Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 27674 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 27674 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 16/10/2025
ORDINANZA
sul ricorso 17298-2021 proposto da:
COGNOME, rappresentato e difeso dagli avvocati NOME COGNOME, NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
COMUNE FIRENZE, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME NOME;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 494/2020 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 04/01/2021 R.G.N. 623/2019;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 10/07/2025 dal AVV_NOTAIO COGNOME.
Fatti di causa
La Corte d’appello di Firenze, con la sentenza in atti, ha rigettato l’appello proposto da COGNOME NOME avverso la sentenza
Oggetto
R.G.N. 17298/2021
COGNOME.
Rep.
Ud. 10/07/2025
CC
del tribunale che aveva respinto il ricorso con il quale lo stesso lavoratore, architetto, già dirigente del Comune RAGIONE_SOCIALE Firenze, ed attualmente in pensione, aveva richiesto che il Comune fosse condannato a pagare il suo favore la somma di € 268.703,06 corrispondente alle spese di assistenza legale e tecnica che egli aveva sostenuto nei processi penali che aveva subito e che si erano conclusi con sentenza di assoluzione per insussistenza dei fatti contestati.
La Corte ha rilevato che la domanda azionata dall’architetto COGNOME era fondata sul disposto dell’art. 67 del d.p.r. 1987 n. 268 che pone a carico dell’ente pubblico datore di lavoro, a certe condizioni, le spese per il patrocinio legale del proprio dipendente per fatti connessi all’espletamento dei compiti di ufficio ed in mancanza di conflitto di interessi.
Nel caso di specie, tuttavia, ad avviso della Corte di appello, sussisteva il conflitto di interessi e dunque non era prospettabile l’obbligo da parte del Comune di sostenere i costi della difesa del dipendente, ciò in quanto il Comune si era costituito parte civile nel processo penale, in coerenza con i titoli degli addebiti mossi al proprio dipendente da parte dell’ufficio di procura.
Quanto al fatto che l’architetto, assolto con ampia formula, non avesse fatto altro che dare esecuzione a quanto deliberato dall’amministrazione comunale, senza alcun abuso, la Corte d’appello ha ritenuto che la valutazione sull’esistenza del conflitto di interessi andasse eseguita ex ante e che dunque nel caso di specie non fosse prospettabile l’obbligo da parte dell’ente di sostenere i costi della difesa del dipendente.
Ma nemmeno poteva soccorrere la tesi dell’appellante la formula assolutoria adottata dal giudice penale ‘dovendosi tener conto di quanto rilevato dalla Corte territoriale (come da ultimo
ricostruito anche nella sentenza penale della Cassazione 25039/2017) che ha definitivamente posto fine al giudizio’.
Ha rilevato la Corte che la sentenza penale avesse assolto il dirigente dai reati di abuso di ufficio e truffa ‘ perché non era accoglibile la costruzione accusatoria della procura fondata sull’effettiva natura di appalto dei rapporti intercorsi tra il Comune di Firenze e le società che avevano eseguito i lavori di cui si discuteva per essere stata realizzata invece la diversa fattispecie negoziale del project financing introdotta con la legge numero 415/98’.
La tipologia contrattuale adottata escludeva che i fatti di abuso d’ufficio contestati all’architetto COGNOME fossero penalmente rilevanti per non essere le singole condotte commissive ed omissive (di volte in volta individuate nella predisposizione degli atti di ricognizione con i quali di concludeva la procedura di revisione delle condizioni economiche, nell’omessa nomina di un direttore dei lavori nella omessa tenuta della contabilità di cantiere in contraddittorio con la parti) vietate nell’ambito della diversa fattispecie negoziale adottata dal Comune diversamente da quanto previsto nell’ambito di rapporti di appalto pubblico.
Quanto ai reati di truffa aggravata ai danni del Comune del pari contestati al dirigente gli episodi (redazione di atti con i quali si aumentavano artificiosamente i costi delle relative opere così da determinare la base per le revisioni di riequilibrio delle condizioni economiche, a svantaggio dell’amministrazione comunale) avrebbero dovuto leggersi sempre nell’ambito del complesso ed articolato tessuto contrattuale e dunque il pregiudizio economico conseguito eventualmente all’ente avrebbe dovuto costituire semmai fonte di responsabilità
contabile, senza che ciò comunque potesse trasformare i fatti contestati in fatti reato.
