Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 32248 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 32248 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: TRICOMI IRENE
Data pubblicazione: 13/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. R.G. 18575/2023 proposto da : COGNOME rappresentati e difesi dell’avvocato NOME COGNOME presso cui domiciliano PEC :EMAIL
-ricorrenti- contro
CAMERA DI COMMERCIO RAGIONE_SOCIALE DI COSENZA, in persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentata e difesa dal l’avvocato NOME COGNOME presso cui domicilia PEC: EMAIL
-controricorrente-
avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO CATANZARO n. 106/2023 depositata il 07/03/2023, RG 1013/2020.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 08/11/2024 dal Consigliere NOME COGNOME
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
La Corte d’Appello di Catanzaro, con la sentenza n.106 del 2023, pronunciando sull’appello proposto dalla CCIAA di Cosenza, nei confronti anche dei lavoratori in epigrafe, avverso la sentenza emessa tra le parti dal Tribunale di Cosenza, in riforma della sentenza gravata: 1) ha dichiarato la prescrizione dell’azione di ripetizione con riferimento alle somme corrisposte nel decennio anteriore alla data della notifica, ai singoli appellati in epigrafe, della delibera della Giunta camerale n. 61 del 4 luglio 2017; 2) ha rigettato nel resto il ricorso.
I ricorrenti avevano adito il Tribunale di Cosenza affinché fosse accertata l’inesistenza della obbligazione restitutoria nei confronti della CCIAA di Cosenza, datrice di lavoro.
Ciò in quanto la CCIAA aveva comunicato ai propri dipendenti la decisione, assunta dalla Giunta camerale con delibera n. 61 del 2017, di compensare, a decorrere dal 2017, la ripetizione delle somme indebitamente versate loro per il trattamento accessorio con le somme dovute nei prossimi dieci anni, a valere sulle future risorse collettive integrative, che, pertanto, sarebbero state ridotte in misura corrispondente all’indebito.
Indicava l’ammontare e la ragione della pretesa, e che in caso di dimissioni o pensionamenti od altre vicende individuali, le somme sarebbero state trattenute dall’indennità di buonuscita dell’interessato. Tale comunicazione seguiva precedente nota inviata per costituire in mora i lavoratori.
Da rilievi ispettivi (Relazione Ragioniere Generale dello Stato del 14 settembre 2012; nota 2 marzo 2016 del Dipartimento della Ragioneria generale dello S tato) era emerso che dall’anno 2000 in poi l’Ente:
aveva rideterminato erroneamente il Fondo per il trattamento accessorio del Comparto;
aveva erroneamente incrementato la parte stabile del Fondo per il trattamento accessorio del personale del Comparto;
aveva erroneamente inserito delle risorse variabile nel Fondo per il trattamento accessorio del Comparto;
aveva erroneamente inserito le risorse, di cui all’art. 15, comma 2, del CCNL 1° aprile 1999 nel Fondo per il trattamento accessorio del Comparto.
Da qui la decisione di rientrare nella disponibilità delle risorse economiche che nel tempo erano state corrisposte ai propri dipendenti per l’attività lavorativa prestata.
Il Tribunale dichiarava non dovute le restituzioni chieste dalla CCIAA di Cosenza.
