Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 7633 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 7633 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 22/03/2025
ORDINANZA
sui ricorsi riuniti nn. 26555/2021 e 26563/2021 r.g. proposti da:
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa, giusta procura speciale su foglio separato in calce al ricorso, dall’Avv. NOME COGNOME il quale dichiara di voler ricevere le comunicazioni e le notificazioni di cancelleria presso l’indirizzo di posta elettronica certificata indicato, elettivamente domiciliata in Roma, INDIRIZZO, presso lo studio dell’Avv. NOME COGNOME.
-ricorrente – contro
Comune di Taranto, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avv. NOME COGNOME giusta procura speciale rilasciata in calce al controricorso, il quale dichiara di voler ricevere le comunicazioni e le notificazioni relative al presente processo presso l’indirizzo di posta elettronica c ertificata indicato, elettivamente domiciliato in Roma, INDIRIZZO presso lo studio dell’Avv. NOME COGNOME
-controricorrente-
Avverso la sentenza della Corte di appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, n. 92/2021, depositata in data 18/3/2021; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 13 /2/2025 dal Consigliere dott. NOME COGNOME
RILEVATO CHE:
Il Comune di Taranto con contratto del 10/9/2001 concedeva in concessione l’area attrezzata a verde, in INDIRIZZO e INDIRIZZO alla società cooperativa RAGIONE_SOCIALE per la durata di 6 anni, con la scadenza al 9/9/2007.
La società presentava richiesta di rinnovo del contratto di concessione, ai sensi dell’art. 3 del contratto, con lettera del 7/8/2007.
Con successiva lettera del 26/9/2007 la società chiedeva il rinnovo del contratto, evidenziando che, in caso affermativo, avrebbe rinunciato alla clausola n. 10, a mente della quale «qualora dovessero essere realizzate strutture migliorative, al concessionario potrà essere riconosciuto lo scomputo dei canoni concessori previa valutazione dei costi di costruzione».
Il Comune con determinazione n. 40 del 19/3/2008 esprimeva diniego al rinnovo della concessione, e con la successiva determinazione del 17/4/2008 invitava la società a rilasciare l’area.
Nella determinazione n. 40 del 2008 si spiegava che vi era la necessità di indire una nuova gara, in relazione alle migliorie apportate all’area dalla società concessionaria.
Il Tar Lecce con sentenza n. 3576 del 2008 annullava la deliberazione della giunta comunale di Taranto n. 40 del 19/3/2008.
In particolare, evidenziava che «il riferimento all’indizione della nuova gara è contenuto solo nella proposta deliberativa a firma del dirigente del settore e non anche nel dispositivo del provvedimento impugnato»; ne conseguiva «che la giunta ha negato alla ricorrente il rinnovo senza alcuna motivazione e senza stabilire la futura destinazione dell’area attrezzata per cui è causa».
Sarebbe stato possibile negare il rinnovo della concessione, oltre che per ragioni oggettive di pubblico interesse, «solo nel caso in cui abbia individuato una destinazione diversa da imprimere all’area in argomento».
Quanto, poi, alla questione «relativa alla dichiarazione con cui il legale rappresentante della società ricorrente ha rinunciato alle somme spettanti per le migliorie apportate al bene», il Tar condivideva gli assunti della ricorrente, reputando che era «del tutto evidente che la società ricorrente intanto avrebbe avuto interesse a rinunciare alle somme che le spettano ai sensi dell’art. 10 del contratto, in quanto le fosse stato accordato il rinnovo della concessione».
Non era possibile dunque, che la rinuncia «espressa dal legale rappresentante della ricorrente potesse essere intesa dal Comune come dichiarazione ‘astratta’».
Chiariva il Tar che, comunque, benché il bando della gara non prevedesse che il gestore dovesse essere indennizzato per le migliorie apportate, tuttavia ciò non voleva significare «che l’amministrazione avrebbe potuto arricchirsi indebitamente a danno del concessionario».
