Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 32467 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 3 Num. 32467 Anno 2024
Presidente: NOME COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 13/12/2024
Oggetto: impiegati postelegrafonici – alloggio di servizio -trasformazione dell’Ente Poste in società per azioni – conseguenze.
O R D I N A N Z A
sul ricorso n. 28469/21 proposto da:
-) COGNOME NOME , domiciliato ex lege presso all’indirizzo PEC del proprio difensore, difeso dall’avvocato NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
-) RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore , domiciliato ex lege all’indirizzo PEC del proprio difensore , difeso dall’avvocato NOME COGNOME e NOME COGNOME
– controricorrente –
avverso la sentenza della Corte d’appello di Palermo 24 agosto 2021 n. 1363;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 10 ottobre 2024 dal Consigliere relatore dott. NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
Nel 1982 l’allora Amministrazione delle Poste RAGIONE_SOCIALE concesse in uso al proprio dipendente NOME COGNOME un appartamento sito a Palermo, INDIRIZZO L’atto di concessione stabiliva che l’uso avrebbe avuto una durata di tre anni, rinnovabili per altri tre.
Decorsi sei anni dalla costituzione del rapporto NOME COGNOME rimase nel godimento dell’immobile, senza che l’Amministrazione Postale adott asse provvedimenti di sorta.
Nel 2016 la società RAGIONE_SOCIALE convenne dinanzi al Tribunale di Palermo NOME COGNOME, chiedendone la condanna sia al rilascio dell’immobile (in quanto ormai detenuto senza titolo), sia al pagamento dell’indennità di occupazione.
NOME COGNOME si costituì tardivamente, eccependo la prescrizione del diritto e deducendo che comunque l’originario rapporto concessorio doveva ritenersi rinnovato per facta concludentia .
Con sentenza 2.8.2018 n. 3652 il Tribunale di Palermo dichiarò prescritto il diritto.
La sentenza fu appellata dalla Poste Italiane.
Con sentenza 24.8.2021 n. 1363 la Corte d’appello di Palermo accolse il gravame e condannò NOME COGNOME al rilascio dell’immobile ed al risarcimento del danno da occupazione senza titolo, quantificato in euro 70.952,79.
La Corte d’appello ritenne che:
-) l’eccezione di prescrizione sollevata da NOME COGNOME era tardiva;
-) il rapporto di concessione ai dipendenti degli alloggi di proprietà della (in allora) Amministrazione delle Poste e Telecomunicazioni era regolato dall’art . 33 d.m. 19.7.1984, il quale stabiliva che il suddetto rapporto potesse avere durata massima di tre anni, rinnovabile una sola volta;
-) pertanto il diritto di NOME COGNOME al godimento dell’immobile era spirato sei anni dopo l’inizio della concessione, cioè il 1° luglio 1992;
-) dopo tale data le parti non stipularono alcun contratto per regolarizzare l’occupazione dell’immobile da parte di NOME COGNOME;
N.R.G.: 28469/21
Camera di consiglio del 10 ottobre 2024
-) doveva escludersi che un contratto di locazione potesse ritenersi concluso tacitamente.
La sentenza d’appello è stata impugnata per Cassazione da NOME COGNOME con ricorso fondato su cinque motivi illustrati da memoria. La Poste Italiane s.p.a. ha resistito con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Col primo motivo il ricorrente prospetta la violazione degli artt. 1350 e 1571 c.c., nonché dell’art. 33 d.m. 19.7.1984 e della legge 392/78.
Nell’illustrazione del motivo si sostiene una tesi così riassumibile:
-) dopo la scadenza della concessione (1° luglio 1992), Poste Italiane per vent’anni (sino al 2012) aveva tacitamente continuato a riscuotere il canone, senza nulla osservare;
-) i n questo lungo arco di tempo l’Amministrazione delle RAGIONE_SOCIALE era stata trasformata dapprima in Ente RAGIONE_SOCIALE, e poi in Poste Italiane s.p.aRAGIONE_SOCIALE, soggetto di diritto privato;
-) fino a quando l’amministrazione postale ebbe la veste di pubblica amministrazione, il rapporto di concessione dell’immobile poteva dirsi regolato dal d.m. 19.7.1984; quando, tuttavia, l’amministrazione postale fu trasformata in società per azioni di diritto privato, il rapporto tra essa e il concessionario dell’immobile doveva ritenersi regolato non più dall’ormai inapplicabile d.m. 19.7.1984, ma dalla legge 392 del 1978 e comunque dalle norme del codice civile sul contratto di locazione;
-) erroneamente, pertanto, la Corte d’appello aveva ritenuto di assoggettare un rapporto tra privati a norme dettate per l’ipotesi in cui del rapporto fosse parte una pubblica amministrazione.