La Corte d’Appello ha affermato che:
gravava sui lavoratori dare la prova dell’esistenza del titolo che consente di configurare adempimento datoriale il pagamento delle indennità accessorie di cui è chiesta la restituzione;
l’art. 15, secondo comma del CCNL, invocato in proposito dai ricorrenti, prevedeva un trattamento aggiuntivo che non è correlato allo svolgimento di mansioni aggiuntive rispetto a quelle proprie del profilo di appartenenza, ma è un incentivo per il potenziamento della produttività, dell’ efficienza e d ell’ efficacia dei servizi;
tale trattamento accessorio è subordinato all’avverarsi della condizione che ‘nel bilancio dell’ente sussista la relativa capacità di spesa’;
nella relazione ispettiva del 2012 si contestava all’Ente il mancato espletamento di quella attività di controllo preventivo sull’effettiva disponibilità del bilancio, cui l’art. 15 subordina la messa a disposizione delle risorse;
i lavoratori non avevano assolto al loro onere della prova circa l’esistenza delle condizioni di cui all’art. 15, commi 2 e 3 , del CCNL;
trovavano quindi applicazione i principi enunciati da Cass., n. 11645 del 2021, atteso che nel pubblico impiego il trattamento retributivo accessorio può essere erogato solo in presenza di tutti i requisiti e i presupposti richiesti dalla CCNL e CCD, non potendosi invocare l’art. 2116 , cod. civ., perché risulterebbe violato l’art. 97 Cost.;
l’Ente non aveva documentato l’attivazione di nuovi servizi e processi di riorganizzazione, né i lavoratori avevano allegato e provato a quali nuovi servizi o a quali processi di riorganizzazione fossero stati adibiti, tali da rientrare nell’incremento delle risorse di cui al comma 5 dell’art. 15 , CCNL;
l’azione risultava prescritta con riferimento alle somme corrisposte nel decennio anteriore alla notifica della delibera della giunta camerale n. 61 del 2017.
Per la cassazione della sentenza di appello ricorrono NOME COGNOME e NOME COGNOME prospettando tre motivi di ricorso.
Resiste con controricorso la CCIAA di Cosenza.
Entrambe le parti hanno depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Primo motivo. Violazione e falsa applicazione dell’art. 112, cod. proc. civ., per mancanza di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato e per omessa pronuncia su punti decisivi della controversia; violazione e falsa applicazione dell’art. 111 della Costituzione, in relazione all’art.132, n. 4, cod. proc. civ ( ex art. 360, n. 3 e n. 4, cod. proc. civ.) per omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa punti decisivi della controversia ( ex art. 360, n.3 e n.5, cod. proc. civ.) e per omesso esame di fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione tra le parti (ex art. 360, n.3 e n.5, cod. proc. civ.); dell’art.12 delle preleggi e dei canoni di ermeneutica ex artt. 1362, e segg., cod. civ, in relazione all’art.132, n. 4, cod. proc. civ. (ex art.360 nn.3,4 e 5 cpc).
1.1. Il motivo si articola in più censure.
1.2. In primo luogo, sono prospettate: la mancata pronuncia sulla dedotta inammissibilità dell’appello per la violazione degli artt. 341 e 434, cod. proc. civ.; la mancata pronuncia sulla inammissibilità dell’appello per aver censurato solo una delle due rationes decidendi , quella relativa alla mancanza delle risorse e non quella su profili di responsabilità di coloro che avevano eseguito la spesa.
1.3. Le due censure sono inammissibili perché non è ravvisabile il prospettato vizio di omessa pronuncia sulle indicate eccezioni, atteso che tale vizio si verifica solo allorché risulti del tutto omesso il provvedimento del giudice indispensabile per la soluzione del caso concreto e non ricorre, come nella specie, laddove seppure manchi una specifica argomentazione, la decisione adottata in contrasto con la pretesa fatta valere dalla parte ne comporti il rigetto (v., ex aliis , Cass., n. 12652 del 2020 e n. 2151 del 2021).
Nella specie la Corte d’Appello ha deciso nel merito la controversia, accogliendo l’impugnazione con pronunci a i ncompatibile con l’accoglimento delle dedotte eccezioni.
1.4. Con altro profilo di censura, i ricorrenti deducono che non vi erano proprie competenze procedimentali nell’attribuzione degli incentivi, e che essi erano in buona fede, mentre eventuali azioni di recupero avrebbero dovuto essere proposte nei confronti dei dirigenti.
Infine, assumono che la Corte d’Appello ha errato nel governo dell’onere della prova, non vertendosi in materia di indebito previdenziale. L’onere della prova, trattandosi di indebito oggettivo, cade sul creditore che deve provare l’avvenuto pagamento e la mancanza di una causa che lo giustifichi o ne faccia venir meno la legittimità.
