Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 30784 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 30784 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 02/12/2024
Oggetto: ripetizione indebito
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 10448/2019 R.G. proposto da NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME NOME COGNOME, NOME COGNOME NOME COGNOME, NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME in proprio e quale erede di NOME COGNOME, rappresentati e difesi dall’Avv. NOME COGNOME e domiciliati in Roma, presso la Cancelleria della Corte Suprema di Cassazione;
-ricorrenti –
contro
Regione Calabria, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa da ll’ Avv. NOME COGNOME ed elettivamente domiciliata in Roma, INDIRIZZO presso l’Avv. NOME COGNOME ;
-controricorrente –
avverso la sentenza della Corte d’appello di Ca tanzaro n. 1942/2018 pubblicata il 17 gennaio 2019.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 25 ottobre 2024 dal Consigliere NOME COGNOME
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso depositato presso il Tribunale di Catanzaro il 19 ottobre 2012, i ricorrenti in epigrafe indicati hanno premesso che:
con nota circolare del 21 marzo 2012, il Dirigente del settore I del Dipartimento Organizzazione e Personale della Regione Calabria aveva notificato ai dipendenti regionali appartenenti al contingente della Formazione personale, inquadrati nei ruoli della Regione ai sensi delle leggi Regione Calabria n. 8 del 1980 e n. 18 del 1985, il decreto del Dirigente generale del Dipartimento Organizzazione e Personale n. 1995 del 2012 di presa d’atto della delibera della Giunta regionale n. 802 del 2010 e di annullamento in autotutela del Decreto del Dirigente generale del Dipartimento del Personale n. 1504 del 2000, del Decreto del Dirigente del Settore giuridico del Personale n. 2895 del 2000 e del decreto del Dirigente Generale del Dipartimento del Personale n. 7371 del 2001, nonché di recupero delle somme erogate al personale della Formazione personale e, infine, la delibera della Giunta regionale n. 802 del 2010 con cui la Regione aveva annullato la delibera della Giunta regionale n. 3744 del 1998 e tutti gli atti connessi e conseguenti;
la decisione della Giunta regionale n. 802 del 2010 era fondata sui pareri resi dall’Avvocatura regionale in ordine all’indebita erogazione di somme ai dipendenti sulla scorta delle sentenze del Consiglio di Stato che avevano dichiarato l’illegittimità dell’attribuzione al personale della formazione professionale del trattamento economico di cui alla legge regionale n. 9 del 1975 operata dalla delibera consiliare n. 784 del 1979,
definitivamente annullata (la rimozione della delibera di Giunta n. 3744 del 1998 era presupposto necessario per il recupero di quanto indebitamente erogato);
avevano agito dinanzi al TAR Calabria-Catanzaro al fine di ottenere l’annullamento del decreto del Dirigente generale del Dipartimento Organizzazione e Personale n. 1995 del 2012, della Delibera della Giunta regionale n. 802 del 2010, compresi i correlati pareri;
il TAR adito aveva dichiarato la giurisdizione del giudice ordinario con sentenza n. 779 del 2012;
gli atti impugnati erano inammissibili in quanto i rapporti tra i singoli ricorrenti e la Regione Calabria erano stati regolati con separati accordi transattivi;
in particolare, le somme richieste erano state pagate in esecuzione di tali accordi, che erano sottratti ai poteri di autotutela.
Essi hanno chiesto che fosse dichiarata l’illegittimità e l’infondatezza della pretesa creditoria della Regione Calabria di ripetizione delle somme erogate, che fosse riconosciuto il loro diritto alla corresponsione delle competenze arretrate liquidate, che fosse dichiarata la prescrizione della pretesa della Regione Calabria e che fosse accertato il loro diritto al pagamento del restante 50% delle differenze retributive spettanti, oltre interessi legali.
Il Tribunale di Catanzaro, nel contraddittorio delle parti, con sentenza n. 601 del 2017, ha rigettato il ricorso.
I lavoratori come in epigrafe indicati hanno proposto appello che la Corte d’appello di Catanzaro, nel contraddittorio delle parti, con sentenza n. 1942 del 2018.
I lavoratori in epigrafe indicati hanno proposto ricorso per cassazione sulla base di sette motivi.
La Regione Calabria ha resistito con controricorso e ha depositato memorie.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Preliminarmente, va respinta l’eccezione di inammissibilità della procura dei ricorrenti proposta dalla Regione Calabria, la quale contesta che detta procura sia stata costituita tramite due atti separati anziché con un unico atto o tanti atti quanti sono i ricorrenti.