1.1. Il motivo è infondato.
Il giudice di merito ha accertato – né la circostanza è mai stata in contestazione tra le parti che l’originario rapporto concessorio è spirato il 1° luglio 1992.
A quella data il locatore aveva la veste di Pubblica Amministrazione.
L’amministrazione delle Poste e Telecomunicazioni è stata infatti trasformata in ente pubblico economico dall’art. 1, comma 12, del d.l. 1° dicembre 1993, n. 487 (convertito nella l. 29 gennaio 1994, n. 71); quindi in società per azioni dall’art. 2, comma 27, della l . 23 dicembre 1996, n. 662.
Da ciò discend e che all’epoca in cui venne a scadere il rapporto di concessione in godimento dell’immobile non era possibile una rinnovazione tacita del contratto, in virtù dell’obbligo della forma scritta ad substantiam richiesto per tutti i contratti della pubblica amministrazione (Sez. 1, Sentenza n. 21643 del 08/11/2005).
Da tempo, infatti, questa Corte ha stabilito a Sezioni Unite che la volontà di obbligarsi della pubblica amministrazione non può desumersi per facta concludentia , ma deve essere espressa nelle forme di legge e tra cui la forma iscritta, richiesta ad substantiam .
‘ Pertanto, in caso di locazione di un immobile di proprietà della pubblica amministrazione, non può trovare applicazione l ‘ istituto della rinnovazione tacita del contratto, che viene posto in essere con una manifestazione tacita di volontà di entrambe le parti contraenti, desunta dal fatto che il conduttore, alla scadenza del contratto, rimane nella detenzione della cosa locata senza l’opposizione del locatore, e che da luogo a un negozio giuridico nuovo ‘ (Sez. U, Sentenza n. 1817 del 06/07/1963; nello stesso senso, ex permultis , Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 13886 del 23/06/2011, Rv. 618737 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 1223 del 23/01/2006, Rv. 587132 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 258 del 08/01/2005, Rv. 579362 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 258 del 08/01/2005, Rv. 579362; Sez. 3, Sentenza n. 11649 del 03/08/2002, Rv. 556603 – 01).
In applicazione di questi princìpi, e proprio con riferimento ad una fattispecie identica a quella oggi in esame (concessione di alloggio da parte dell’ente Poste ad un dipendente), questa Corte ha stabilito che quando ‘ la concessione di alloggi di servizio in favore di dipendenti dell’ex Amministrazione delle Poste sia giunta a scadenza in data antecedente al mutamento del concedente da pubblica amministrazione ad ente privato, la
prosecuzione de facto della detenzione del bene da parte del concessionario non determina la trasformazione del rapporto in locazione ordinaria, a ciò ostando la natura pubblica dell’ente, che impone la forma scritta ad substantiam per i contratti da esso stipulati, sicché l’alloggio deve considerarsi occupato sine titulo a far data dalla scadenza della concessione ‘ (Sez. 3 – , Ordinanza n. 4262 del 16/02/2024).
1.2. Nemmeno potrebbe sostenersi che un rapporto contrattuale di fatto, giuridicamente impossi bile fino a quando l’ente concedente conservò la natura di pubblica amministrazione, sia sorto dopo la privatizzazione di quello.
Il ricorrente infatti assume che un rapporto contrattuale di fatto si sarebbe dovuto desumere dalla tacita prosecuzione del rapporto per molti anni. Questo principio tuttavia non è conforme a diritto.
Nel nostro ordinamento non vale l’antica regola qui tacet consentire videtur, si loqui potuisset ac debuisset . Vale, invece, una regola opposta: il silenzio non costituisce mai una manifestazione implicita di volontà, tranne nei casi in cui sia circostanziato : cioè accompagnato da condotte inequivoche.