In sostanza, secondo la Corte di appello, era il rilievo penale dei fatti ad essere stato escluso, ma di certo non emergeva la conformità dell’operato del dirigente alle regole di prudenza e correttezza poste, massimamente in capo al responsabile del procedimento, in funzione della garanzia dell’interesse pubblico perseguito dall’ente.
Appariva quindi evidente che comunque buona parte delle condotte dell’architetto di NOME, non potevano ritenersi frutto dell’esercizio diligente della pubblica funzione e che il conflitto di interesse era dunque sussistente.
Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione NOME COGNOME con tre motivi ai quali ha resistito il Comune di Firenze con controricorso. IL ricorrente ha depositato memoria difensiva prima dell’udienza. Dopo la decisione, il Collegio ha autorizzato il deposito della motivazione nel termine di 60 giorni previsto dalla legge.
Ragioni della decisione
1.Con il primo motivo si sostiene la violazione falsa applicazione dell’articolo 67, d.p.r. 267/1987, dell’articolo 12 CCNL del 12/2/2002 area dirigenza, regioni ed enti locali ex articolo 360, numero 3 c.p.c. e degli articoli 1355 c.c. e 2697 c.c. poiché erroneamente la Corte territoriale ha interpretato tali disposizioni nel senso di considerare che stabiliscono come la sussistenza del conflitto di interesse emerga, in ogni caso, quando – sebbene in presenza di assoluzione del pubblico dipendente, perché il fatto non sussistela pubblica amministrazione si sia costituita parte civile pur senza svolgere alcuna azione disciplinare o denunciare per responsabilità contabile il dipendente medesimo.
2.- Con il secondo motivo si denuncia l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti ex articolo 360, numero 5 c.p.c., avendo i giudici fiorentini affermato la sussistenza del conflitto di interesse, ostativo al rimborso, nel ritenere che la condotta del ricorrente oggetto del procedimento penale si fosse realizzata come non conforme alle regole di prudenza e correttezza, e quindi al di fuori del suo rapporto di immedesimazione organica con il Comune di Firenze; mentre detta statuizione della Corte territoriale contrastava insanabilmente – e tale irriducibile discrasia emerge direttamente dalla sentenza impugnata – con quanto aveva accertato la sezione penale della Corte di appello con la sentenza n. 1637/2015, la quale, nell’assolvere COGNOME, ha altresì asserito come quest’ultimo avesse agito in esecuzione di quanto deliberato dal Comune di Firenze e in condivisione con assessori e funzionari di tale amministrazione e, perciò, nell’ambito e in funzione del perseguimento degli interessi dell’ente comunale.
E nel caso di specie il vizio ex art 360 n. 5 c.p.c. era ammissibile perché la prima e la seconda sentenza non erano conformi sul punto; avendo il primo giudice fondato la decisione soltanto sulla costituzione di parte civile; mentre la valutazione del concreto comportamento come negligente è stata effettuata solo dalla Corte di appello.
3.- Col terzo motivo si sostiene la nullità della sentenza per motivazione apparente e/o incomprensibile ex art. 360 numero 4 c.p.c. per violazione degli artt. 132 n.4 c.p.c. e 111 Cost. poiché restava comunque una mera asserzione – priva di riscontro oggettivo e contraria rispetto all’accertamento di fatto in sede penale, posta a base della decisione impugnata e richiamata nella motivazione di quest’ultima – quella della Corte
d’appello secondo cui COGNOME avrebbe operato senza la prudenza e la correttezza dovute e quindi al di fuori delle direttive dell’ente comunale.
4.1.- Tanto premesso va rilevato che la Corte d’appello di Firenze ha ritenuto che non sussistessero i presupposti per il rimborso delle spese legali del dirigente assolto in sede penale, perché il Comune si era costituito parte civile in considerazione dei fatti e dei titoli di reato addebitati al dirigente. Inoltre, secondo la stessa Corte d’appello, andava considerato che benché assolto per la liceità penale dei suoi comportamenti, non emergeva la conformità dell’operato del dirigente alle regole di prudenza e di correttezza perché le sue condotte non costituivano esercizio diligente della pubblica funzione, sicché il conflitto di interesse era comunque sussistente.