Al riguardo, si osserva che l’art. 83, comma 3, c.p.c. non impone che in presenza di più parti sia allegata una sola procura o tante procure quante sono le parti, ma richiede solo che la procura, ‘anche se rilasciata su foglio separato’ sia congiunta materialmente all’atto cui si riferisce, circostanza che, nella specie, ricorre.
Del tutto irrilevante è, quindi, che i tredici ricorrenti (o quattordici, se si considera NOME COGNOME presente in proprio e quale erede di NOME COGNOME) abbiano conferito le loro procure al difensore con due e non con tredici (o quattordici) atti separati o con un unico documento.
Deve essere ricostruita, quindi, nei limiti del possibile, la vicenda in esame, almeno per come prospettata dai ricorrenti e come desumibile dalla sentenza impugnata.
La lite concerne il personale assunto dalla Regione Calabria dal 1973 per attendere alle attività dei Corsi di Formazione professionale, curati direttamente dalla stessa P.A., con rapporti di lavoro a tempo determinato, poi trasformati in rapporti a tempo indeterminato.
A detto personale erano stati applicati, in origine, i contratti SILAP, che avrebbero previsto, da un certo momento in poi, un trattamento economico superiore a quello dei dipendenti regionali.
In seguito, in virtù delle leggi regionali n. 8 del 1980 e n. 18 del 1985, i lavoratori in questione erano stati inquadrati nei ruoli regionali con dei concorsi riservati, con effetto, in relazione alle singole posizioni dei dipendenti, dal 1° luglio 1981, dal 16 giugno 1986 e dall’8 agosto 1986.
Nel frattempo, con deliberazioni del Consiglio regionale n. 784 e n. 785 del 16 novembre 1979, la Regione Calabria aveva stabilito di applicare al detto personale il trattamento economico dei dipendenti regionali di ruolo previsto dalle tabelle annesse alla legge regionale n. 9 del 1975 e successive modificazioni, applicando il parametro delle rispettive fasce funzionali, oltre a tutte le indennità e gli scatti previsti dalle leggi vigenti.
Tali delibere erano state menzionate nel verbale di seduta di Giunta regionale del 20 febbraio 1995, concernente la loro applicazione, in esecuzione della sentenza TAR n. 352 del 1992.
La Commissione regionale di controllo sugli atti della Regione aveva annullato le delibere citate, ma il TAR Calabria, con sentenza n. 181 del 1984, aveva rimosso tale annullamento.
La Regione Calabria aveva provveduto, tra il 1986 e il 1988, alle relative prese d’atto attraverso singole deliberazioni di Giunta regionale adottate in favore di ogni dipendente, ma, nelle schede di calcolo allegate a ciascuna delibera, avrebbe applicato il trattamento economico stabilito dalla legge Regione Calabria n. 15 del 1980 e non quello indicato dalla legge n. 9 del 1975, senza considerare gli scatti, le classi e ogni altro istituto maturato anteriormente al 1° ottobre 1978, ai fini del riequilibrio di anzianità previsto dalla legge Regione Calabria n. 49 del 1984.
Per risolvere la questione era stato costituito un apposito gruppo di lavoro, con delibera n. 5804 del 1994, revocata e seguita dalla deliberazione n. 781 del 1995, con la quale la Giunta regionale aveva dato mandato all’Assessore al Personale di predisporre quanto necessario per applicare le delibere n. 784 e n. 785 del 1979.
Nel 1998, la Giunta regionale aveva adottato la deliberazione n. 3744, a seguito della quale erano state elaborate le schede contabili per determinare le competenze di ciascun dipendente interessato.
Il 12 aprile 2000 il Dirigente generale aveva adottato il decreto n. 1504, con allegato elenco del personale avente titolo alla liquidazione delle somme arretrate.
Dopo un primo pagamento di sei dipendenti, con interessi e rivalutazione, la Regione Calabria nei mesi di luglio e agosto 2001 aveva liquidato in favore di 515 dipendenti il 50% della somma capitale, quale primo acconto, previa sottoscrizione di apposito atto transattivo, predisposto dalla Regione con decreto n. 7371 del 25 luglio 2001, con il quale i dipendenti avrebbero dovuto accettare il pagamento della sola sorte capitale, con rinuncia a ogni contenzioso in atto e agli interessi e alla rivalutazione e ogni altro onere.
