Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 13459 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 13459 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME NOME
Data pubblicazione: 15/05/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 12072/2019 R.G. proposto
da
NOME COGNOME , elettivamente domiciliata in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME, rappresentata e difesa dall’avvocato COGNOME NOME
-ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE , in persona del legale rappresentante pro tempor ed elettivamente domiciliata in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME
Oggetto: Lavoro pubblico contrattualizzato – Contratti a termine – Abusiva reiterazione – Risarcimento danni – Caratteri – Prova – Criteri
R.G.N. 12072/2019
Ud. 17/04/2024 CC
NOME, rappresentata e difesa dagli avvocati COGNOME NOME e COGNOME NOME
-controricorrente –
REGIONE PUGLIA
– intimata – avverso la sentenza di Corte d’appello Lecce n. 1037/2018 depositata il 08/10/2018.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del giorno 17/04/2024 dal AVV_NOTAIO NOME COGNOME;
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza n. 1037/2018, pubblicata in data 8 ottobre 2018, la Corte d’appello di Lecce, decidendo in sede di rinvio ex art. 384 c.p.c., a seguito della sentenza di questa Corte n. 14031/2016, ha, nella contumacia dell’altra appellata REGIONE PUGLIA, integralmente respinto l’appello proposto da NOME COGNOME avverso la sentenza del Tribunale di Taranto n. 5960/2012, depositata in data 21 settembre 2012.
NOME COGNOME – dirigente medico dipendente dell’RAGIONE_SOCIALE già assunto con vari contratti a termine e successivamente assunto a tempo indeterminato a seguito di procedura selettiva indetta con L.R. Puglia n. 40/2007 -aveva infatti adito il Tribunale di Taranto, chiedendo, in via gradata:
-accertarsi l’illegittimità del recesso intimato dalla stessa RAGIONE_SOCIALE, con reintegra nel posto di lavoro e risarcimento dei danni;
-dichiararsi la conversione del rapporto da tempo determinato ad indeterminato ex art. 5, D. Lgs. n. 368/2001 con condanna
della stessa RAGIONE_SOCIALE alla corresponsione delle retribuzioni e dell’indennità ex art. 32, comma 5, Legge n. 183/2010;
-condannarsi RAGIONE_SOCIALE al risarcimento del danno ex art. 36, comma 5, D. Lgs n. 165/2001 oltre al danno precontrattuale ex art. 1337 c.c. in solido con la Regione Puglia.
Il giudizio si era poi sviluppato:
-nella sentenza del Tribunale di Taranto n. 5960/2012, la quale aveva integralmente disatteso le domande, rilevando che l’assunzione a tempo indeterminato era avvenuta a seguito di selezione interna disposta ai sensi dell’art. 3, comma 40, L.R. Puglia n. 40/2007, norma dichiarata illegittima con sentenza della Corte costituzionale n. 42/2011, e che pertanto da detta declaratoria di incostituzionalità era derivata la nullità diretta e immediata ex art. 1418 c.c. del contratto di lavoro stipulato in violazione della norma imperativa dell’art. 35, comma 1, D. Lgs. n. 165/2001, risultando altresì precluse sia la conversione dei rapporti a termine in rapporti a tempo indeterminato sia il risarcimento del danno;
-nella sentenza della Corte d’appello di Lecce Sezione distaccata di Taranto n. 318/2013, la quale aveva invece accolto l’appello di NOME COGNOME dichiarando illegittima la risoluzione del contratto di lavoro a tempo indeterminato e condannando RAGIONE_SOCIALE alla reintegra nel posto ed al risarcimento del danno;
-nella sentenza di questa Corte n. 13884/2016, la quale aveva cassato con rinvio la precedente decisione, evidenziando in particolare che la declaratoria di incostituzionalità dell’art. 3,
comma 40, L.R. Puglia n. 40/2007 aveva spiegato riflessi anche sul singolo rapporto di lavoro, non potendosi ravvisare una situazione giuridica irrevocabile a fronte di un rapporto sorto per effetto di una norma dichiarata incostituzionale.