Peraltro, il Comune aveva già ammesso la possibilità che il concessionario apportasse modifiche e migliorie all’area attrezzata, anzi, alcune di esse erano da eseguirsi necessariamente, come risultava dall’avviso pubblico, il che rendeva «irrilevante la questione relativa alla validità della clausola contrattuale aggiunta in sede di stipula».
Successivamente il Tar Puglia, sezione di Lecce, con la sentenza n. 1155 del 2010, accoglieva il nuovo ricorso presentato dalla società avverso il nuovo diniego apposto dal Comune al rinnovo della concessione, adottato con liberazione della giunta comunale n. 81 del 25/6/2009.
Il Tar richiamava la precedente pronuncia di cui alla sentenza n. 3577 del 2008, ricordando che in tale sentenza «si riconosceva che tale rinuncia era chiaramente collegata al rinnovo della concessione, per cui, laddove avesse rifiutato di accordare il rinnovo, il Comune avrebbe dovuto tenere conto dell’obbligo di corrispondere le somme di cui si è detto (quantificare dalla ricorrente in circa euro 880.000)».
Inoltre, precisava che «la dichiarazione del legale rappresentante della società ricorrente non poteva che essere interpretata alla luce del rapporto in essere fra le parti ed alla di poco precedente istanza di rinnovo della concessione che RAGIONE_SOCIALE aveva rivolto l’autorità concedente».
Il Tar Puglia, sezione di Lecce, con la sentenza n. 948 del 2014, annullava le delibere del 13/3/2013 e del 3/6/2013.
Richiamava le precedenti sentenze n. 3576 del 2008 e n. 1155 del 2010, ove si era chiarito «in maniera cristallina che la cooperativa ricorrente non ha alcun diritto a conseguire il rinnovo della concessione di gestione dell’area verde attrezzata di cui è risultata affidataria».
Il rinnovo, dunque, non poteva costituire oggetto di una legittima aspettativa da parte del concessionario.
Se, dunque, il mancato rinnovo della concessione poteva considerarsi pienamente legittimo, non altrettanto poteva dirsi in ordine al comportamento della PA «in merito alla richiesta della ricorrente di conseguire il rimborso delle spese sostenute per le migliorie apportate all’area verde attrezzata, gestite in concessione, anche adesso che le viene ingiunto lo sgombero dell’area».
Non poteva tollerarsi che «taluno si arricchisca indebitamente con altrui pregiudizio patrimoniale senza che sussistano ragioni giustificative».
Di qui l’affermazione per cui «una volta chiarito che la parte privata non vanta un diritto al rinnovo della concessione che, pertanto, viene meno la ragione per giustificare ancora una rinuncia al rimborso delle spese sostenute per migliorare l’area verde gestita in concessione, la Coop ricorrente deve essere tenuta indenne delle somme erogate per implementare il sito nei limiti che si desumono dall’art. 2041 c.c.».
Del resto, sussistevano tutti presupposti di cui a tale norma: «la PA ha implicitamente riconosciuto l’utilità delle strutture migliorative prestate dalla cooperativa non avendo mai contestato la loro realizzazione né avendo mai adottato alcun provvedimento che ne inibisce la prosecuzione».
Per tale ragione si reputava fondato il ricorso relativo all’annullamento delle note impugnate nella parte in cui «non si
dispone che la PA tenga indenne la società delle spese erogate per la realizzazione di strutture migliorative apportate all’area verde attrezzata gestita in concessione nei limiti della minor somma tra quanto speso e il valore della miglioria stessa».
Successivamente il Comune adottava la determinazione n. 255 del 30/4/2015, approvando il bando per l’affidamento in concessione della struttura.
Con la successiva determina n. 611 del 21/9/2015 il Comune integrava la precedente determina n. 255 del 2015, riconoscendo la sussistenza del debito in favore della società RAGIONE_SOCIALE
Si procedeva anche all’accertamento tecnico preventivo, in cui il CTU determinava la quantificazione delle migliorie realizzate dalla società in euro 196.000,00.