A distanza di dodici anni, la Regione Calabria aveva comunicato l’annullamento in autotutela, con delibera di G.R. n. 802 del 2010, della delibera n. 3744 del 1998 e di tutti gli atti connessi e conseguenti.
Dalla motivazione della sentenza di primo grado, emerge che il Consiglio di Stato, con le sentenze n. 342 e n. 343 del 2006, aveva stabilito che il trattamento economico stabilito dalle tabelle annesse alla legge Regione Calabria n. 9 del 1975 era applicabile al solo personale già inquadrato nei ruoli della Regione e non anche a quello trasferito alla stessa Regione che aveva mantenuto lo stato giuridico ed economico acquisito presso l’ente di provenienza e aveva beneficiato del trattamento economico regionale solo dopo l’avvenuta esecutività del provvedimento di inquadramento.
Con il primo motivo i ricorrenti lamentano la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c. in quanto NOME COGNOME sarebbe stata indicata come parte presente quale erede di NOME COGNOME e non anche in proprio, essendo essa pure dipendente della Regione Calabria.
La doglianza è inammissibile.
L’omessa indicazione, nell’intestazione della sentenza, del nome di una delle parti determina la nullità della sentenza stessa solo in quanto riveli che il contraddittorio non si è regolarmente costituito a norma dell’art. 101 c.p.c., o generi incertezza circa i soggetti ai quali la decisione si riferisce, e non anche se dal contesto della sentenza risulti con sufficiente chiarezza la loro identificazione, dovendosi, in tal caso, considerare l’omissione come un mero errore materiale, che può essere corretto con la procedura prevista dagli artt. 287 e 288 c.p.c. (Cass., Sez. 2, n. 5660 del 20 marzo 2015).
Nella specie, il nome di NOME COGNOME compare solo come erede di NOME COGNOME e non quale parte presente in proprio, ma, oltre al fatto che la sua linea difensiva e posizione processuale non mutavano in base a tale circostanza, con la conseguenza che il suo gravame è stato in concreto esaminato da ogni punto di vista, deve evidenziarsi che la sua presenza era stata indicata in maniera corretta nel ricorso introduttivo di primo grado e nella sentenza del Tribunale di Catanzaro (come affermato a pag. 7 del ricorso) e che la decisione di appello ha riportato i passaggi della sentenza di prime cure in cui si indicavano espressamente ‘i ricorrenti come indicati in epigrafe’ e ‘i ricorrenti’, così rendendo palese che il giudizio di appello ha riguardato NOME COGNOME come erede e in proprio.
Ricorre, quindi, un errore materiale e non una nullità della sentenza impugnata.
Con il secondo motivo i ricorrenti contestano la violazione dell’art. 1965 c.c. e l’omesso esame di un fatto decisivo in quanto la corte territoriale avrebbe errato nel ritenere che l’istituto della transazione non potesse servire a prevenire una lite non ancora sorta fra le parti.
Inoltre, il giudice di appello avrebbe omesso di esaminare la documentazione prodotta e gli atti transattivi predisposti dalla P.A.
Al riguardo, si osserva che la natura transattiva di un accordo stipulato tra datore di lavoro e lavoratore può essere esclusa quando, oltre al dato formale della mancata esplicitazione dei presupposti del negozio transattivo, sia riscontrabile, sulla base di una complessiva valutazione del medesimo, nonché della condotta tenuta dalle parti, una carenza assoluta degli elementi tipici del negozio stesso, quali la res litigiosa , le reciproche concessioni e la volontà di porre fine a una lite (Cass., Sez. L, n. 20590 del 30 agosto 2017).
In particolare, dalla scrittura contenente la transazione devono risultare gli elementi essenziali del negozio, e quindi, la comune volontà delle parti di comporre una controversia in atto o prevista, la res dubia , vale a dire la materia oggetto delle contrastanti pretese giuridiche delle parti, nonché il nuovo regolamento di interessi, che, mediante le reciproche concessioni, viene a sostituirsi a quello precedente cui si riconnetteva la lite o il pericolo di lite (Cass., Sez. 2, n. 8917 del 4 maggio 2016).