Riassunto il giudizio innanzi alla Corte d’appello di Lecce, quest’ultima ha:
-escluso, alla luce dei principi dettati dalla sentenza di questa Corte, la possibilità di dichiarare illegittimo l’atto con il quale RAGIONE_SOCIALE, a seguito della declaratoria di incostituzionalità dell’art. 3, comma 40, L.R. Puglia n. 40/2007 aveva comunicato il recesso dal rapporto di lavoro con NOME COGNOME;
-parimenti disatteso la domanda di quest’ultima volta a conseguire la conversione del rapporto di lavoro a termine in rapporto a tempo indeterminato, richiamando al riguardo il disposto di cui all’art. 36, D. Lgs. n. 165/2001;
-respinto la domanda di risarcimento per reiterazione dei contratti a termine, rilevando che la durata complessiva degli stessi era stata inferiore a 36 mesi;
-escluso la sussistenza di un danno conseguente alla perdita di chances lavorative, non allegate;
-escluso una responsabilità precontrattuale della RAGIONE_SOCIALE, non essendo ravvisabili profili di responsabilità di quest’ultima nella nullità del contratto di lavoro, essendo peraltro espressamente prevista in quest’ultimo la condizione risolutiva costituita dalla eventuale illegittimità della procedura di assunzione.
Per la cassazione della sentenza della Corte d’appello di Lecce ricorre NOME COGNOME.
Resiste con controricorso RAGIONE_SOCIALE.
REGIONE PUGLIA è rimasta intimata.
La trattazione del ricorso è stata fissata in camera di consiglio, a norma degli artt. 375, secondo comma, e 380bis .1, c.p.c.
La ricorrente ha depositato memoria.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è affidato a sette motivi.
1.1. Con il primo motivo il ricorso deduce, in relazione all’art. 360, nn. 3 e 4, c.p.c., la violazione degli artt. 329, 394, 383, 384 c.p.c.
Deduce la ricorrente che la Corte d’appello, nell’escludere che i contratti a termine conclusi dalla ricorrente avessero superato complessivamente il limite di 36 mesi, avrebbe omesso di rilevare il giudicato che si era formato sul punto, atteso che il superamento del limite dei 36 mesi era già stato affermato sia dalla prima sentenza della Corte d’appello n. 318/2013 sia dalla decisione di questa Corte n. 13884/16.
1.2. Con il secondo motivo il ricorso deduce, in relazione all’art. 360, nn. 3 e 4, c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 115, primo comma, c.p.c. ‘in relazione all’art. 2126 cod. civ. tenuto conto degli artt. 2699 e 2700 stesso testo’ .
Il ricorso imputa alla decisione impugnata un errore di percezione sul contenuto oggettivo del certificato di servizio della ricorrente in ordine all’arco temporale di lavoro dalla stessa svolto presso ASL RAGIONE_SOCIALE, dal quale emergerebbe che il periodo complessivamente coperto dai contratti a termine sarebbe di gran lunga eccedente i 36 mesi.
Evidenzia che il contenuto del certificato non sarebbe mai stato contestato dall’odierna controricorrente e risulta comunque assistito da pubblica fede ex artt. 2699 e 2700 c.c.
1.3. Con il terzo motivo il ricorso deduce:
in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 2126 c.c.; 115, 329, 115, 394, 352, 277, 383 c.p.c.;
in relazione all’art. 360, n. 4, c.p.c., la nullità della sentenza e del procedimento;
in relazione all’art. 360, n. 5, c.p.c., l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio.
Argomenta, in particolare, il ricorso che la Corte territoriale avrebbe erroneamente rilevato d’ufficio che il rapporto di lavoro, nel periodo successivo all’assunzione a tempo indeterminato, poi oggetto di recesso, non poteva essere computato ai fini del calcolo del superamento del limite dei 36 mesi, rilevando solo ai fini di cui all’art. 2126 c.c.
La ricorrente deduce che in tal modo la decisione avrebbe violato i limiti che caratterizzavano il giudizio di rinvio.
1.4. Con il quarto motivo il ricorso deduce in relazione all’art. 360, nn. 3 e 4, c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 394, 352, 277, 383, nonché dell’art. 111, sesto comma, Cost. in relazione all’art. 132, secondo comma, n. 4), c.p. c.
La ricorrente deduce che la Corte d’appello avrebbe omesso di pronunciarsi sulle domande subordinate che avevano ad oggetto, da un lato, la richiesta di risarcimento del danno ex art. 36, comma 5, D. Lgs. n. 165/2001 per violazione di norme imperative concernenti l’abusiva reiterazione di contratto a tempo determinato e, dall’altro lato, la richiesta di risarcimento del danno ex art. 36, comma 5, D. Lgs.
165/2001 per violazione di norme imperative concernenti la procedura concorsuale preordinata all’assunzione.