Con la determinazione n. 167737 del 28/10/2015 l’importo riconosciuto in favore della società RAGIONE_SOCIALE era fissato in euro 131.093,00, come da perizia di parte.
Il tribunale di Taranto con ordinanza emessa ex art. 702bis c.p.c. del 27/3/2017 rigettava le domande proposte nei confronti del Comune di Taranto dalla società RAGIONE_SOCIALE per ottenere il pagamento della somma di euro 196.000,00 per le migliorie apportate beni in concessioni ad euro 60.207,84 a titolo di indennità di avviamento ex art. 34 legge 392 del 1978.
Avverso tale sentenza proponeva appello la società.
7.1. Con il primo motivo di impugnazione l’appellante denunciava «il mancato rilievo da parte del giudice di prime cure del giudicato esterno, costituito dalle sentenze del Tar Lecce n. 3576/2008, n. 1155/2010 e n. 948/2014 le quali espressamente avevano riconosciuto il diritto della cooperativa l’ottenimento dell’indennizzo per le migliorie».
Pertanto, il tribunale, non tenendo in alcuna considerazione le statuizioni amministrative passate in cosa giudicata e resa tra le stesse parti, «aveva fornito una interpretazione della missiva del 27/9/2007 diametralmente opposta a quella contenuta nelle sentenze del Tar, ritenendo erroneamente che la rinunzia l’indennizzo per le migliorie non fosse condizionata al rinnovo della concessione».
Tra l’altro, anche la missiva del 13/3/2013 «con cui il Comune avrebbe riconosciuto il rinnovo del rapporto, era stata annullata dal Tar e quindi era improduttiva di effetti giuridici».
Per tale ragione «nessuna rilevanza giuridica, nell’economia della decisione assunta dal giudice di prime cure, avrebbe dovuto assumere la permanenza dell’area comunale della cooperativa».
7.2. Con il secondo motivo di impugnazione l’appellante cooperativa deduceva «il mancato esame e la mancata valorizzazione, ai fini della decisione, da parte del giudice di prime cure, della determina dirigenziale n. 611 del 21/9/2015 nonché della nota del 28/10/2015 con cui il Comune di Taranto riconosceva spettare alla cooperativa la somma di euro 131.093,00 titolo di migliorie».
Tale atto, ad avviso dell’appellante, costituiva «un evidente riconoscimento di debito».
8. La Corte d’appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, con sentenza n. 92/2021, depositata il 18 marzo del 2021, rigettava l’appello.
In particolare, la Corte di merito, con riferimento alla prima questione sollevata dall’appellante, concernente la sua pretesa di essere indennizzata per le migliorie apportate ai beni in concessione, confermava la pronuncia di prime cure che «ha giustamente valorizzato la missiva inviata dalla cooperativa al Comune in data 27/9/2007, in prossimità della scadenza della concessione rilasciata
nel settembre 2001 per la durata di 6 anni; in detta missiva si fa riferimento alla richiesta di rinnovo della concessione inviata il precedente 7 agosto e si dichiara ‘di rinunziare espressamente, come in effetti (sì) rinunzia, alla clausola n. 10 del citato contratto di concessione ovvero a richiedere in relazione alle strutture migliorative, sia a quelle sino ad oggi realizzate nonché ad ogni eventuale futura realizzanda opera, lo ‘scomputo dei canoni concessori’ nonché ad avanzare in relazione ad esse ogni e qualsiasi richiesta e/o pretesa di rimborso dovendosi dette opere ritenere a mio esclusivo carico e spesa’».
Pertanto, la Corte d’appello osservava che «tale rinunzia a qualsiasi pretesa per le migliorie apportate ai beni in concessione non appare strettamente legata e condizionata al rinnovo della concessione, che comunque nei fatti è avvenuta poiché la cooperativa, anche perché vittoriosa nei vari giudizi intentati davanti al Tar, ha pacificamente continuato a gestire , così ammortizzato il costo delle migliorie realizzate con i maggiori introiti e guadagni che le ha assicurato il protrarsi della concessione».
