Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 5208 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 3 Num. 5208 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 27/02/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 4628/2022 R.G. proposto da:
COGNOME e COGNOME NOME, rappresentati e difesi dall’avvocato COGNOME già elettivamente domiciliati presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME ed attualmente domiciliati per legge presso l’indirizzo di posta elettronica certificata di entrambi i suddetti legali;
-ricorrente-
contro
COGNOME NOMECOGNOME rappresentato e difeso dall’avvocato COGNOME presso l’indirizzo di posta elettronica certificata del quale è domiciliato per legge;
-resistente- avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di BARI n. 1893/2021 depositata il 02/11/2021;
udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 19/02/2025 dal Consigliere COGNOME
FATTI DI CAUSA
1. Nel 2015 i coniugi NOME COGNOME e NOME COGNOME convenivano in giudizio dinanzi al Tribunale di Bari NOME COGNOME per sentire dichiarare quest’ultimo tenuto (e, quindi, condannarlo), ai sensi e per gli effetti dell’art. 2033 del codice civile, alla restituzione, in loro favore, della somma di € 26.000,00 derivante dall’indebito incasso da parte del convenuto di quattro assegni oltre agli interessi legali ed al danno da svalutazione monetaria dal giorno dell’incasso sino al saldo effettivo, con vittoria delle spese processuali da distrarsi a favore dei procuratori anticipatari.
A sostegno della domanda allegavano che: a) avevano acquistato dalla RAGIONE_SOCIALE – con atto pubblico di compravendita del 15.06.2005 – un immobile sito in Grumo Appula (di cui indicavano i dati catastali), costruito in regime di edilizia convenzionata, per il prezzo dichiarato di € 65.000,00 superiore a quello stabilito convenzionalmente nell’atto d’obbligo sottoscritto a seguito della convenzione di lottizzazione dalla società costruttrice e venditrice, con la conseguenza che quell’atto era nullo per la differenza di prezzo; b) per il pagamento del prezzo avevano stipulato un contratto di mutuo fondiario con la Banca Carime S.p.a. per l’importo di € 105.000,00, superiore a quello che avrebbero potuto chiedere ove il prezzo fosse stato quello stabilito nell’atto d’obbligo; c) per il pagamento del prezzo stabilito nell’atto definitivo di compravendita avevano conferito alla Banca Carime s.p.a. mandato irrevocabile di provvedere all’erogazione della somma di € 67.600,00 sul c/c intestato alla “RAGIONE_SOCIALE“; d) NOME COGNOME – al momento della stipula dell’atto pubblico di compravendita del 15.06.2005- aveva consegnato a tale NOME COGNOME in qualità di procuratore speciale della società RAGIONE_SOCIALE, quattro assegni bancari dell’importo complessivo di €. 26.000,00, ciascuno dei quali di € 6.500,00 intestati “a me medesimo”, tratti sul c/c 6026/1 027 4 e girati dallo stesso COGNOME NOME, a saldo del prezzo della vendita convenuto tra le parti con il
preliminare di compravendita di immobile del 9.02.2005 (€ 95.000,00); e) avevano proposto ricorso ex art. 702 c.p.c. per ottenere dalla RAGIONE_SOCIALE la restituzione del prezzo asseritamente versato in eccedenza rispetto a quello derivante dall’applicazione dell’atto d’obbligo e per ottenere il risarcimento dei danni derivanti dal maggior onere sostenuto per la richiesta ed il pagamento del mutuo per una somma maggiore rispetto a quella che avrebbero potuto richiedere ave fosse stato stabilito il prezzo secondo le indicazioni dell’atto d’obbligo; f) la RAGIONE_SOCIALE, costituendosi in quel giudizio, aveva negato di aver ricevuto la somma portata dagli assegni che essi coniugi COGNOME avevano dichiarato essere stati versati per il pagamento del prezzo dell’acquisto; g) il citato COGNOME aveva consegnato i quattro assegni bancari nelle mani di NOME COGNOME il quale li aveva presentati per l’incasso presso la Banca Carime S.p.a., filiale di Grumo Appula; g) NOME COGNOME (che era fratello di NOME, nominato con atto dell’11.10.2010 procuratore della RAGIONE_SOCIALE), richiesto di riferire a quale titolo avesse incassato gli assegni, aveva dichiarato di non ricordare a distanza di ben dieci anni a quale titolo avesse ricevuto gli assegni bancari; h) pertanto, doveva ritenersi che NOME COGNOME avesse incassato indebitamente le somme portate dagli assegni e non aveva inteso provvedere alla restituzione.