1.5. Con il quinto motivo il ricorso deduce, in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 32, comma 5, L. n. 183/2010; 36, comma 5, D. Lgs. n. 165/2001 nonché della clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro RAGIONE_SOCIALE, RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE sul lavoro a tempo determinato, allegato alla direttiva del Consiglio n. 1999/70/CE.
Argomenta, in particolare, il ricorso che la Corte territoriale avrebbe erroneamente escluso il diritto al risarcimento di un danno che, invece, secondo la disciplina eurounitaria, sarebbe presunto.
1.6. Con il sesto motivo il ricorso deduce:
in relazione all’art. 360, nn. 3 e 4, c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 394, 352, 277 e 383 c.p.c.
in relazione all’art. 360, n. 5, c.p.c., l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio.
Argomenta, in particolare, il ricorso che:
-la Corte d’appello avrebbe affermato d’ufficio il difetto di legittimazione passiva della Regione Puglia, laddove il Tribunale di Taranto, nel respingere la domanda di condanna ex art. 1337 c.c. formulata nei confronti di quest’ultima, avrebbe implicitamente affermato la legittimazione passiva della stessa Regione Puglia;
-in tal modo, la Corte territoriale avrebbe violato il principio secondo cui la riassunzione della causa innanzi al giudice di rinvio instaura un processo chiuso, nel quale è preclusa al giudice di rilevare d’ufficio questioni non sollevate nelle precedenti fasi.
1.7. Con il settimo motivo il ricorso deduce:
in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c., la violazione degli artt. 1337 e 1418
in relazione all’art. 360, n. 4, c.p.c., la violazione dell’art. 115 c.p.c.
Argomenta, in particolare, il ricorso che la Corte d’appello avrebbe erroneamente escluso la violazione dei principi della correttezza e buona fede da parte degli enti pubblici resistenti sulla base di quanto previsto dalla clausola di un contratto che tuttavia era stato dichiarato nullo.
2. Il primo motivo è infondato.
Il motivo, in primo luogo, appare non adeguatamente rispettoso del canone di specificità di cui all’art. 366 c.p.c. atteso che si limita al richiamo a due fugaci passaggi della precedente decisione della Corte d’appello , già di per sé inidonei per affermare il formarsi di un giudicato in ordine alla circostanza del superamento del limite di 36 mesi nella reiterazione dei contrati a termine.
Giudicato, il cui formarsi, peraltro, deve essere in ogni caso escluso, alla luce dei principi dettati da questa Corte in materia, in particolare con l’elaborazione della figura della “minima unità suscettibile di acquisire la stabilità del giudicato interno” (Cass. Sez. L – Ordinanza n. 16853 del 26/06/2018; Cass. Sez. 6 – L, Ordinanza n. 24783 del 08/10/2018; Cass. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 12202 del 16/05/2017; Cass. Sez. L, Sentenza n. 2217 del 04/02/2016; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 16583 del 28/09/2012).
L’ applicazione di tali principi al caso in esame vale ad evidenziare che, avendo la prima decisione di appello accolto la domanda di accertamento della illegittimità del recesso -ritenendo quindi assorbiti gli ulteriori profili di cui all’originaria domanda, le censure mosse con il precedente ricorso innanzi a questa Corte erano venute a riaprire la
cognizione sull’inter o complesso delle domande dell’odierna ricorrente , con la conseguenza che nessun giudicato poteva essere ricondotto neppure alla decisione rescindente di questa Corte n. 13884/2016, la quale non si era occupata di un profilo concernente una domanda subordinata, rimasta assorbita.
3. Il secondo motivo è inammissibile.
Questa Corte, con la recentissima decisione Cass. Sez. U – Sentenza n. 5792 del 05/03/2024 ha chiarito che, in tema di valutazione delle prove, mentre il travisamento del contenuto oggettivo della prova – che ricorre in caso di svista concernente il fatto probatorio in sé e non di verifica logica della riconducibilità dell’informazione probatoria al fatto probatorio – trova il suo istituzionale rimedio nell’impugnazione per revocazione per errore di fatto, a condizione che ricorrano i presupposti richiesti dall’art. 395, n. 4), c.p.c., per contro, ove il fatto probatorio abbia costituito un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare – e, cioè, se il travisamento rifletta la lettura del fatto probatorio prospettata da una delle parti – il vizio va fatto valere deducendo l’ipotesi di cui a ll’art. 360, n. 4), o n. 5), c.p.c., a seconda che si tratti di fatto processuale o sostanziale.