L’accertamento della natura transattiva, o meno, di un negozio è rimesso all’apprezzamento di fatto del giudice di merito ed è sottratto al sindacato di legittimità, salvo che la motivazione non consenta la ricostruzione dell’ iter logico seguito dal giudice per giungere ad attribuire al negozio un determinato significato oppure nel caso di violazione delle norme di ermeneutica ex art. 1362 c.c., ovvero se la relativa decisione non sia sorretta da una motivazione congrua, logica e completa (Cass., Sez. L, n. 17817 del 7 settembre 2005).
Nella specie, la corte territoriale, pur sostenendo, erroneamente, che, in assenza di un contenzioso già in atto, non si avrebbe un’ipotesi di res litigiosa (atteso che la transazione può mirare pure a prevenire una lite: Cass., Sez. 2, n. 8917 del 4 maggio 2016 ) ha affermato, innanzitutto, che ‘dai documenti menzionati dall’appellante al punto 4 di pag. 6, non risultano le reciproche concessioni’.
I ricorrenti non hanno contestato, ai sensi degli artt. 1362 ss. c.c., questa statuizione della Corte d’appello di Catanzaro, né hanno riportato nell’atto di impugnazione, come imporrebbe l’art. 366, n. 6, c.p.c., il contenuto dei sopra citati documenti, al fine di consentire a questo Collegio di valutare se la motivazione della sentenza gravata fosse del tutto sganciata dalle risultanze di causa, ma hanno solo trascritto una parte del loro appello nel quale si evidenzia, peraltro, che l’atto che i lavoratori avrebbero sottoscritto (asseritamente predisposto dalla Regione e contenente la quietanza e la rinuncia alle controversie in atto e a ogni altra pretesa economica fondata sul medesimo titolo nonché la ‘cedola’ in calce alla scheda di ricognizione della somma dovuta) non sarebbe stato neppure nella loro disponibilità.
Essi sostengono che, comunque, nell’atto redatto dalla Regione Calabria con decreto dirigenziale n. 7371 del 2001 sarebbe stata prevista una dilazione di pagamento, la quale avrebbe costituito ulteriore rinuncia idonea a qualificare la natura transattiva dell’accordo, e che anche la rinuncia a una parte dell’azione proposta ‘in via gerarchica o giurisdizionale, era rilevante per la sussistenza del requisito delle reciproche concessioni’.
I ricorrenti, però, non ne hanno trascritto, neppure in parte, il contenuto, e non hanno chiarito in che termini da questo atto fosse ricavabile la chiara volontà di entrambe le parti di transigere sui propri diritti.
In ogni caso, questo Collegio non può sostituirsi, sic et simpliciter , ai giudici del merito nella valutazione del contenuto di documenti scritti.
Con il terzo motivo i ricorrenti contestano la violazione della Direttiva 1999/70/CE, dell’Accordo -quadro CES, CEEP e UNICE e della carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori, dell’art. 5 del d.lgs. n. 59 del 2008, conv. dalla legge n. 101 del 2008, e dell’art. 117 Cost. in quanto la corte territoriale avrebbe
errato nel considerare non applicabile, nella specie, la direttiva in questione solo perché attinente a un servizio reso prima della sua entrata in vigore, senza valutare che l’accordo transattivo e il riconoscimento degli importi dovuti risalivano a una data successiva, con la conseguenza che sarebbe stato illegittimo il tentativo della Regione Calabria di sottrarsi ai suoi obblighi.
La doglianza è inammissibile.
Innanzitutto, non risulta, dal ricorso e dalla sentenza, che sia stata proposta davanti al Tribunale di Catanzaro.
Inoltre, essa si fonda sul presupposto che siano intervenuti validi accordi transattivi fra i ricorrenti e la Regione Calabria (cfr. il punto 9 del motivo di ricorso a pagina 17 dello stesso).
Ne deriva che l ‘avvenuto definitivo accertamento dell’insussistenza di detti accordi comporta, inevitabilmente, anche l’inammissibilità di tale censura.
In aggiunta a ciò, si osserva che, in effetti, la clausola 4 dell’Accordo quadro sul rapporto a tempo determinato, recepito dalla direttiva 99/70/CE, di diretta applicazione, impone al datore di lavoro pubblico di riconoscere, ai fini della progressione stipendiale e degli sviluppi di carriera successivi al 10 luglio 2001, l’anzianità di servizio maturata sulla base di contratti a tempo determinato, nella medesima misura prevista per il dipendente assunto ab origine a tempo indeterminato, fatta salva la ricorrenza di ragioni oggettive che giustifichino la diversità di trattamento; tale principio è applicabile anche nell’ipotesi in cui il rapporto a termine sia anteriore all’entrata in vigore della direttiva perché, in assenza di espressa deroga, il diritto dell’Unione si applica agli effetti futuri delle situazioni sorte nella vigenza della precedente disciplina (Cass., Sez. L, n. 15231 del 16 luglio 2020).