Costituitosi in giudizio, l’COGNOME:
a) eccepiva preliminarmente il proprio difetto di legittimazione passiva, tenuto conto che gli stessi attori assumevano che gli assegni erano stati consegnati al COGNOME, nella qualità di procuratore speciale della RAGIONE_SOCIALE, a saldo del prezzo della vendita, sicché destinatario del pagamento rimaneva detta società alienante e non esso convenuto, il quale era divenuto legittimamente possessore degli assegni bancari circolanti quali titoli al portatore (essendo stata apposta una girata in bianco dal COGNOME) ignorando le situazioni
relative ai precedenti possessori ed essendo completamente estraneo al rapporto intervenuto fra gli acquirenti coniugi RAGIONE_SOCIALE e la società RAGIONE_SOCIALE
b) sempre preliminarmente, eccepiva la litispendenza tra la presente causa di ripetizione di indebito e quella pendente dinanzi al Tribunale di Bari articolazione di Modugno (iscritta al n. 734/2013 R.G.), promossa dagli stessi attori contro la RAGIONE_SOCIALE ed avente ad oggetto “restituzione di somme non dovute perché versate in più rispetto al prezzo di vendita”, con la conseguenza che, in tesi difensiva, il giudizio – in quanto successivamente instaurato andava cancellato dal ruolo;
c) nel merito, infine, contestava la fondatezza della domanda attorea, della quale chiedeva il rigetto, con il rimborso delle spese processuali.
Il Tribunale di Bari – dopo aver emesso ordinanza del 5.12.2017, con la quale riteneva insussistente la litispendenza e rigettava le richieste di prova orale articolate dalla parte attrice – con sentenza n. 2957/2018, emessa in data 10.07.2018 ai sensi dell’art. 281 sexies c.p.c., rigettava la domanda e condannava gli attori, in solido tra loro, al pagamento delle spese processuali in favore del convenuto.
Avverso la sentenza del giudice di primo grado proponevano appello i coniugi COGNOME invocando – in riforma dell’impugnata decisione, previa sospensione della sua esecutività provvisoria -l’accoglimento della domanda di ripetizione di indebito proposta in primo grado, con vittoria di spese e compenso del doppio grado di giudizio, da distrarre in favore del loro procuratore anticipatario.
L’COGNOME, costituitosi anche nel giudizio di appello, eccepiva preliminarmente: a) l’inammissibilità, irrilevanza ed irricevibilità dell’atto di appello per violazione del principio di sinteticità degli atti processuali, avuto riguardo alla prolissità dell’atto di appello composto da ben 82 pagine; b) l’inammissibilità dell’appello ex art. 348 bis c.p.c.;
c) l’inammissibilità della domanda nuova (di accertamento negativo del credito) in appello ai sensi dell’art. 345 c.p.c.
La corte territoriale – dopo aver con ordinanza dichiarato inammissibile l’istanza di inibitoria e disatteso l’eccezione di inammissibilità dell’impugnazione ex art. 348 bis c.p.c. – con sentenza n. 1893/2021 rigettava l’appello, con conseguente conferma integrale della sentenza di primo grado, condannava i coniugi appellanti alla rifusione delle spese processuali relative al grado ed al pagamento della somma di euro 1900, a titolo di risarcimento per responsabilità processuale aggravata ex art. 96, comma 3, c.p.c..
Avverso la sentenza della Corte territoriale hanno proposto ricorso i coniugi COGNOME
Ha resistito con controricorso l’COGNOME.
Per l’odierna adunanza il Procuratore Generale non ha rassegnato conclusioni scritte.
Il Difensore di parte resistente ha depositato memoria con la quale, oltre ad insistere nelle già rassegnate conclusioni, ha chiesto la distrazione delle spese e la condanna dei ricorrenti per responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c.
Il Collegio si è riservato il deposito della motivazione entro il termine di giorni sessanta dalla decisione.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Giova preliminarmente ripercorrere il contenuto delle sentenze di entrambi i giudici di merito.