Ha aggiunto la Corte territoriale che «il Comune con la raccomandata del 13/3/2013 ha finito con il riconoscere il rinnovo della concessione e quindi la prosecuzione del rapporto sino al 9/9/2013 (seconda scadenza), mentre, come già accennato, il godimento di fatto del bene da parte della cooperativa si è protratto sino al novembre 2016».
Precisava la Corte di secondo grado che «può fondatamente dubitarsi della stessa sussistenza del preteso diritto all’indennizzo per le dette migliorie poiché secondo i punti 9 e 10 del disciplinare della concessione del 10/9/2001 ‘non saranno consentite variazioni e/o migliorie senza il preliminare parere del settore governo del territorio’, che non risulta essere stato mai rilasciato».
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione la società cooperativa RAGIONE_SOCIALE
Ha resistito con controricorso il Comune di Taranto, depositando anche memoria scritta.
Il difensore della società Il Panda ha depositato in data 15/11/2024 visura camerale dalla quale si evince che la ricorrente RAGIONE_SOCIALE società RAGIONE_SOCIALE liquidazione è stata cancellata dal registro delle imprese in data 28/6/2024.
Lo stesso ricorso per cassazione è stato iscritto a ruolo con il n. 26563/2021.
CONSIDERATO CHE:
Anzitutto, deve procedersi alla riunione del giudizio n. 26563/2021 a questo giudizio, trattandosi di una duplice iscrizione afferente alla medesima impugnazione ex art. 273 c.p.c.
Inoltre, per questa Corte la cancellazione della società dal registro delle imprese, se avvenuta dopo la proposizione del ricorso per cassazione, non è causa di interruzione del processo, benché comunicata dal difensore, atteso che nel giudizio di cassazione, dominato dall’impulso di ufficio, non sono applicabili le comuni cause interruttive previste dalla legge (Cass., sez. 5, 10/10/2024, n. 26452).
1.1. Con il primo motivo di impugnazione la ricorrente deduce la «violazione o falsa applicazione di norme di diritto, art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – mancato rilievo del giudicato esterno».
Per la ricorrente, dunque, la Corte d’appello non ha rilevato l’esistenza del giudicato esterno intervenuto tra le medesime parti, costituito dalle sentenze del Tar Puglia, sezione di Lecce, numeri 3576/2008,1155/2010 e 948/2014.
La Corte d’appello avrebbe errato nel ritenere «la missiva del 9/9/2007 come una rinuncia pura e semplice al diritto alle migliorie,
sia nel ritenere insussistente il diritto all’indennizzo della cooperativa per le opere eseguite».
Ed infatti il Tar Lecce, ben tre volte, ha chiarito che «è del tutto evidente che la società ricorrente intanto avrebbe avuto interesse a rinunciare alle somme che le spettano ai sensi dell’art. 10 del contratto, in quanto le fosse stato accordato il rinnovo della concessione».
Per tale ragione, la rinuncia espressa dal legale rappresentante della società ricorrente non poteva essere intesa dal Comune come dichiarazione ‘astratta’.
La ricorrente riportava porzioni di motivazioni delle tre sentenze del Tar intervenute tra le stesse parti.
Con il secondo motivo di impugnazione la ricorrente deduce «l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti; art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c. – Omessa valutazione della determinazione dirigenziale n. 255 del 30/4/2015 e della nota del 28/10/2015».
In particolare, il giudice d’appello non ha tenuto conto di due documenti versati in atti: la determinazione dirigenziale n. 255 del 30/4/2015 e la nota del 28/10/2015, «con cui il Comune di Taranto riconosceva espressamente la spettanza alla cooperativa di somme a titolo di migliorie e le quantificava (sebbene unilateralmente) in euro 131.093,00».