4.2. La pronuncia impugnata è sostenuta quindi da diverse ed autonome rationes decidendi, dato che la sussistenza del conflitto di interessi, posto a fondamento del rigetto della domanda di rimborso spese legali dell’appellante, è stata argomentata dalla Corte territoriale sotto due profili distinti: sia per effetto della costituzione di parte civile del Comune e dell’addebito di determinati titoli di reato. Sia perché, a prescindere dalla vicenda penalistica e dalla relativa costituzione di parte civile , l’operato del dirigente, in quanto capo responsabile del procedimento, non aveva rispettato le regole di prudenza e correttezza in funzione della garanzia dell’interesse pubblico perseguito dall’ente. Ed appariva evidente che buona parte delle condotte dell’architetto di COGNOME, non potevano ritenersi frutto dell’esercizio diligente della pubblica funzione.
5.- Relativamente a questa seconda autonoma ratio decidendi il ricorrente avanza, con i motivi secondo e terzo, due censure
dirette a contestare l’accertamento dei fatti e la congruità della motivazione: la prima sotto il profilo dell’omesso esame di un fatto decisivo ex art. 360 n. 5 c.p.c. (per non aver la Corte di appello valutato correttamente la sentenza della Corte di appello penale) e la seconda sotto il profilo della legittimità della motivazione (per non aver correttamente giustificato la tesi della negligenza che sarebbe rimasta una mera asserzione priva di riscontro oggettivo e contraria rispetto all’accertamento di fatto in sede penale, posta a base della decisione impugnata e richiamata nella motivazione di quest’ultima).
6. La prima critica deve essere però disattesa posto che, pur non esistendo una ‘doppia conforme’, per la diversità di argomentazioni e di soluzioni adottate in primo ed in secondo grado, ai fini della ricostruzione dei fatti la Corte di appello ha fatto esplicito riferimento alla sentenza penale di appello n. 1637/2015 osservando proprio di dover ‘tener conto di quanto rilevato dalla Corte territoriale (come da ultimo ricostruito anche nella sentenza penale della Cassazione 25039/2017) che ha definitiva mente posto fine al giudizio’.
E sulla scorta di tali richiami (sentenza d’appello n. 1637/2015 e sentenza di Cassazione n. 25039/2017) ha individuato le condotte addebitate al lavoratore tali da essere sussunte in un giudizio di negligenza (non specificamente censurato sotto il profilo giuridico) che sarebbe stato ostativo -ad avviso della Corte -del diritto al rimborso in quanto confermativo dell’esistenza di un conflitto di interessi.
E’ infondato perciò sostenere che la Corte abbia omesso di valutare i fatti, posto che non costituisce violazione dell’art.360 n. 5 c.p.c. l’omessa valutazione di un fatto probatorio quanto i fatti cui esso si riferisce sono stati comunque valutati; il ricorrente censura quindi inammissibilmente, quello che
sarebbe stato, in realtà, un vero e proprio errore processuale, consistente nel non aver valutato la prova documentale offerta, errore processuale che perciò avrebbe dovuto essere, semmai, denunciato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 (Cass. sez. 2 n. 1063 del 2005; Cass. sez. 2 n. 1317 del 2004).
La censura afferisce quindi all’accertamento di fatto compiuto dalla Corte; accertamento che è di pertinenza del giudice di merito ed il cui sindacato è inibito a questa Corte di legittimità , salvo appunto lo specifico vizio denunciabile in cassazione ex art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, come statuito sul punto dalle Sez. Un. sentenza n. 8053 del 07/04/2014, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. n. 27815/2018).
Nel caso di specie, come già detto, la Corte di appello non ha omesso la valutazione, né ignorato nessun fatto decisivo; avendo essa stessa individuato i fatti in discorso, desumendoli
dalle sentenze penali citate, non ha potuto violare quindi la norma in oggetto non avendo omesso l’esame circa un fatto decisivo per il giudizio ‘che è stato oggetto di discussione tra le parti’ (ulteriore requisito richiesto dal vizio ex art 360 n. 5 c.p.c. di cui il ricorrente non ha dato alcun riscontro nel motivo di ricorso in esame); mentre neppure può costituire tecnicamente vizio deducibile ex art. 360 n. 5 c.p.c. l’omessa valutazione della singola prova allorchè comunque i fatti storici di cui si discute siano stati individuati e presi in considerazione, come nel caso di specie.
