferimento alla statuizione relativa alla decorrenza della prescrizione, che, come affermato da Cons. Stato, sez V, n. 3558 del 2014, l’atto di rettifica non incide sugli effetti della concessione edilizia in sanatoria, ma si limita a eliminarne una mera irregolarità.
Il motivo è inammissibile. La censura è priva di specificità, e dunque inidonea a raggiungere lo scopo della critica della decisione, perché, mentre nella decisione impugnata si afferma in modo specifico che soltanto con il provvedimento sindacale del 23 aprile 1997, di rettifica della precedente concessione edilizia in sanatoria, si era provveduto ad includere «anche la maggior altezza del fabbricato», con il motivo di censura la parte si limita a richiamare genericamente l’indirizzo giurisprudenziale secondo cui l’atto di rettifica elimina una mera irregolarità, senza considerare che ciò che mancava nella concessione edilizia era proprio la questione, rilevante nella presente controversia, della «maggior altezza del fabbricato». Si consideri, inoltre, che il giudice del merito ha, peraltro, soggiunto, sempre ai fini della decorrenza della prescrizione, che le altre pratiche di condono presentate dai singoli acquirenti delle unità immobiliari del fabbricato erano state avanzate in epoca successiva.
I quattro motivi del ricorso proposto da NOME COGNOME e NOME COGNOME coincidono con gli ultimi quattro motivi del precedente ricorso e ne subiscono pertanto le medesime sorti.
Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
La parte controricorrente ha fatto richiesta dell’ordine di cancellazione delle due ipoteche giudiziali iscritte sulla base della
condanna alle spese processuali emessa dalla sentenza di primo grado. Ove la parte non intenda accedere al rimedio dell’introduzione del giudizio di cui all’art. 2884 cod. civ. (da ultimo Cass. n. 1992 del 2018), deve rammentarsi che, come affermato da Cass. n. 20315 del 2012, ai sensi dell’art. 336, comma 2, c.p.c. («la riforma o la cassazione estende i suoi effetti ai provvedimenti e agli atti dipendenti dalla sentenza riformata o cassata») «l’ipoteca è rimasta travolta dalla riforma o dalla cassazione della sentenza resa nel giudizio in base al quale è stata scritta».
Poiché il ricorso viene disatteso, sussistono le condizioni per dare atto, ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, che ha aggiunto il comma 1 – quater all’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, della sussistenza dei presupposti processuali dell’obbligo di versamento, da parte della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
P. Q. M.
Rigetta i ricorsi.
Condanna NOME COGNOME al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, con distrazione in favore del procuratore anticipatario e che liquida in Euro 3,200,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.
Condanna NOME COGNOME e NOME COGNOME al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, con distrazione in favore del procuratore anticipatario e che liquida in Euro 3.200,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della
sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma il giorno 18 dicembre 2023