1.1. Il Giudice di primo grado ha rigettato la domanda attorea sulla base delle seguenti argomentazioni: a) dalla produzione documentale offerta non emergeva alcun collegamento tra il contratto di compravendita del 15.06.2005 ed i quattro assegni di € 6.500,00 ciascuno del 15.07.2005 (per un totale di € 26.000,00) emessi dal COGNOME ed intestati a “RAGIONE_SOCIALE“, tratti sul c/c n. 6026/1027 4 e girati dallo stesso COGNOME; b) dalla documentazione in atti risultava
che i coniugi COGNOME avevano chiesto ed ottenuto un mutuo dalla Banca Carime S.p.a. per l’acquisto degli immobili, ma non era stata indicata la modalità di pagamento e quindi il richiamo agli assegni per i quali si chiedeva la restituzione; c) la domanda non risultava provata neppure nella fondatezza del pagamento di somme maggiori a quelle dovute per l’acquisto degli immobili, non risultando definito il giudizio avviato nei confronti della società venditrice né era provato che le somme incassate dall’COGNOME, in virtù degli assegni bancari a lui girati, fossero destinate al pagamento del prezzo di acquisto degli immobili.
1.2. Nella sentenza impugnata la corte territoriale, respinta l’eccezione di inammissibilità dell’atto di appello per violazione del principio di sinteticità, ha confermato la sentenza di primo grado e, precisamente:
quanto al primo motivo di appello, lo ha ritenuto infondato, spiegando le ragioni per le quali nel giudizio di primo grado non vi era stata la denunciata violazione del contraddittorio; e,
quanto al secondo, dopo aver dichiarato nuova la domanda di inesistenza del credito azionata in appello, ha confermato il rigetto della domanda di ripetizione, in quanto i coniugi appellanti (odierni ricorrenti) <>.
La corte territoriale, oltre a condannare i coniugi appellanti alla rifusione delle spese processuali, li ha condannati anche al pagamento della somma, equitativamente determinata, di euro 1900 a titolo di risarcimento per responsabilità processuale aggravata.
Ciò posto, occorre preliminarmente dar atto che parte ricorrente non ha impugnato in ricorso:
né il rigetto della sollevata violazione del contradditorio;
né la dichiarazione di inammissibilità della domanda nuova in appello;
né la condanna a titolo di risarcimento per responsabilità aggravata ex art. 96 terzo comma c.p.c.
Ne consegue che le relative statuizioni devono intendersi coperte dal giudicato.
I coniugi COGNOME articolano in ricorso due motivi.
3.1. Con il primo motivo, che articolano in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., i coniugi ricorrenti denunciano <> nella parte in cui la corte territoriale ha affermato (p. 7) che essi coniugi <>.
In particolare, denunciano la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2033 c.c. nella parte in cui la corte: a) ha trascurato di valutare che nel caso di specie NOME COGNOME non aveva fornito la prova della esistenza di una causa giustificatrice del pagamento effettuato nei suoi confronti da essi coniugi a mezzo dei quattro assegni bancari dell’importo complessivo di € 26.000,00, ciascuno dei quali dell’importo di € 6.500,00 tratti sul c/c n. 6026/1027 4 e girati dallo stesso COGNOME Leonardo; b) pertanto, non ha tenuto conto che, mentre essi coniugi
avevano dimostrato l’insussistenza di un loro debito nei confronti di NOME COGNOME quest’ultimo – su cui incombeva l’onere di provare che il pagamento avvenuto fosse sorretto da una giusta causa (cfr. Cass. 03.09.2019 n. 21969; Cass., sez. 3, n. 19902/2015; Cass., sez. 3, sentenza n. 5896 del 17.03.2006) – non aveva invece fornito la prova della esistenza di una causa giustificatrice del pagamento effettuato nei suoi confronti; c) non ha tenuto conto che l’art. 2033 c.c. presuppone che il debito non deve oggettivamente esistere, con riferimento esclusivo a due soggetti, rispettivamente colui che paga e che riceve il pagamento indebito.