Occorre, considerare, però, che il diritto alla parità di trattamento può essere fatto valere, facendo leva su contratti stipulati in data antecedente l’entrata in vigore della direttiva, per ottenere la parificazione in ordine ad un trattamento spettante in data
successiva. Ciò perché «secondo una giurisprudenza costante, una nuova norma si applica, salvo deroghe, immediatamente agli effetti futuri delle situazioni sorte sotto l’impero della vecchia legge (v., in tal senso, in particolare, sentenze 14 aprile 1970, causa 68/69, Brock, Racc. pag. 171, punto 7; 10 luglio 1986, causa 270/84, Licata/CES, Racc. pag. 2305, punto 31; 18 aprile 2002, causa C290/00, Duchon, Racc. pag. 1-3567, punto 21; 11 dicembre 2008, causa C-334/07 P, Commissione/Freistaat Sachsen, Racc. pag. I9465, punto 43, nonché 22 dicembre 2008, causa C-443/07 P, COGNOME Mediavilla e a./Commissione, Racc. pag. 1-10945, punto 61)» (Corte di Giustizia 10.6.2010 in cause riunite c-395/08 e c396/08, INPS, punto 53; negli stessi termini Corte di Giustizia 12.9.2013 in causa c- 614/11, Kuso).
Nessuna espressa deroga a detto principio, proprio dell’ordinamento eurounitario, è contenuta nella clausola 4 dell’accordo quadro allegato alla direttiva 99/10/CE.
Nella specie, però, come accertato dalla corte territoriale, la lite concerne somme asseritamente dovute per il servizio pre-ruolo prestato tra il 1978 e il 1986 e, quindi, non interessa l’epoca posteriore all’entrata in vigore della normativa asseritamente violata.
Sul punto, può richiamarsi la recente sentenza della CGUE del 19 settembre 2024, nella causa C-439/23, KV contro CNR, secondo cui la lesione della parità di trattamento può essere lamentata solo se i contratti a termine vengano fatti valere in relazione ad un diritto maturato dopo l’entrata in vigore della direttiva in questione.
Infatti, la CGUE ha affermato il principio per il quale ‘La clausola 4, punti 1 e 4, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999, allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, deve essere interpretata nel senso che: essa osta a che l’anzianità di servizio maturata da un lavoratore in forza di contratti di lavoro a tempo
determinato eseguiti integralmente o parzialmente prima della data di scadenza del termine di recepimento di tale direttiva non sia presa in considerazione ai fini del calcolo della retribuzione di tale lavoratore al momento della sua assunzione a tempo indeterminato successivamente a tale data, a meno che tale esclusione non sia giustificata da ragioni oggettive’.
Del tutto non chiarito è, poi, il profilo della violazione dell’art. 5 del d.l. n. 59 del 2008, conv. dalla legge n. 101 del 2008, che contiene
6) Con il quarto motivo i ricorrenti contestano la nullità della sentenza e del procedimento per illogicità e contraddittorietà e la violazione degli artt. 132 c.p.c., 2909 c.c., 2 e 117 Cost. e 1 Protocollo 1 CEDU in quanto la delibera n. 802/2010 di annullamento in autotutela della delibera di G.R. n. 3744/1998 era illegittima, essendo stata adottata con riferimento a situazioni giuridiche ormai consolidate, era stata assunta in violazione dell’art. 2909 c.c., avendo posto a fondamento della delibera contestata la sentenza del Consiglio di Stato n. 1788/2003, ed era lesiva del loro legittimo affidamento.
Inoltre, essi sostengono di avere contestato la debenza delle somme richieste.
La doglianza è inammissibile, risultando che la Corte d’appello di Catanzaro ha motivato la sua decisione in maniera non apparente alle pagine da 13 a 17, ancorché debba essere corretta l’affermazione con la quale il giudice di secondo grado ha reputato applicabile le regole in tema di indebito previdenziale, dovendo trovare spazio, piuttosto, in astratto, il principio per il quale ‘in tema di ripetizione di indebito oggettivo, la prova dell’inesistenza della causa debendi (nella specie, relativa al pagamento al lavoratore di compensi non pattuiti) incombe sulla parte che propone la domanda,
trattandosi di elemento costitutivo della stessa ancorché abbia ad oggetto fatti negativi, dei quali può essere data prova mediante dimostrazione di uno specifico fatto positivo contrario o anche mediante presunzioni da cui desumersi il fatto negativo’ (Cass., Sez. L, n. 22628 del 26 luglio 2023; Cass., Sez. L, n. 22872 del 10 novembre 2010).