Nel primo di tali documenti, integralmente riportato in narrativa, il Comune «si riconosce debitore della ricorrente in ragione del giudicato intervenuto tra le parti, ed afferma di dover corrispondere alla cooperativa concessionaria le spese sostenute per le migliorie realizzate: ‘in ossequio alla sentenza n. 948/2014 del Tar Puglia Lecce sez. II questo ente terrà indenne la società concessionaria delle spese erogate per la realizzazione di strutture migliorative
apportate all’area verde attrezzata gestite in concessione, nei limiti della minor somma tra quanto speso e il valore della miglioria stessa».
Nella nota del 28/10/2015 il Comune determinava «anche se unilateralmente e in spregio all’accertamento effettuato dal CTU nella ATP -la somma di cui si riconosce debitore nei confronti della società RAGIONE_SOCIALE: l’ammontare complessivo degli interventi da riconoscere alla cooperativa RAGIONE_SOCIALE è pari a euro 131.093,00».
Il primo motivo è infondato.
3.1. Le tre sentenze del Tar Puglia, ritualmente trascritte in atti nei loro contenuti essenziali, in realtà, non hanno riconosciuto il diritto della società RAGIONE_SOCIALE al rimborso delle spese sostenute per le opere realizzate a titolo di miglioramenti, nella gestione, quale concessionaria, dell’area attrezzata a verde.
Ed infatti, nelle tre pronunce del Tar Puglia n. 35 7/7/2008, n. 1155 del 2010 e n. 948 del 2014, l’oggetto del contendere non è il diritto della società a vedersi corrispondere le somme richieste per le migliorie apportate all’area attrezzata gestita in regime di concessione, ma la legittimità o meno dei provvedimenti che si sono susseguiti nel tempo, come adottati dall’ente territoriale.
3.2. Vi sono state affermazioni del giudice amministrativo anche in ordine alla interpretazione delle clausole contrattuali, ma sempre e soltanto al fine di giungere alla decisione in ordine alla legittimità o meno dei provvedimenti adottati dal Comune.
L’affermazione del giudice amministrativo – laddove prende in esame la lettera del legale rappresentante della società spedita al Comune il 27/9/2007, e si ritiene che non si sia in presenza di una rinuncia ‘astratta’, ma strettamente collegata alla possibilità di rinnovo del contratto di concessione, che scadeva il 9/9/2007, essendo stato stipulato il 10/9/2001, per la durata di 6 anni – va
calata nel contesto processuale svoltosi dinanzi al TAR al mero fine di verificare la legittimità dei provvedimenti amministrativi.
In particolare, nella sentenza del Tar Puglia, sezione di Lecce, n. 35 7/7/2008 si afferma che «è del tutto evidente che la società ricorrente intanto avrebbe avuto interesse a rinunciare alle somme che le spettano ai sensi dell’art. 10 del contratto, in quanto le fosse stato accordato il rinnovo della concessione». Con la precisazione per cui «non è pensabile che la rinuncia espressa dal legale rappresentante della ricorrente potesse essere intesa dal Comune come dichiarazione ‘astratta’».
Tuttavia, tali affermazioni vanno lette nel contesto più ampio in cui si collocano, avendo la società invocato espressamente l’annullamento «della deliberazione della Giunta Comunale di Taranto n. 40 del 19/3/2008».
Ed infatti, il Tar evidenzia l’illegittimità di tale deliberazione in quanto nella stessa «il riferimento all’indizione della nuova gara è contenuto solo nella proposta deliberativa a firma del dirigente del Settore e non anche nel dispositivo del provvedimento impugnato».
Poiché, però, ciò che rileva «è proprio il contenuto dispositivo delle deliberazioni degli organi collegiali ne consegue che la Giunta ha negato alla ricorrente il rinnovo senza alcuna motivazione e senza stabilire la futura destinazione dell’area attrezzata per cui è causa (facendo anzi espressa riserva di decidere sulla questione)».
Il TAR, dunque, argomenta nel senso che «il Comune può negare il rinnovo, oltre che per ragioni oggettive di pubblico interesse solo nel caso in cui abbia individuato una destinazione diversa da imprimere all’area in argomento».