8.La contigua censura, sollevata col terzo motivo, relativamente alla mancanza o incongruità della motivazione circa l’esistenza della negligenza deve essere del pari rigettata posto che la Corte ha esternato le ragioni della decisioni senza contraddizioni logiche, in quanto secondo il chiaro giudizio della Corte ai fini del conflitto di interessi, a prescindere dall’esito del giudizio penale, rileverebbero anche le condotte negligenti individuate come commesse dal dirigente.
9.- Come già detto, la Corte ha invero affermato che non potesse soccorrere la tesi sostenuta dall’appellante la formula assolutoria adottata dal giudice penale dovendosi tener conto di quanto rilevato dalla Corte territoriale (come da ultimo ricostruito anche nella sentenza penale della Cassazione 25039/2017) che aveva definitivamente posto fine al giudizio. Ed ha considerato che la sentenza penale avesse assolto il dirigente dai reati di abuso di ufficio e truffa perché non era accoglibile la costruzione accusatoria della procura fondata sull’effettiva natura di appalto dei rapporti intercorsi tra il Comune di Firenze e le società che avevano eseguito i lavori di cui si discuteva per essere stata realizzata invece la diversa fattispecie negoziale del project financing introdotta con la legge
numero 415/98. La tipologia contrattuale adottata escludeva che i fatti di abuso d’ufficio contestati all’architetto COGNOME fossero penalmente rilevanti per non essere le singole condotte commissive ed omissive (di volte in volta individuate nella predisposizione degli atti di ricognizione con i quali di concludeva la procedura di revisione delle condizioni economiche, nell’omessa nomina di un direttore dei lavori nella omessa tenuta della contabilità di cantiere in contraddittorio con la parti) viet ate nell’ambito della diversa fattispecie negoziale adottata dal Comune diversamente da quanto previsto nell’ambito di rapporti di appalto pubblico.
Quanto ai reati di truffa aggravata ai danni del Comune del pari contestati al dirigente gli episodi (redazione di atti con i quali si aumentavano artificiosamente i costi delle relative opere così da determinare la base per le revisioni di riequilibrio delle condizioni economiche, a svantaggio dell’amministrazione comunale) avrebbero dovuto leggersi sempre nell’ambito del complesso ed articolato tessuto contrattuale e dunque il pregiudizio economico conseguito eventualmente all’ente avrebbe dovuto costituire semmai fonte di responsabilità contabile, senza che ciò comunque potesse trasformare i fatti contestati in fatti reato.
In sostanza, era il rilievo penale dei fatti ad essere stato escluso, ma di certo non emergeva la conformità dell’operato del dirigente alle regole di prudenza e correttezza poste, massimamente in capo al responsabile del procedimento, in funzione della garanzia dell’interesse pubblico perseguito dall’ente.
Appariva quindi evidente che comunque buona parte delle condotte dell’architetto di NOME, non potevano ritenersi
frutto dell’esercizio diligente della pubblica funzione e che il conflitto di interesse era dunque sussistente.
10.- Alla luce di tali premesse contenute nella sentenza, risulta quindi che il motivo in discorso mira piuttosto a rimettere in discussione l’accertamento operato dal giudice di secondo grado senza tener conto che la scelta delle risultanze probatorie involge apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare, appunto, le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata’ (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 12362 del 24/05/2006,: conf. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 11511 del 23/05/2014, 631448; Cass. Sez. L, Sentenza n. 13485 del 13/06/2014).
11.- In secondo luogo va ribadito che nella sentenza impugnata non esistono vizi di motivazione di alcuna natura posto che nell’attuale assetto ordinamentale il vizio di motivazione può essere censurato in c assazione ai sensi dell’art. 360 n. 4 in relazione all’art. 132, comma 2, n. 4 c.p.c. nei limiti di garanzia del minimo costituzionale e con esclusione del controllo sulla sufficienza della motivazione stessa (cfr., per tutte, Cass. s.u. 8053/2014), e pertanto solo nel caso in cui la motivazione sia totalmente mancante o meramente apparente o manifestamente contraddittoria o incomprensibile (Cass. S. U. n. 22232/2016; Cass. n. 23940/2017; Cass. n. 22598/2018): ipotesi, tutte, non ravvisabili nel ragionamento logico-giuridico della impugnata pronuncia.