Il richiamo al principio del legittimo affidamento e alla presenza di situazioni consolidate non può, poi, condurre a fondare un diritto dei ricorrenti a trattenere somme che, secondo l’accertamento di merito delle corti di primo e secondo grado, sono state indebitamente ricevute.
In particolare, la sentenza di appello precisa, a pagina 15, che, ‘sul punto, gli odierni appellanti non contestano alcunché, per cui è da ritenere pacifica la circostanza della dovutezza della somme richieste’. In risposta, i ricorrenti non hanno riportato, nell’atto di impugnazione, le eccezioni che avrebbero sollevato in primo e in secondo grado, al riguardo, per sostenere, al contrario, che detti importi non avrebbero dovuto essere resi, la loro difesa essendosi fondata, essenzialmente, sull’esistenza d elle transazioni sopramenzionate e sulla violazione del principio di non discriminazione fra dipendente a termine e lavoratore a tempo indeterminato.
Quanto all’illegittimità dell’annullamento della delibera di G.R. n. 3744/1998, non vi sono, nel ricorso, elementi che consentano di ritenerla disapplicabile, alla luce del mancato accoglimento dei precedenti motivi e dell’omessa indicazione, ad opera dei ricorrenti, del contenuto rilevante dei documenti che a questo esito dovrebbero condurre, in quanto dimostrativi della sua invalidità, come richiesto, invece, dall’art. 366, n. 6, c.p.c .
Al contrario, dalla sentenza impugnata, nella parte in cui riporta la motivazione della decisione di primo grado, emerge l ‘affermazione , non contestata dai ricorrenti, che la delibera del Consiglio Regionale n. 784 del 1979 (che costituiva, assieme a quella
n. 785 del 1979, il fondamento del diritto vantato dai dipendenti de quibus ) era stata definitivamente annullata dalle sentenze del Consiglio di Stato n. 342 e n. 343 del 2006.
Nessun peso è possibile dare, infine, alla doglianza inerente la violazione dell’art. 2909 c.c., attesa la sua palese genericità.
7) Con il quinto motivo i ricorrenti contestano la violazione degli artt. 1988 c.c. e 2697 c.c. in quanto la corte territoriale avrebbe errato nel porre a loro carico l’onere di dimostrare il loro diritto a trattenere le somme delle quali la Regione Calabria pretendeva la restituzione, atteso che, avendo detta Regione riconosciuto il suo debito alla pagina 3 della memoria di I grado, gravava sulla medesima P.A. l’onere della prova.
La censura è inammissibile.
Al riguardo, si osserva che la ricognizione di debito ha natura di negozio unilaterale recettizio, sicché il suo effetto si verifica solo se la dichiarazione sia indirizzata alla persona del creditore; non ha, pertanto, tale valenza l’atto interno dell’organo di una P.A. non investit o della rappresentanza legale dell’ente (Cass., Sez. 1, n. 24710 del 4 dicembre 2015) .
Nella specie, dal testo della doglianza non è dato evincere chi e quando avrebbe reso tale dichiarazione e se avesse il menzionato potere rappresentativo, anche perché il contenuto della memoria de qua non è stato riportato, quantomeno per la parte rilevante.
Peraltro, come affermato dalla Corte d’appello di Catanzaro, l’eventuale riconoscimento sarebbe stato pure revocato.
In ogni caso, si osserva che il giudice di secondo grado ha rilevato l’insussistenza del diritto dei lavoratori a trattenere gli emolumenti stipendiali oggetto del contendere, con la conseguenza che l’eventuale inversione dell’onere della prova prospettata dai ricorrenti non assumerebbe rilievo.
In particolare, dalla sentenza impugnata, nella parte in cui riporta la motivazione della decisione di primo grado, emerge
l’affermazione, non contestata dai ricorrenti, che la delibera del Consiglio Regionale n. 784 del 1979 (che costituiva, assieme a quella n. 785 del 1979, il fondamento del diritto vantato dai dipendenti de quibus ) era stata definitivamente annullata dalle sentenze del Consiglio di Stato n. 342 e n. 343 del 2006.