Denunciano poi la violazione e/o falsa applicazione del combinato disposto, di cui agli artt. 1992 e 1993 c.c., nella parte in cui la corte territoriale: a) non ha tenuto conto che i quattro assegni bancari dell’importo complessivo di € 26.000,00 -ciascuno dei quali dell’importo di € 6.500,00 tratti sul c/c n. 6026/10274 e girati dallo stesso COGNOME NOME – erano stati incassati dal Sig. COGNOME NOME non sulla base di una giusta causa sottostante nel rapporto tra attore-solvente COGNOME NOME ed il convenuto accipiente COGNOME NOME; b) non ha tenuto conto che l’insussistenza del rapporto causale toglie effetto alla pretesa creditoria cartolare, in base alle norme generali degli artt. 1992 e 1993 c.c. e degli articoli 21 l. camb. e 25 l. ass., nei limiti in cui la relativa eccezione, avente natura personale, possa essere opposta al portatore del titolo.
3.2. Con il secondo motivo, che articolano subordinatamente al primo motivo di censura in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., i coniugi ricorrenti denunciano <>:
nella parte in cui la corte territoriale – affermando quanto sopra indicato (p. 7) – ha errato nel ritenere che NOME COGNOME – per il solo fatto che <> – avesse assolto all’onere della prova della esistenza di una causa giustificatrice del pagamento effettuato nei suoi confronti da essi coniugi a mezzo dei detti quattro assegni bancari;
-nonché nella parte in cui la corte territoriale, incorrendo in una incongrua valutazione delle risultanze istruttorie, non ha tenuto conto che il possessore di un assegno privo di efficacia cartolare può essere anche persona diversa da quella in cui favore l’assegno era stato consegnato dal traente (così come era stato dedotto ed allegato dal difesa dell’appellato a pag. 16 della comparsa di costituzione e risposta) – e che, non operando a favore dell’COGNOME l’inversione dell’onere della prova di cui all’art. 1988 c.c. (che agisce soltanto a beneficio di colui il quale abbia ricevuto in proprio favore la promessa di pagamento), lo stesso aveva l’onere di dimostrare l’esistenza del rapporto giuridico dal quale promanava l’obbligazione del promittente, non essendo riconducibile al solo fatto del possesso del titolo univoco significato ai fini della legittimazione, in quanto non era possibile escludere che il titolo di credito sia stato carpito illegalmente.
3.3. In definitiva, secondo i coniugi ricorrenti, la somma di € 26.000,00 sarebbe stata da loro indebitamente versata, in quanto, da un lato, il creditore COGNOME NOME – da ritenersi onerato della relativa prova – non aveva dimostrato la riferibilità di tale pagamento ad una sua interna giusta causa e, dall’altro, essi coniugi COGNOME avevano dimostrato l’insussistenza di un loro debito nei confronti di COGNOME NOME.
Il ricorso è inammissibile.
4.1. Occorre premettere che, per consolidata giurisprudenza di questa Corte, da un lato, i motivi di ricorso per cassazione devono investire, a pena di inammissibilità, questioni che siano già comprese nel tema del decidere del giudizio di appello (non essendo prospettabili per la prima volta in sede di legittimità questioni nuove o nuovi temi di
contestazione non trattati nella fase di merito, tranne che non si tratti di questioni rilevabili di ufficio); e, dall’altro, il ricorrente, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione davanti al giudice di merito, ma anche di indicare in quale atto del precedente giudizio lo abbia fatto, onde dar modo a questa Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminarne il merito.
Orbene, i coniugi ricorrenti – nel richiamare il principio di diritto per cui (ricorso, p. 26) <> – sostengono sostanzialmente che gli assegni per cui è ricorso, essendo privi di efficacia cartolare, avevano efficacia soltanto di promessa di pagamento. E, sulla base di tale prospettazione, censurano la sentenza impugnata per violazione degli artt. 1992 e 1993 c.c. (imputando alla corte territoriale di non aver tenuto conto che l’COGNOME, avendo utilizzato gli assegni come promessa di pagamento, aveva l’onere di dimostrare l’esistenza del rapporto giuridico, dal quale promanava l’obbligazione del promittente) e per omesso esame di un fatto decisivo (imputando alla corte territoriale di aver errato nel ritenere che l’COGNOME avesse provato l’esistenza di una causa giustificatrice del pagamento, che era stato effettuato nei suoi confronti a mezzo dei quattro assegni).
Senonché della questione che gli assegni, per cui è ricorso, fossero privi di valore cartolare e fossero qualificabili come promessa di pagamento non risulta traccia nella sentenza impugnata, nella quale
è stato dato atto che in primo grado era stata introdotta una domanda di restituzione di indebito.