Questo, dunque, è il punto centrale della decisione e della sua motivazione.
Quanto sopra detto vale anche con riferimento alle ulteriori due decisioni del giudice amministrativo.
6.1. Ed infatti, le medesime argomentazioni si rinvengono anche nella successiva sentenza del Tar Puglia, sezione di Lecce, n. 1155 del 2010, passata in giudicato, laddove si afferma che «la dichiarazione del legale rappresentante della società ricorrente non poteva che essere interpretata alla luce del rapporto in essere fra le parti ed alla di poco precedente istanza di rinnovo della concessione che RAGIONE_SOCIALE aveva rivolto all’autorità concedente».
Tuttavia, anche in questo caso l’oggetto del giudizio dinanzi al giudice amministrativo era individuato nella legittimità o meno della «deliberazione della Giunta Comunale di Taranto n. 81 del 25/6/2009 atto di concessione – diniego al rinnovo – atto di indirizzo».
Il Tar , nella pronuncia n. 1155 del 2010, quindi, torna a ribadire che «il provvedimento impugnato sconta i medesimi vizi già rilevati dalla Sezione con la sentenza n. 3576/2008».
In tal caso il provvedimento del Comune, quanto alle strutture migliorative effettuate dalla società, aveva rilevato «la realizzazione abusiva di interventi edili integrativi alle strutture esistenti oggetto del contratto di concessione senza che gli stessi fossero muniti di titoli abilitativi ed autorizzativi da parte dei competenti uffici e che ‘la gestione oggetto del contratto di concessione stipulato in data 10/9/2001 non prevedeva in capo al gestore la possibilità di alcun intervento di nuova costruzione, né l’esecuzione di lavori di manutenzione presso l’area gestita’».
Il provvedimento è stato annullato per la ragione per cui il Comune «non risulta aver effettuato tali verifiche, essendosi la P.A. intimata limitata a rilevare la abusività delle opere realizzate, senza tuttavia verificarne l’entità, il valore e, comunque, senza effettuare una stima accurata dell’area oggetto di concessione in relazione al
nuovo valore economico dalla stessa assunto rispetto a quello iniziale; in conclusione non è stata valutata adeguatamente l’esistenza e l’entità di un debito indennitario».
Con l’affermazione finale del Tar per cui «il provvedimento impugnato appare quindi illegittimo nella parte in cui ha nuovamente omesso di effettuare ogni opportuna verifica e quantificazione analitica delle opere realizzate dalla ricorrente, distinguendo quelle rimovibili e, quindi, restituibili alla concessionaria, da quelle residue e non restituibili».
Pertanto, la sentenza del Tar n. 1155 del 2010 conclude nel senso che «il ricorso deve essere accolto nei limiti suindicati e, quindi, esclusivamente nella parte in cui il provvedimento impugnato omette ogni valutazione in ordine all’esistenza o meno e all’entità di un debito indennitario. Va, invece, negato il diritto della ricorrente al rinnovo della concessione».
6.2. Il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 5744 del 2014, che ha riformato la sentenza del TAR Puglia n. 948 del 2014, rigettando il ricorso originario della RAGIONE_SOCIALE, ha sul punto osservato che «la motivazione delle sentenze del TAR del 2008 e del 2010 confermano solo la portata dirimente, ai fini della stessa legittimità della rinuncia, della sua contestualizzazione in un preciso rapporto sinallagmatico, che ne vede la causa nella possibilità di prosecuzione, e per contro l’inefficacia nella sua (a quel momento certa) interruzione».
La situazione non cambia nella terza sentenza del Tar Puglia, sezione di Lecce, n. 948 del 2014, che peraltro, non solo non è passata in cosa giudicata, ma è stata riformata dal Consiglio di Stato con la citata sentenza n. 5744 dell’1/9/2021.
La sintesi delle due pronunce avviene, infatti, con la sentenza del Tar Puglia, sezione di Lecce, n. 948 del 2014, ove si richiamano le precedenti sentenze «n. 3576/08 e la n. 1155/2010».