1.5. Le censure sono inammissibili, in quanto non considerano la complessiva ratio decidendi della sentenza di appello che, seppure erronea quanto al richiamo dei principi affermati da questa Corte in tema di indebito previdenziale, è fondata anche sulla valutazione delle risultanze istruttorie e sull’accertamento di fatto, che è conforme ai principi di seguito riportati.
Grava su chi invoca la ripetizione dell’indebito – e cioè su colui il quale si afferma titolare del diritto stesso ed intende farlo valere, ancorché sia convenuto in giudizio e non attore -l ‘ onere di dimostrare non solo l ‘ esecuzione del pagamento, ma anche la mancanza di una causa che lo giustifichi, con l ‘ ulteriore specificazione che tale prova può essere fornita dimostrando l ‘ esistenza di un fatto negativo contrario, o anche mediante presunzioni (si v., Cass. n. 22628 del 2023 e giurisprudenza richiamata).
La Corte d’Appello ha rilevato come la CCIAA avesse provato l’erogazione delle somme e con le note ispettive il carattere indebito delle stesse.
Una volta qualificata l ‘ azione in esame come indebito oggettivo, non può che discenderne, avuto riguardo alla specificità della materia del pubblico impiego, l ‘ applicazione integrale della disciplina dettata dall ‘ art. 2033, cc, tanto in tema di irrilevanza di un’eventuale buona fede dell ‘ accipiens quanto in materia di ripartizione dell ‘ onere della prova, ai sensi dell’art. 2697, cod. civ.
1.6. Come già affermato da questa Corte (Cass., n. 4323 del 2017, cui adde , Cass. n. 22628 del 2023), in materia di impiego pubblico privatizzato, nel caso di domanda di ripetizione dell’indebito proposta da un’Amministrazione nei confronti di un proprio dipendente, in relazione alle somme corrisposte a titolo di retribuzione, qualora risulti accertato che l ‘ erogazione è avvenuta ” sine titulo “, la ripetibilità delle somme non può essere esclusa e x art. 2033, cc, per la buona fede dell'” accipiens “, in quanto questa norma riguarda, sotto il profilo soggettivo, soltanto la restituzione dei frutti e degli interessi, dovendo solo essere assicurato che l ‘ adempimento della prestazione restitutoria avvenga con modalità rispettose dei criteri di buona fede e correttezza.
Va quindi ricordato che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia al risarcimento dei danni in favore di una lavoratrice del pubblico impiego, giudicando lesiva del diritto di proprietà, come garantito dall’art. 1 del Protocollo addizionale n. 1 alla Convenzione, la pretesa della restituzione di emolumenti da lei percepiti in buona fede, ovverosia facendo incolpevole affidamento sulla legittimità dei pagamenti
spontaneamente effettuati dall’ente pubblico (Sentenza Casarin c. Italia, 11.2.2021, r.g. n. 4893/13).
Sollecitata anche da questa Corte, è poi intervenuta la decisione n. 8 del 2023 della Corte costituzionale, che -interrogata sulla legittimità costituzionale dell’art. 2033 c.c., riletto alla luce della giurisprudenza della CEDU -ha escluso che l’azione di ripetizione di indebito, anche se calata nel particolare contesto delle retribuzioni illegittimamente erogate e percepite in buona fede, sia di per sé incompatibile con il dettato costituzionale. La pronuncia della Corte costituzionale menzionata, come già affermato da questa Corte Cass., n. 11659/2024 è nitida nell’escludere che l’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU, nell’esegesi accreditata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, imponga «di generalizzare un diritto alla irripetibilità della prestazione» (punto 12.2.1. del Considerato in diritto).
Il giudice delle Leggi ha evidenziato che l’ordinamento nazionale delinea un quadro di tutele dell’affidamento legittimo sulla spettanza di una prestazione indebita che, se adeguatamente valorizzato, permette di escludere l’illegittimità costituzionale del l’art. 2033 , cod. civ., senza negare -anche in quelle situazioni -il diritto del creditore alla ripetizione dell’indebito.