Da ciò discende che la rinnovazione tacita della locazione (ed a fortiori la stipula d’una locazione ex novo ) non può dedursi né dal silenzio serbato dal conduttore dopo la scadenza del rapporto; né dalla permanenza del conduttore nell’immobile oltre tale termine; né dall’accettazione dei canoni da parte del locatore (Sez. 3, Sentenza n. 10963 del 06/05/2010, Rv. 612915 – 01): tutte condotte teoricamente spiegabili tanto con la volontà di proseguire il contratto, quanto con la semplice inerzia, negligenza od ignoranza.
Per potere ritenere avvenuta la stipula d’una locazione per effetto d’una manifestazione tacita di volontà è dunque necessario che le suddette condotte siano corroborate da altri elementi, idonei a far ritenere in modo non equivoco la volontà delle parti di mantenere in vita il rapporto locativo con rinuncia tacita, da parte del locatore, agli effetti prodotti dalla scadenza del contratto (Sez. 3, Sentenza n. 22234 del 20/10/2014, Rv. 632843 – 01;
Sez. 3, Sentenza n. 10963 del 06/05/2010, Rv. 612915 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 13346 del 07/06/2006, Rv. 590711 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 27731 del 16/12/2005, Rv. 585997 – 01).
1.3. Pertanto l’ affermazione della Corte d’appello secondo cui il silenzio serbato dalle parti non è un elemento decisivo è corretta in diritto; lo stabilire poi se in facto ricorressero o meno circostanze idonee a dimostrare una volontà di tacito rinnovo o di acquiescenza, da parte del locatore, all’inadempimento del conduttore è questione di fatto, riservata al giudice di merito e non sindacabile in questa sede.
1.4. Si rileva, altresì, che, là dove il motivo sostiene che la corte di merito abbia errato, perché, una volta avvenuta la trasformazione di Poste Italiane, sarebbe divenuta applicabile la legge n. 392 del 1978, omette di spiegare come e perché ciò sarebbe avvenuto e, dunque, la prospettazione risulta del tutto assertoria.
Col secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 1362 c.c. Deduce che la Corte d’appello avrebbe male interpretato la comparsa di risposta depositata dall’odierno ricorrente nel giudizio di secondo grado . Sostiene che la Corte d’appello ha ritenuto che il convenuto avesse basato la propria difesa sull’assunto che l’ originaria concessione del 1982 prevedesse e consentisse il tacito rinnovo all’infinito. Per contro – deduce il ricorrente le proprie difese erano basate sull’assunto che il contratto fosse stato rinnovato per facta concludentia , e non perché lo consentisse la concessione originaria.
2.1. Il motivo resta assorbito dal rigetto del primo.
Col terzo motivo il ricorrente prospetta il vizio di omesso esame d’un fatto decisivo. Individua tale fatto nella durata ventennale del silenzio
serbato dalla Poste Italiane, che solo nel 2012 manifestò la volontà di rientrare in possesso dell’immobile.
Una così lunga durata – deduce in sostanza il ricorrente – avrebbe dovuto indurre il giudicante a ritenere di per sé provata la tacita volontà di proseguire il rapporto, secondo le previsioni della l. 392 del 1978.
3.1. Il motivo è infondato per due ragioni.
In primo luogo è infondato perché la circostanza è stata presa in esame dalla Corte d’appello, alle pp. 12-15, e dunque non vi è stata alcuna omissione.
In secondo luogo è infondato perché, per quanto detto al precedente § 1.2, la durata del silenzio non è un elemento di per sé decisivo al fine di ritenere concluso o rinnovato un contratto di locazione.
Inoltre, nuovamente ribadisce la prospettazione invocante la l. n. 392 del 1978, ma sempre in termini del tutto assertori.
Col quarto motivo il ricorrente formula una censura (prospettata cumulativamente come violazione di legge e nullità processuale, ex art. 360 nn. 3 e 4 c.p.c.) che si può riassumere come segue:
-) la Corte d’appello ha ritenuto insussistente un rapporto locativo de facto argomentando anche dal fatto che, prima dell’introduzione del giudizio, vi fu un carteggio tra la Poste Italiane s.p.a. e l’avv. NOME COGNOME incaricato dal conduttore, nel quale il secondo ammetteva in sostanza l’inesistenza d’un contratto di lo cazione de facto ;
-) quel carteggio tuttavia non si sarebbe potuto utilizzare, perché l’avv . NOME COGNOME non aveva ricevuto ‘alcun mandato scritto’ dal cliente, ed aveva scritto alla Poste Italiane ‘ motu proprio’ (così il ricorso, p. 15-16);
-) la contestazione d’un potere rappresentativo in capo all’avv. NOME COGNOME costituiva una mera difesa, come tale proponibile anche dal contumace tardivamente costituitosi;
-) ergo , illegittimamente la Corte d’appello qualificò come ‘tardiva’ la suddetta eccezione.