Non può dubitarsi, anche in questo caso, che l’oggetto dell’impugnativa da parte della società attenga a «nota/provvedimento della 11 ^ Direzione RAGIONE_SOCIALE prot. n. 43326 del 13 marzo 2013, pervenuta con lettera racc. a a.r. in data 15 aprile 2013; nota/provvedimento della 11 ^ Direzione RAGIONE_SOCIALE prot. n. 85529 del 3 giugno 2013, pervenuta con lettera racc. a.r. in data 10 giugno 2013».
Le richieste della società, dunque, attengono essenzialmente al «previo annullamento delle note – datate 13 marzo e 3 giugno 2013 – con le quali il Comune di Taranto ha manifestato la volontà di non disporre il rinnovo della concessione ed ha, altresì, chiesto che la cooperativa sani la propria morosità per canoni non pagati e per consumi idrici».
7.1. Il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 5744 del 2021, sopra citata, ha chiarito l’errore in cui è incorso il Tar Puglia con la sentenza n. 948 del 2014.
Il giudice di prime cure si era limitato a ‘liquidare’ la «rinuncia» della società del 27/9/2007 come «atto avente valore giuridico astratto solo in vista del consenso dalla Amministrazione alla proroga del rapporto contrattuale, senza scrutinare in alcun modo se ciò sia di fatto avvenuto o meno».
Ha precisato il Consiglio di Stato che, in realtà, «l’utilizzo dell’area non ha avuto termine alla scadenza dell’originario contratto, ma si è protratto per ulteriori sei anni sicché di fatto si sono realizzate proprio quelle condizioni di riallineamento economico che il fattore tempo di utilizzo concretizza».
Si è, quindi, evidenziato da parte del giudice amministrativo di appello che con la nota del 3/6/2013 «anziché reiterare per la terza volta il diniego di rinnovo facendosi carico di chiarire le sorti delle
migliorie, il Comune ha preferito prolungare per facta concludentia il rapporto concessorio, consentendo alla Cooperativa di ammortizzare le spese affrontate, così come dalla stessa di fatto richiesto».
Per il Consiglio di Stato «non può non assumere valore la rinuncia alle migliorie in funzione di un rinnovo nei fatti innegabilmente ottenuto».
Senza contare che il giudice amministrativo di secondo grado condivide in sentenza la motivazione della sentenza della Corte di appello n. 9 del 2021 – qui impugnata – che ha confermato l’ordinanza ex art. 702bis c.p.c. del tribunale di Taranto del 27/3/2017.
Ed infatti, la Corte d’appello, nel reputare non dovute le somme alla società, avendo la stessa rinunciato ad avvalersi della clausola n. 10 della convenzione del 10/9/2001, non è incorsa nella violazione del giudicato, come prospettato dalla ricorrente.
8.1. Già il giudice di prime cure aveva, sul punto, valorizzato la lettera della cooperativa al Comune in data 27/9/2007, in prossimità della scadenza della concessione rilasciata nel settembre 2001 per la durata di 6 anni.
In tale lettera si evidenziava che la società aveva dichiarato «di rinunziare espressamente, come in effetti (si) rinunzia, alla clausola n. 10 del citato contratto di concessione ovvero a richiedere in relazione alle strutture migliorative, sia a quelle sino ad oggi realizzate nonché ad ogni eventuale futura realizzanda opera, ‘lo scomputo dei canoni concessori’ nonché ad avanzare in relazione ad esse ogni e qualsiasi richiesta e/o pretesa di rimborso dovendosi dette opere ritenere a mio esclusivo carico e spesa».
8.2. Per la Corte d’appello «nell’impugnata ordinanza si osserva condivisibilmente che tale rinunzia a qualsiasi pretesa per le migliorie apportate ai beni in concessione non appare strettamente legata e
condizionata al rinnovo della concessione, che comunque nei fatti è avvenuta poiché la cooperativa, anche perché vittoriosa nei vari giudizi intentati davanti al Tar, ha pacificamente continuato a gestire».