D’altra parte, i ricorrenti inammissibilmente non indicano dove tale questione sia stata da essi sollevata nel giudizio di merito.
Vero che essi richiamano al riguardo pag. 16 della comparsa di costituzione e risposta presentata nell’interesse dell’COGNOME.
Senonché in detta pagina, contrariamente a quanto sostenuto dai ricorrenti, la difesa dell’odierno resistente non aveva affatto affermato che <>, ma aveva soltanto dichiarato che l’COGNOME <>.
Resta comunque il fatto che i coniugi ricorrenti non solo non hanno allegato l’avvenuta deduzione della questione davanti al giudice di merito, ma anche non hanno indicato in quale atto del precedente giudizio essi lo abbiano fatto.
Donde l’inammissibilità del ricorso.
4.2. Al rilievo che precede, di per sé dirimente, si aggiunge che, secondo un consolidato principio di diritto di questa Corte, in tema di ricorso per cassazione, è inammissibile la mescolanza e la sovrapposizione di mezzi d’impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360, comma 1, n. 3 e n. 5, c.p.c., non essendo consentita la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quello della violazione di norme di diritto, che suppone accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della norma, e del vizio di motivazione, che quegli elementi di fatto intende precisamente rimettere in discussione; o quale l’omessa motivazione, che richiede l’assenza di motivazione su
un punto decisivo della causa rilevabile d’ufficio, e l’insufficienza della motivazione, che richiede la puntuale e analitica indicazione della sede processuale nella quale il giudice d’appello sarebbe stato sollecitato a pronunciarsi, e la contraddittorietà della motivazione, che richiede la precisa identificazione delle affermazioni, contenute nella sentenza impugnata, che si porrebbero in contraddizione tra loro.
Infatti, l’esposizione diretta e cumulativa delle questioni concernenti l’apprezzamento delle risultanze acquisite al processo e il merito della causa mira a rimettere al giudice di legittimità il compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili, onde ricondurle ad uno dei mezzi d’impugnazione enunciati dall’art. 360 c.p.c., per poi ricercare quale o quali disposizioni sarebbero utilizzabili allo scopo, così attribuendo, inammissibilmente, al giudice di legittimità il compito di dare forma e contenuto giuridici alle lagnanze del ricorrente, al fine di decidere successivamente su di esse.
Orbene, la menzionata inammissibile mescolanza e la sovrapposizione di mezzi di impugnazione eterogenei ricorre nel caso di specie, nel quale, parte ricorrente, in relazione alla medesima questione, ha eccepito, con il motivo primo, il vizio di cui all’art. 360 primo comma n. 3, e, con il motivo secondo, il vizio di cui all’art. 360 primo comma n. 5 c.p.c.
4.3. Infine, il motivo primo è inammissibile, in quanto non integra violazione, né falsa applicazione di norme di diritto, la denuncia di una erronea ricognizione della fattispecie concreta in funzione delle risultanze di causa, poiché essa si colloca al di fuori dell’ambito interpretativo ed applicativo della norma di legge; mentre il motivo secondo è inammissibile, in quanto non costituiscono, “fatti”, il cui omesso esame possa cagionare il vizio di cui alla richiamata norma del codice di rito, né le argomentazioni, supposizioni o deduzioni difensive (Cass. n. 26305/2018; n. 14802/2017) e neppure gli elementi istruttori (Cass., SU, n. 8053/2014).
5 . All’inammissibilità del ricorso consegue la condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché la declaratoria della sussistenza dei presupposti processuali per il pagamento dell’importo di cui all’art. 13 comma 1 -quater del d.P.R. n. 115 del 2002,, previsto per legge ed indicato in dispositivo, se dovuto (Cass. Sez. U. 20 febbraio 2020 n. 4315).
P. Q. M.
La Corte:
dichiara inammissibile il ricorso;
-condanna parte ricorrente alla rifusione, in favore del resistente, delle spese del presente giudizio, spese che liquida in complessivi euro 5.000 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200 ed agli accessori di legge;
distrae le spese, come sopra liquidate, a favore del difensore dichiaratosi antistatario;
-ai sensi dell’art. 13 comma 1 -quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, ad opera di parte ricorrente al competente ufficio di merito, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato a norma del comma 1-bis del citato art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 19 febbraio 2025, nella camera di consiglio