4.1. Il motivo resta assorbito dal rigetto del primo motivo.
In ogni caso -lo si rileva ad abundantiam -esso sarebbe stato inammissibile per difetto di decisività.
La Corte d’appello infatti ha qualificato non solo ‘tardiva’ la suddetta eccezione, ma prima ancora ‘generica’: statuizione quest’ultima che non viene espressamente censurata.
Il quinto motivo investe il capo di sentenza che ha ritenuto corretta la liquidazione del danno compiuta dalla Corte d’appello.
Esso, sebbene formalmente unitario, contiene due diverse censure.
5.1. Con una prima censura è denunciata la violazione del principio di ‘non contestazione’ (artt. 115 e 293 c.p.c.).
Deduce il ricorrente che erroneo fu il giudizio con cui la Corte d’appello ritenne ‘non contestato’ il credito vantato da Poste Italiane sia a titolo di canoni scaduti, sia a titolo di risarcimento del danno causato dell’occupazione sine titulo dell’immobile.
Allega di avere contestato l’esistenza del credito per canoni scaduti nella comparsa di costituzione e risposta depositata in primo grado, e di avere poi contestato l’ammontare del preteso risarcimento del danno da occupazione illegittima nella comparsa di costituzione depositata in appello.
Aggiunge il ricorrente che le contestazioni sull’esistenza del credito contestato e sul suo ammontare costituiscono mere difese, che in quanto tali potevano essere proposte per la prima volta in secondo grado.
5.1.1. La censura è inammissibile per difetto di decisività.
Infatti la Corte d’appello, anche se ha affermato che NOME COGNOME non contestò né il credito per canoni scaduti (p. 18, penultimo capoverso, della sentenza d’appello ), né l’esistenza del danno da ritardato rilascio (p.
20, penultimo capoverso), non ha deciso la causa in base al principio della non contestazione. Ha, al contrario, ritenuto:
-) quanto ai canoni scaduti, che NOME COGNOME non aveva ‘ prodotto in giudizio alcuna documentazione idonea a comprovare il pagamento dei canoni (…) nella misura pretesa dalla concedente’ (p. 19 della sentenza impugnata, primo capoverso);
-) quanto al risarcimento del maggior danno ex art. 1591 c.c., la Corte d’appello ha indicato le ragioni per le quali il conteggio effettuato dalla Poste Italiane s.p.a. doveva ritenersi corretto (p. 21).
La Corte d’appello pertanto ha deciso la causa applicando i princìpi sull’onere della prova, ed il richiamo alla ‘non contestazione’ – quale che ne fosse la fondatezza – non è decisivo nel contesto della motivazione.
5.2. Con una seconda censura (pp. 18 e ss. del ricorso) NOME COGNOME lamenta la violazione dell’art. 1591 c.c.. Deduce che la Corte d’appello ha ritenuto dimostrata l’esistenza del ‘ maggior danno ‘ , di cui all’art. 1591 c.c., sulla base di indizi che erano privi dei caratteri di cui all’art. 2729 c.c..
5.1. Il motivo è manifestamente inammissibile, in quanto censura un tipico apprezzamento di fatto, quale è lo stabilire se gli indizi raccolti siano o non siano gravi, precisi e concordanti.
La Corte in ogni caso ha calcolato il valore locativo dell’ immobile moltiplicando la superficie convenzionale per l’aliquota stabilita dal Comune di Palermo per l’area ove sorge il fabbricato (p. 20 della sentenza), criterio non irragionevole né contrastante con l’art. 2729 c.c..
Le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza, ai sensi dell’art. 385, comma 1, c.p.c., e sono liquidate nel dispositivo.
P.q.m.
(-) rigetta il ricorso;
(-) condanna NOME COGNOME alla rifusione in favore di Poste Italiane s.p.a. delle spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano nella somma di euro 3.500, di cui 200 per spese vive, oltre I.V.A., cassa forense e spese forfettarie ex art. 2, comma 2, d.m. 10.3.2014 n. 55;
(-) ai sensi dell’art. 13, comma 1quater , del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza Sezione civile