Nel caso in esame le deduzioni contenute nel motivo vengono ad evidenziare che ad essere dedotto non è un travisamento che interessa la lettura del fatto probatorio prospettata da una delle parti, bensì una vera e propria svista nella lettura del certificato di servizio, e quindi un errore di fatto che avrebbe dovuto essere fatto valere con il rimedio della revocazione.
4. Il terzo motivo è inammissibile.
In primo luogo, questa Corte ha reiteratamente affermato il principio per cui è inammissibile la mescolanza e la sovrapposizione di mezzi d’impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse
ipotesi contemplate dall’art. 360, comma 1, n. 3 e n. 5, c.p.c., non essendo consentita la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quello della violazione di norme di diritto, che suppone accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della norma, e del vizio di motivazione, che quegli elementi di fatto intende precisamente rimettere in discussione; o quale l’omessa motivazione, che richiede l’assenza di motivazione su un punto decisivo della causa rilevabile d’ufficio, e l’insufficienza della motivazione, che richiede la puntuale e analitica indicazione della sede processuale nella quale il giudice d’appello sarebbe stato sollecitato a pronunciarsi, e la contraddittorietà della motivazione, che richiede la precisa identificazione delle affermazioni, contenute nella sentenza impugnata, che si porrebbero in contraddizione tra loro (Cass. Sez. 1 – Ordinanza n. 26874 del 23/10/2018; Cass. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 7009 del 17/03/2017; Cass. Sez. 1, Sentenza n. 21611 del 20/09/2013; Cass. Sez. 1, Sentenza n. 19443 del 23/09/2011).
In secondo luogo, le ipotesi di cui agli artt. 360, n. 4) e n. 5), c.p.c. vengono invocate in modo del tutto apodittico e senza alcun supporto argomentativo, con diretta violazione del disposto di cui all’art. 366 c.p.c.
Da ultimo, e per mera completezza, parte ricorrente viene ad invocare ancora una volta un vincolo di giudicato in realtà del tutto inesistente -e sul punto valgono le medesime considerazioni in diritto svolte poc’anzi dovendosi invece osservare che il profilo del carattere abusivo della reiterazione dei contratti a termine veniva a costituire uno dei temi sui quali la Corte d’appello era chiamata a pronunciarsi dopo la decisione rescindente di questa Corte n. 13884/2016.
Il quarto ed il quinto motivo possono essere esaminati congiuntamente -in virtù della connessione dei profili con essi sollevati -e sono inammissibili.
I due motivi, infatti, non vengono a confrontarsi con quella che è la ratio della decisione impugnata, la quale non ha omesso di statuire sulle domande risarcitorie né ha escluso in linea di diritto l’esistenza di un diritto al risarcimento nell’ipotesi di abusiva reiterazione di contratti a termine, bensì, nello specifico, ha ritenuto che non fosse stato superato il limite legale di 36 mesi, oltrepassato il quale viene ad integrarsi l’ipotesi di abusiva reiterazione, in tal modo risultando in radice esclus a l’applicazione de ll’art. 32, comma 5, della Legge n. 183/2010, da questa Corte (Cass. Sez. U, Sentenza n. 5072 del 15/03/2016) effettivamente configurato come “danno comunitario” con valenza sanzionatoria ed assistito da presunzione.
Di qui l’inammissibilità del motivo, alla luce del principio più volte enunciato da questa Corte (Cass. Sez. U, Sentenza n. 7931 del 29/03/2013; Cass. Sez. L, Sentenza n. 4293 del 04/03/2016; Cass. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 16314 del 18/06/2019).
6. Il sesto motivo è inammissibile.
Il motivo, invero, risulta ampiamente carente sul piano del rispetto del canone di specificità di cui all’art. 366 c.p.c., atteso che lo stesso si limita al richiamo di un frammento della decisione di prime cure, senza fornire indicazioni adeguatamente specifiche sullo sviluppo del processo, ed omettendo, peraltro, di confrontarsi col dato costituito dal fatto che, al di là della formulazione impiegata in primo ed in secondo grado, la responsabilità della REGIONE PUGLIA è stata comunque esclusa nel merito, alla luce del costante principio di questa Corte per cui, mentre l’eccezione di difetto di legittimatio ad causam -attiva o passiva -investe la titolarità del potere di promuovere o subire un
giudizio in ordine al rapporto sostanziale dedotto, secondo la prospettazione della stessa parte, per contro, il difetto di titolarità attiva o passiva del diritto controverso -quale quella derivante dall’assenza in concreto di una responsabilità – non attiene alla carenza di legittimazione attiva, bensì al merito della controversia (Cass. Sez. 3 – Ordinanza n. 32814 del 27/11/2023; Cass. Sez. 1 – Sentenza n. 7776 del 27/03/2017; Cass. Sez. L, Sentenza n. 17092 del 12/08/2016; Cass. Sez. U, Sentenza n. 2951 del 16/02/2016; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 14177 del 27/06/2011; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 4121 del 01/03/2004).