In tal modo, per la Corte di merito, la cooperativa «ha ammortizza il costo delle migliorie realizzate con i maggiori introiti e guadagni che le ha assicurato il protrarsi della concessione».
La Corte d’appello ha anche rimarcato che «anzi, alla fine, il Comune con la raccomandata del 13/3/2013 prot. n. 43326 ha finito con il riconoscere il rinnovo della concessione e quindi la prosecuzione del rapporto sino al 9/9/2013 (seconda scadenza), mentre, come già accennato, il godimento di fatto del bene da parte della cooperativa si è protratto sino al novembre 2016».
La Corte di merito ha pure evidenziato che non sussisteva il diritto all’indennizzo per le migliorie in base ai punti 9 e 10 del disciplinare della concessione del 10/9/2001, ove si prevedeva che «non saranno consentite variazioni e/o migliorie senza il preliminare parere del Settore Governo del Territorio».
Tale parere «non risulta essere stato mai rilasciato» e soprattutto – ha aggiunto la Corte – «qualora dovessero essere realizzate strutture migliorative, al concessionario potrà (non ‘dovrà’ ndr) essere riconosciuto lo scomputo dei canoni concessori previa valutazione dei costi di costruzione».
Per il giudice d’appello, «vi era, allora, la semplice possibilità, affidata alla discrezione del Comune concedente, di riconoscere uno ‘sconto’ sui canoni e null’altro».
Pertanto, anche tenendosi conto dell’insussistenza del giudicato richiamato nel motivo di ricorso a seguito della intervenuta sentenza del Consiglio di Stato sopra menzionata, va confermata la decisione
della Corte d’appello, tra l’altro fondata su una decisione conforme del giudice di prime cure.
Il secondo motivo è inammissibile stante la doppia decisione conforme di merito ex art. 348ter c.p.c., che non consente di articolare il motivo di ricorso di cui all’art. 360, primo comma, n.5 c.p.c.
Infatti, in tema di ricorso di cassazione, il travisamento della prova, che presuppone la constatazione di un errore di percezione o ricezione della prova da parte del giudice di merito, ritenuto valutabile in sede di legittimità qualora dia luogo ad un vizio logico di insufficienza della motivazione, non è più deducibile a seguito della novella apportata all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv. dalla l. n. 134 del 2012, che ha reso inammissibile la censura per insufficienza o contraddittorietà della motivazione, sicché ” a fortiori ” se ne deve escludere la denunciabilità in caso di cd. “doppia conforme”, stante la preclusione di cui all’art. 348-ter, ultimo comma, c.p.c. (Cass., sez L, 3/11/2020, n. 24395).
Peraltro, ricorre l’ipotesi di «doppia conforme», ai sensi dell’art. 348ter , commi 4 e 5, c.p.c., con conseguente inammissibilità della censura di omesso esame di fatti decisivi ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., non solo quando la decisione di secondo grado è interamente corrispondente a quella di primo grado, ma anche quando le due statuizioni siano fondate sul medesimo iter logicoargomentativo in relazione ai fatti principali oggetto della causa, non ostandovi che il giudice di appello abbia aggiunto argomenti ulteriori per rafforzare o precisare la statuizione già assunta dal primo giudice (Cass., sez. 6-2, 9/3/2022, n. 7724).
9.1. Nella specie, come sopra rappresentato, le motivazioni della sentenza di prime cure ed appello sono speculari e fondate su medesimi elementi di fatto.
10. Le spese del giudizio di legittimità vanno poste, per il principio della soccombenza, in capo alla società ricorrente e si liquidano come da dispositivo.
Rigetta il ricorso.
Condanna la ricorrente a rimborsare in favore del controricorrente le spese del giudizio di legittimità che si liquidano in complessivi euro 5.600,00, oltre euro 200,00 per esborsi, rimborso forfettario delle spese generali nella misura del 15 %, oltre IVA e CPA.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-q uater del d.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis , dello stesso art. 1, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della I Sezione