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Rinnovazione tacita e PA: no al contratto di fatto

La Corte di Cassazione ha stabilito che non può esserci rinnovazione tacita di un contratto di concessione di un immobile se, alla data di scadenza, il concedente era una Pubblica Amministrazione. Il caso riguardava un ex dipendente che, dopo la scadenza del contratto per un alloggio di servizio nel 1992, aveva continuato a occupare l’immobile per decenni. La Corte ha chiarito che la necessità della forma scritta per i contratti della P.A. impedisce la formazione di un nuovo rapporto per facta concludentia, anche se l’ente è stato successivamente privatizzato. L’occupazione, pertanto, è stata considerata senza titolo.

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Rinnovazione Tacita e Pubblica Amministrazione: il Silenzio non Basta

La Corte di Cassazione, con una recente ordinanza, torna a pronunciarsi su un tema di grande rilevanza pratica: la rinnovazione tacita dei contratti di concessione e locazione. La vicenda analizzata offre lo spunto per chiarire un principio fondamentale: quando una delle parti è una Pubblica Amministrazione, il semplice silenzio o la tolleranza non possono mai dare vita a un nuovo rapporto contrattuale. La forma scritta, in questi casi, è un requisito invalicabile.

I fatti di causa: una concessione scaduta da decenni

La controversia nasce da un rapporto sorto nel lontano 1982, quando l’allora Amministrazione delle Poste e Telecomunicazioni concedeva in uso un proprio appartamento a un dipendente. Il contratto prevedeva una durata di tre anni, rinnovabile per altri tre.

Alla scadenza del periodo massimo di sei anni, nel 1992, il dipendente rimaneva nel godimento dell’immobile senza che l’Amministrazione Postale adottasse alcun provvedimento. Questa situazione di fatto si protraeva per oltre vent’anni, durante i quali l’ente pubblico subiva una profonda trasformazione, diventando prima ente pubblico economico e poi una società per azioni di diritto privato.

Nel 2016, la società conveniva in giudizio l’ex dipendente, chiedendo la condanna al rilascio dell’immobile, ormai detenuto sine titulo, e al risarcimento dei danni per l’occupazione illegittima.

L’iter giudiziario: decisioni contrastanti

Il percorso processuale è stato altalenante. In primo grado, il Tribunale accoglieva l’eccezione di prescrizione sollevata dal convenuto, dichiarando estinto il diritto della società.

Di parere opposto la Corte d’Appello, che riformava la sentenza. I giudici di secondo grado ritenevano che, al momento della scadenza del contratto (1° luglio 1992), il concedente era ancora una Pubblica Amministrazione. Per questo motivo, non era possibile una rinnovazione tacita del rapporto, essendo richiesta per i contratti pubblici la forma scritta ad substantiam. Di conseguenza, l’occupazione era da considerarsi senza titolo fin da quella data, con conseguente condanna al rilascio e al pagamento di una cospicua indennità.

La questione della rinnovazione tacita con la Pubblica Amministrazione

Il cuore della decisione della Cassazione ruota attorno all’impossibilità di applicare l’istituto della rinnovazione tacita ai contratti stipulati dalla Pubblica Amministrazione. Il ricorrente sosteneva che, con la privatizzazione dell’ente, il rapporto avrebbe dovuto essere regolato dalle norme privatistiche sulla locazione, e la prolungata acquiescenza della società avrebbe dato vita a un nuovo contratto per facta concludentia.

La Suprema Corte ha rigettato questa tesi, riaffermando un principio consolidato: la volontà della Pubblica Amministrazione di obbligarsi deve sempre essere manifestata in forma scritta. Non può desumersi da comportamenti concludenti. Di conseguenza, alla scadenza del contratto nel 1992, non poteva verificarsi alcuna rinnovazione automatica. Il rapporto si era estinto e la permanenza nell’immobile era divenuta illegittima fin da subito.

La privatizzazione dell’ente non sana il passato

Un altro punto cruciale affrontato dalla Corte è l’irrilevanza della successiva trasformazione dell’ente in società per azioni. La Cassazione chiarisce che la natura del rapporto e le regole applicabili devono essere valutate con riferimento al momento in cui il contratto è scaduto. Poiché a quella data il locatore era un soggetto pubblico, vigeva l’obbligo della forma scritta.

La successiva privatizzazione non può ‘sanare’ una situazione già illegittima, né può far sorgere retroattivamente un rapporto contrattuale di fatto che era giuridicamente impossibile al momento della sua presunta origine. Il silenzio serbato per anni non costituisce mai una manifestazione implicita di volontà, ma può essere al più sintomo di inerzia, negligenza o ignoranza, condotte inidonee a fondare un nuovo vincolo contrattuale.

Le motivazioni

La Corte Suprema ha ritenuto infondati tutti i motivi di ricorso. Ha sottolineato che l’originario rapporto concessorio era spirato quando il locatore era una Pubblica Amministrazione, per la quale vige l’obbligo della forma scritta ad substantiam per tutti i contratti. Tale principio impedisce l’applicazione dell’istituto della rinnovazione tacita, che si basa su una manifestazione di volontà desunta da comportamenti concludenti. La Corte ha inoltre specificato che il silenzio, anche se prolungato per decenni, non è un elemento di per sé decisivo per ritenere concluso o rinnovato un contratto di locazione. È necessario che vi siano altri elementi idonei a dimostrare in modo non equivoco la volontà delle parti di mantenere in vita il rapporto. Infine, ha giudicato inammissibili le censure relative alla quantificazione del danno, poiché basate su un apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito e non su una violazione di legge.

Le conclusioni

L’ordinanza conferma il rigore formale che governa i contratti stipulati con la Pubblica Amministrazione, anche quando questi riguardano la gestione del patrimonio immobiliare. La decisione ribadisce che la tolleranza verso un’occupazione di fatto non può mai sostituire la necessaria manifestazione di volontà in forma scritta. Per gli occupanti, la lezione è chiara: la permanenza in un immobile pubblico dopo la scadenza del titolo non genera alcun diritto, e il rischio di un’azione per il rilascio e il risarcimento del danno rimane concreto, a prescindere dal tempo trascorso.

Se continuo a vivere in un immobile di proprietà di un ente pubblico dopo la scadenza del contratto, questo si rinnova automaticamente?
No. La Corte di Cassazione ha chiarito che i contratti stipulati con la Pubblica Amministrazione richiedono la forma scritta per la loro validità e anche per il loro rinnovo. La semplice permanenza nell’immobile e il silenzio dell’ente non sono sufficienti a determinare una rinnovazione tacita.

La privatizzazione di un ente pubblico può sanare un’occupazione senza titolo iniziata in precedenza?
No. La situazione giuridica va valutata secondo le norme vigenti al momento della scadenza del contratto. Se a quella data l’ente era pubblico, l’impossibilità di una rinnovazione tacita non viene meno per effetto della successiva trasformazione dell’ente in un soggetto privato.

Il silenzio del proprietario per molti anni è una prova sufficiente per dimostrare la volontà di rinnovare un contratto di locazione?
No. Secondo la giurisprudenza costante, il silenzio di per sé non costituisce una manifestazione di volontà. Per poter ritenere stipulato un nuovo contratto di locazione sono necessari comportamenti inequivocabili di entrambe le parti che dimostrino la volontà di proseguire il rapporto, e non la semplice inerzia.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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