Il fondamento di tali tutele viene indicato nella clausola generale di cui all’art. 1175 , cod. civ., che vincola il creditore a esercitare la sua pretesa tenendo in debita considerazione la sfera di interessi del debitore, potendo determinare, in relazione alle caratteristiche del caso concreto, la temporanea inesigibilità del credito, totale o parziale, con conseguente dovere del creditore di accordare una rateizzazione del pagamento in restituzione.
1.7. Nel caso qui in esame, la ripetizione è stata chiesta modulandola nel tempo e i ricorrenti nulla risultano avere allegato in merito alle loro condizioni personali e alle modalità
di restituzione dell’indebito stabilite dalla datrice di lavoro, né, quindi, al l’eventuale eccessivo disagio economico da sopportare per fare fronte all’obbligo restitutorio come stabilito dall’Ente.
Né condiziona la ripetizione dell’indebito oggettivo, in ordine alla quale è priva di rilevanza la doglianza relativa alla mancanza di competenze da parte dei lavoratori medesimi nell’assegnazione delle risorse, il diverso piano che esula dal presente giudizio, relativo all’eventuale accertamento di responsabilità amministrativa nell’erogazione delle risorse stesse.
La giurisprudenza di legittimità ha chiarito che l’art. 4, comma 1, del d.l. n. 16 del 2014, convertito dalla legge n. 68 del 2014, non deroga affatto all’art. 2033 c.c., con la conseguenza che la pubblica amministrazione può, nelle ipotesi previste dal comma 1 del medesimo articolo, recuperare direttamente dal dipendente che le abbia percepite le somme indebitamente versate (Cass., n. 17317 del 2024, n. 23419/2023 e n. 17648/2023).
Secondo motivo. Violazione e falsa applicazione dell’art.113 n.1, cod. proc. civ., in relazione all’art.111, n.1 Cost.; dell ‘ art.118 n.1 disp. att., cod. proc. civ., in relazione all’art.132 n.4, cod. proc civ; dell’art.2729, cod. civ. (ai sensi dell’art.360 n.3 e n.4, cod. proc. civ.); dell’art.12 delle preleggi e dei canoni di ermeneutica, ex artt. 1362, e segg., cod. civ, in relazione all’art.132, n. 4, cod. proc. civ. (ai sensi dell’art.360 nn.3,4 e 5 , cod. proc. civ.).
Nella prospettazione del motivo i ricorrenti deducono che la sentenza di appello avrebbe fatto mera e acritica trasposizione nella propria statuizione degli scritti difensivi di parte, a discapito di un autonomo percorso interpretativo, senza considerare gli elementi forniti da essi ricorrenti. Inoltre, la
Corte d’Appello aveva in precedenza deciso in modo opposto altre due cause che vengono richiamate in alcuni passaggi.
2.1. Il motivo è inammissibile. La censura dei ricorrenti avrebbe richiesto, in premessa ed ai fini della ammissibilità, la trascrizione dei passaggi delle difese di parte appellante e quella dei passaggi della sentenza di appello di cui si assume la mera trasposizione acritica. La mancanza, rende il motivo inammissibile in quanto non rispondente alle prescrizioni di cui all’art. 366 , cod. proc. civ.
Quanto alle decisioni della stessa Corte d’Appello favorevoli ai lavoratori, si osserva che la presenza di eventuali orientamenti difformi nella giurisprudenza di merito non costituisce vizio della decisione, spettando al Giudice della nomofilachia, a cui sia devoluta l’impugnazione della decisione d’appello, indicare il corretto percorso interpretativo delle disposizioni che vengono in rilievo. Nella specie, peraltro i ricorrenti si limitano a riportare poche righe delle sentenze di merito che citano, inserendoli nel loro ragionamento difensivo, nella sostanza come argomenti ad adiuvandum .