Il settimo motivo è, parimenti, inammissibile.
Si deve rammentare che il vizio della sentenza previsto dall’art. 360, primo comma, n. 3), c.p.c., dev’essere dedotto, a pena d’inammissibilità del motivo giusta la disposizione dell’art. 366, n. 4), c.p.c., non solo con l’indicazione delle norme che si assumono violate ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intellegibili ed esaurienti, intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornite dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendo alla corte regolatrice di adempiere al suo compito istituzionale di verificare il fondamento della lamentata violazione. (Cass. Sez. 1 – Ordinanza n. 16700 del 05/08/2020; Cass. Sez. 1 – Sentenza n. 24298 del 29/11/2016).
Il ricorrente, quindi, a pena d’inammissibilità della censura, ha l’onere di indicare le norme di legge di cui intende lamentare la violazione, di esaminarne il contenuto precettivo e di raffrontarlo con le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata, che è
tenuto espressamente a richiamare, al fine di dimostrare che queste ultime contrastano col precetto normativo, non potendosi demandare alla Corte il compito di individuare – con una ricerca esplorativa ufficiosa, che trascende le sue funzioni – la norma violata o i punti della sentenza che si pongono in contrasto con essa (Cass. Sez. U – Sentenza n. 23745 del 28/10/2020).
Il motivo di ricorso ora in esame, invece, risulta del tutto generico nei suoi contenuti, limitandosi ad una mera doglianza in ordine dal decisum della Corte territoriale, le cui conclusioni vengono apoditticamente censurate ma non analizzate né argomentatamente criticate.
Il motivo, anzi, omette persino di confrontarsi con gli orientamenti di questa Corte che, da un lato, ha escluso una responsabilità per “illecito costituzionale”, rilevante sul piano risarcitorio, dell’organo governativo che ha presentato il relativo disegno di legge, e dato impulso all’iter parlamentare sfociato nella pubblicazione della norma espunta dall’ordinamento per contrasto con la Costituzione, in quanto, essendo la funzione legislativa espressione di un potere politico, incoercibile e sottratto al sindacato giurisdizionale, rispetto ad esso non possono configurarsi situazioni giuridiche soggettive dei singoli protette dall’ordinamento (Cass. Sez. L – Ordinanza n. 34465 del 24/12/2019; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 23730 del 2016) e, dall’altro lato, ha parimenti escluso una responsabilità del datore di lavoro che abbia conformato la propria condotta ad una previsione di legge poi dichiarata incostituzionale, non potendosi configurare retroattivamente una colpa del soggetto che, anteriormente alla pronuncia di incostituzionalità, abbia conformato il proprio comportamento alle norme dichiarate poi costituzionalmente illegittime, e potendo configurarsi una responsabilità unicamente in relazione al periodo
successivo alla pubblicazione della decisione della Corte costituzionale (Cass. Sez. L – Ordinanza n. 29169 del 13/11/2018; Cass. Sez. L, Sentenza n. 20100 del 07/10/2015; Cass. Sez. L, Sentenza n. 355 del 09/01/2013).
Il ricorso deve quindi essere respinto, con conseguente condanna della ricorrente alla rifusione in favore della controricorrente delle spese del giudizio di legittimità, liquidate direttamente in dispositivo.
Stante il tenore della pronuncia, va dato atto, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02, della “sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto” , spettando all’amministrazione giudiziaria verificare la debenza in concreto del contributo, per la inesistenza di cause originarie o sopravvenute di esenzione dal suo pagamento (Cass. Sez. U, Sentenza n. 4315 del 20/02/2020).
P. Q. M.
La Corte:
rigetta il ricorso;
condanna la ricorrente a rifondere alla controricorrente le spese del giudizio di Cassazione, che liquida in € 4.200,00 , di cui € 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 comma 1quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.
Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale in data 17 aprile