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Risarcimento danni demansionamento: la Cassazione conferma

Una pubblica agenzia ricorre in Cassazione contro una condanna per risarcimento danni demansionamento a favore di un proprio dipendente. Questi non era stato reintegrato nel suo ruolo di capo team, nonostante una precedente sentenza definitiva lo imponesse. La Corte Suprema dichiara il ricorso inammissibile, confermando la condanna al risarcimento per i danni biologici, morali e patrimoniali derivanti dall’illegittimo demansionamento e dalla violazione del precedente giudicato.

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Pubblicato il 26 dicembre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile, Procedura Civile

Risarcimento danni demansionamento: quando l’inerzia del datore viola un ordine del giudice

Il tema del risarcimento danni demansionamento torna al centro di un’importante ordinanza della Corte di Cassazione, che ha confermato la condanna di una pubblica amministrazione per non aver ottemperato a un ordine giudiziale di reintegra di un dipendente nelle sue precedenti mansioni. Questa pronuncia ribadisce principi fondamentali sulla tutela del lavoratore e sui limiti del potere organizzativo del datore di lavoro, specialmente quando è già intervenuta una decisione definitiva della magistratura.

I fatti del caso: la mancata riassegnazione dell’incarico

La vicenda ha origine dalla decisione di una pubblica agenzia di non riattribuire a un proprio dipendente l’incarico di ‘capo team’. Tale decisione era in palese contrasto con una precedente sentenza, passata in giudicato, che obbligava l’ente proprio a tale riassegnazione. Di conseguenza, il lavoratore si trovava prima completamente privato di attività lavorativa per un lungo periodo (dal settembre 2010) e, successivamente, adibito a compiti non rientranti nella sua area professionale di appartenenza.

Sia il Tribunale che la Corte d’Appello avevano riconosciuto l’illegittimità del comportamento del datore di lavoro, accertando il demansionamento e condannando l’agenzia al risarcimento del danno biologico, morale e patrimoniale per la perdita della posizione organizzativa. L’ente, non rassegnato, proponeva ricorso per Cassazione.

I motivi del ricorso e la questione del risarcimento danni demansionamento

L’agenzia pubblica basava il proprio ricorso su tre motivi principali, cercando di smontare la decisione dei giudici di merito.

1. Errata liquidazione del danno: Si contestava che il risarcimento fosse stato calcolato fino a maggio 2014, sostenendo che l’incarico di ‘capo team’ fosse a tempo determinato e scaduto nel luglio 2011. Secondo l’ente, da quella data il lavoratore non avrebbe avuto più alcun diritto a ricoprire la posizione.
2. Natura dell’incarico: Si argomentava che la posizione di ‘capo team’ non costituisse un diritto soggettivo perfetto del lavoratore, ma un mero interesse legittimo, la cui soddisfazione dipendeva da un atto discrezionale del datore di lavoro.
3. Valutazione delle prove: Si criticava la valutazione delle prove operata dai giudici di merito in merito allo ‘svuotamento’ delle mansioni del dipendente.

Le motivazioni della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso interamente inammissibile, respingendo tutte le censure mosse dall’ente. La motivazione della Corte è netta e si articola su diversi piani.

In primo luogo, i Supremi Giudici hanno chiarito che il risarcimento concesso per il periodo successivo alla scadenza formale dell’incarico (31.7.2011) non era legato alla ‘perdita della posizione organizzativa’ in sé, ma era la diretta conseguenza della mancata esecuzione di un precedente giudicato. Il datore di lavoro, ignorando un ordine definitivo del giudice, aveva perpetuato una condotta illecita, fonte di un danno continuo per il lavoratore. La censura dell’ente era, quindi, mal posta, poiché non affrontava il vero nucleo della decisione: la violazione dell’ordine giudiziale.

In secondo luogo, la Corte ha smontato l’argomento sulla natura dell’incarico. La decisione dei giudici di merito non si basava sull’affermazione di un diritto soggettivo del lavoratore all’incarico, ma sul fatto che il danno derivava dalla mancata ricollocazione imposta da un provvedimento giudiziale. La questione non era se il lavoratore avesse diritto alla posizione in astratto, ma se il datore di lavoro potesse ignorare una sentenza passata in giudicato. La risposta è, ovviamente, negativa.

Infine, per quanto riguarda la contestazione sulla valutazione delle prove, la Corte ha applicato il principio della cosiddetta ‘doppia conforme’. Poiché sia il Tribunale che la Corte d’Appello avevano ricostruito i fatti nello stesso modo, accertando il demansionamento, non era possibile contestare tale accertamento in sede di legittimità. Un simile motivo di ricorso si traduceva in un inammissibile tentativo di ottenere dalla Cassazione un nuovo esame del merito della vicenda.

Le conclusioni

L’ordinanza in esame rafforza un principio cardine del diritto del lavoro: l’obbligo del datore di lavoro di rispettare le decisioni definitive dell’autorità giudiziaria. La pronuncia chiarisce che il risarcimento danni demansionamento non si limita a compensare la perdita di professionalità, ma si estende a coprire tutti i pregiudizi derivanti da una condotta datoriale che ignora un ordine di reintegra. Anche se un incarico è a termine, l’inadempimento a un obbligo sancito da una sentenza genera un illecito continuo, i cui effetti dannosi devono essere integralmente risarciti. Questa decisione serve da monito per tutti i datori di lavoro, pubblici e privati, sull’imprescindibilità del rispetto dei provvedimenti giudiziali a tutela della dignità e professionalità dei lavoratori.

È dovuto il risarcimento danni demansionamento se il datore di lavoro non esegue un ordine del giudice di riassegnare un incarico?
Sì, la Corte ha confermato che il risarcimento è dovuto non solo per il demansionamento in sé, ma anche per la mancata esecuzione di un precedente provvedimento giudiziale definitivo che imponeva la riassegnazione.

La scadenza di un incarico a termine esclude il diritto al risarcimento se il lavoratore non viene successivamente riassegnato in violazione di una sentenza?
No. In questo caso, la Corte ha specificato che il risarcimento per il periodo successivo alla scadenza dell’incarico non era per la perdita di una futura posizione, ma era la diretta conseguenza del continuo inadempimento del datore di lavoro all’ordine del giudice, che costituiva un illecito persistente.

È possibile contestare in Cassazione la valutazione dei fatti se la sentenza d’appello conferma quella di primo grado?
Generalmente no. Se i giudici di primo e secondo grado hanno ricostruito i fatti nello stesso modo (c.d. ‘doppia conforme’), non è possibile presentare ricorso in Cassazione per omesso esame di un fatto decisivo. Un tale tentativo verrebbe considerato un’inammissibile richiesta di riesame del merito.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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