Nel caso di specie la motivazione adottata dai giudici di merito è invero chiara, razionale e lineare, nell’indicare che il dirigente avesse commesso delle condotte negligenti che esprimevano un conflitto di interessi col Comune nel suo agire istituzionale; ed essa consente quindi di individuare con completezza il percorso logico seguito dal giudice giustificando sul piano argomentativo la decisione assunta.
12.- Neppure può esistere il vizio di travisamento della prova perché la Corte d’appello ha fondato la responsabilità del lavoratore sulle fonti di prova costituite dalle sentenze citate e le questioni sollevate nei motivi non potrebbero portare neppure al vizio di ‘travisamento della prova’ nei limiti posti dalle Sezioni unite di questa Corte che hanno chiarito: «Il travisamento del contenuto oggettivo della prova, il quale ricorre in caso di svista concernente il fatto probatorio in sé, e non di verifica logica della riconducibilità dell’informazione probatoria al fatto probatorio, trova il suo istituzionale rimedio nell’impugnazione per revocazione per errore di fatto, in concorso dei presupposti richiesti dall’articolo 395, n. 4, c.p.c., mentre, ove il fatto probatorio abbia costituito un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare, e cioè se il travisamento rifletta la lettura del fatto probatorio prospettata da una delle parti, il vizio va fatto valere, in concorso dei presupposti di le gge, ai sensi dell’articolo 360, nn. 4 e 5, c.p.c. , a seconda si tratti di fatto processuale o sostanziale» (Cass. SS.UU. n. 5792 del 2024); concorso dei presupposti di legge che nella specie non ricorre, sia per quanto riguarda il vizio di cui al n. 4 de ll’articolo 360 c.p.c., atteso che la motivazione impugnata certamente supera sul punto la soglia del cd. ‘minimum costituzionale’ e non presenta alcuna inconciliabilità sul piano logico, sia in ordine al vizio di cui al n. 5 dell’art. 360
c.p.c., in mancanza degli enunciati prescritti da Cass. SS.UU.
nn. 8053 e 8054 del 2014, secondo quanto già messo in luce. 13.- Una volta rigettati i motivi secondo e terzo, che si dirigono contro la autonoma ratio decidendi che ha individuato il conflitto di interessi giustificato da uno scorretto esercizio delle funzioni, diviene inammissibile il primo motivo con cui si censura la parte della sentenza nella quale la Corte di appello ha argomentato la tesi del conflitto di interessi sulla scorta della mera costituzione di parte civile del Comune e/o per i titoli di reato contestati alla dipendente. E’ invero ius receptum che ( Cass. n. 5102/2024) ‘qualora la decisione di merito si fondi su di una pluralità di ragioni, tra loro distinte e autonome, singolarmente idonee a sorreggerla sul piano logico e giuridico, la ritenuta infondatezza delle censure mosse ad una delle rationes decidendi rende inammissibili, per sopravvenuto difetto di interesse, le censure relative alle altre ragioni esplicitamente fatte oggetto di doglianza, in quanto queste ultime non potrebbero comunque condurre, stante l’intervenuta definitività delle altre, alla cassazione della decisione stessa.’.
14.- Per le ragioni esposte il secondo ed il terzo motivo di ricorso debbono essere rigettati mentre va dichiarato inammissibile il primo ed il ricorrente va condannato al pagamento delle spese processuali come in dispositivo.
15.Sussistono altresì le condizioni per il versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dell’articolo 13, comma 1 bis d.p.r. n. 115/2002.
P.Q.M.
La Corte rigetta il secondo ed il terzo motivo di ricorso, dichiara inammissibile il primo e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali che si liquidano in € 5000,00 per
compensi e € 200,00 per esborsi, oltre al rimborso forfettario nella misura del 15% e agli altri oneri di legge.
Ai sensi dell’articolo 13, comma 1 quater d.p.r. n.115 del 2000, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13.
Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale del 10.7.2025
La Presidente dott.ssa NOME COGNOME