Terzo motivo. Violazione e falsa applicazione dell’art.97 Cost. (ai sensi dell’art.360 nn. 3 e 5 cpc); violazione e falsa applicazione degli artt. 2, 8, 21, 36, co.5, e 40, co.3, d.lgs. n. 165/2001 (ai sensi dell’art. 360, n. 3 e n. 5, cpc); violazione e falsa applicazione degli artt. 1431, 2033, 2041, 2077 e 2126, cod. civ. (ai sensi dell’art. 360 nn. 3 e 5 cpc); violazione e falsa applicazione dell’art. 15, co. 2 e 5, CCNL 01. 04.1999 (ai sensi dell’art. 360 nn. 3 e 5, cod. proc. civ.).
Nell’esposizione del motivo i lavoratori prospettano la violazione dell’art. 97 Cost ., sia perché non sarebbe desumibile la determinazione degli importi richiesti, sia perché la
responsabilità degli amministratori non può essere posta a carico dei dipendenti.
Infine, osservano la non obbligatorietà della ripetibilità, in quanto l’art. 40 , del d.lgs. n. 165 del 2001, si riferisce alla nullità delle clausole contenute nei contratti integrativi e non alla nullità delle clausole negoziali con cui viene riconosciuto ai singoli dipendenti il diritto a trattamenti aggiuntivi in presenza dei presupposti. Nella specie le clausole della contrattazione integrativa non paleserebbero alcun contrasto. Viene, quindi, richiamata la disciplina in materia di mansioni superiori e l’art. 2126, cod. civ. Il riconoscimento della retribuzione aggiuntiva implica il riconoscimento della prestazione aggiuntiva, di talché vi sarebbe stato indebito arricchimento dell’Amministrazione. Richiamano, quindi, la giurisprudenza di legittimità sul compenso incentivante, ex art. 18 della legge 109 del 1994, e sull’ art. 2126, cod. civ.
3.1. Il motivo è inammissibile in quanto si incentra sulla contrattazione collettiva integrativa, il cui contenuto non è riportato nel ricorso, né la stessa è allegata; inoltre, quanto alla doglianza relativa alla quantificazione degli importi, la censura è generica.
Peraltro, la percezione di emolumenti non dovuti impone all’Amministrazione l’esercizio del diritto-dovere di ripetere le relative somme in applicazione dell’art. 2033, cod. civ.
In tal caso, infatti, l’interesse pubblico è in re ipsa e non richiede neppure specifica motivazione in quanto, a prescindere dal tempo trascorso, l’atto oggetto di recupero produce di per sé un danno per l’Amministrazione, consistente nell’esborso di denaro pubblico senza titolo, ed un vantaggio ingiustificato per il dipendente (cfr., Cass., n. 23419 del 2023, n. 22628 del 2023).
Va inoltre considerato che la fattispecie in esame non è riferibile all’istituto delle mansioni superiori atteso che viene in rilievo il Fondo finalizzato a sostenere le politiche di sviluppo delle risorse umane e ad incentivare la produttività (art. 15, del CCNL 1.4.1999), sulla base delle condizioni stabilite dalla contrattazione decentrata, e dunque incentivi relativi alle mansioni effettivamente già svolte.
Infine, si osserva che con accertamento di fatto adeguatamente motivato e non oggetto di contestazione circostanziata, la Corte d’Appello, ha accertato , da un lato il superamento dei vincoli finanziari e la mancata verifica delle disponibilità delle risorse; dall’altro la manca nza di prova e allegazione sia da parte dell’Ente che dei lavoratori del verificarsi delle condizioni di cui al comma 5 dell’art. 15 del CCNL , che non possono considerarsi in re ipsa come assumono i ricorrenti.
Il ricorso è inammissibile.
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso.
Condanna i ricorrenti al pagamento delle spese di giudizio che liquida in euro 5.000,00 per compensi professionali, euro 200,00 per esborsi, spese generali in misura del 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1bis , dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella adunanza camerale dell’8 novembre