Trova allora applicazione il principio per il quale la ricognizione di debito non costituisce autonoma fonte di obbligazione, ma ha solo effetto confermativo di un preesistente rapporto fondamentale, determinando, ex art. 1988 c.c. un’astrazione meramente processuale della causa debendi , da cui deriva una semplice relevatio ab onere probandi che dispensa il destinatario della dichiarazione dall’onere di provare quel rapporto, che si presume fino a prova contraria, ma dalla cui esistenza o validità non può prescindersi sotto il profilo sostanziale, venendo, così, meno ogni effetto vincolante della ricognizione stessa ove rimanga giudizialmente provato che il rapporto suddetto non è mai sorto, o è invalido, o si è estinto, ovvero che esista una condizione o un altro elemento ad esso attinente che possa comunque incidere sull’obbligazione derivante dal riconoscimento ( Cass., Sez. 1, n. 20689 del 13 ottobre 2016).
Ne discende, quindi, che pur a fronte di un eventuale atto di ricognizione di debito proveniente dal datore di lavoro pubblico, il giudice ha il potere/dovere di verificare se all’adempimento dell’obbligazione assunta il datore sia tenuto in relazione a quanto stabilito dalla contrattazione collettiva e dalla legge.
Con il sesto motivo i ricorrenti lamentano la violazione degli artt. 2934, 2935, 2940 e 2946 perché la corte territoriale avrebbe errato nel ritenere interrotto dalla Regione Calabria il termine di prescrizione, non essendo idonea a tale fine la delibera n. 802 del 2010 della Giunta regionale, e in quanto non sarebbe stato vero che ‘il pagamento sarebbe iniziato con l’esercizio finanziario’, essendo esso avvenuto nel luglio – agosto 2001.
Inoltre, evidenziano che, ai sensi dell’art. 2940 c.c., non è ammessa la ripetizione di ciò che è stato spontaneamente pagato in adempimento di un debito prescritto.
La doglianza è inammissibile, avendo la Corte d’appello di Catanzaro accertato in fatto che il pagamento era iniziato con l’esercizio finanziario 2002 e che la delibera di annullamento n. 802 del 2010 della Giunta Regionale era avvenuta nel decennio.
La verifica nel merito della circostanza del momento di inizio del pagamento non può essere contestata, come tale, in sede di legittimità, mentre la critica del l’idoneità della delibera citata a interrompere la prescrizione (ritenuta dalla corte territoriale) è generica, non essendone riportato il contenuto, almeno nella parte rilevante.
Privo di pregio è il riferimento all’art. 2940 c.c., non venendo in questione il pagamento di un debito prescritto a opera della Regione Calabria.
Con il settimo motivo i ricorrenti lamentano la violazione dell’art. 24 Cost., degli artt. 6 e 8 Convenzione EDU, 1 Protocollo 1 CEDU e 59 della legge n. 69 del 2009 in quanto la corte territoriale avrebbe errato nel ritenere infondati i motivi uno e otto di appello concernenti la proposizione di eventuali domande nuove.
Prospettano ancora la violazione di un diritto già acquisito al loro patrimonio e del loro legittimo affidamento e l’illegittima modifica, con efficacia retroattiva, dei loro consolidati diritti.
La censura è inammissibile, non avendo i ricorrenti indicato quali domande nuove sarebbero state da loro proposte, ad eccezione di quella concernente la quantificazione delle somme loro spettanti, che, però, è stata reputata inammissibile per la sua genericità.
Quanto alle ulteriori doglianze di cui sopra, si evidenzia che la stessa Corte costituzionale, con la sentenza n. 8 del 2023, ha negato che possa escludersi il diritto della P.A. a chiedere indietro le somme
indebitamente versate solo per ragioni collegate al legittimo affidamento del debitore.
10) Il ricorso è dichiarato inammissibile.
Le spese di lite seguono la soccombenza ex art. 91 c.p.c. e sono liquidate come in dispositivo.
Si attesta che sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso principale (d.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater), se dovuto.
P.Q.M.
La Corte,
dichiara inammissibile il ricorso;
condanna i ricorrenti a rifondere le spese di lite, che liquida in complessivi € 7.000,00 per compenso professionale ed € 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge e spese generali nella misura del 15%;
-attesta che sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso principale, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della IV Sezione