Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 23792 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 23792 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 23/08/2025
ORDINANZA
sul ricorso 26937-2021 proposto da:
COGNOME rappresentata e difesa dagli avvocati COGNOME NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
ASL ROMA 2, in persona del Direttore legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 602/2021 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 19/04/2021 R.G.N. 1189/2020; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 18/06/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME.
Fatti di causa
Oggetto
PUBBLICO IMPIEGO
R.G.N.26937/2021
Ud 18/06/2025 CC
1. Con ricorso depositato in data 27.6.2017, NOME COGNOME ha adito il Tribunale di Roma, in funzione di Giudice del Lavoro, convenendo in giudizio la ASL RM 2, e ha premesso di essere un medico specializzato in radiodiagnostica con particolare riferimento ai tumori del seno e di avere stipulato con la Azienda sanitaria prima, in data 10/09/2006, un contratto per un incarico di collaborazione in qualità di medico radiologo specializzato nella diagnostica senologica e, di seguito, un contratto a tempo indeterminato a decorrere dal 16.4.2008, in qualità di Specialista nella branca di Radiodiagnostica. Ha dedotto che di seguito la ASL, tra l’aprile del 2012 e il dicembre 2013, aveva reiteratamente richiesto alla ricorrente di collaborare nell’analisi di attività di rilevanza strategica connesse con il programma di analisi preventive mammografiche e di relazionare sullo stato dei servizi offerti che avevano evidenziato anomalie di carattere tecnico, organizzativo e gestionale; che la ricorrente nei primi mesi del 2014 depositava ai vertici della Asl tre relazioni illustrative di gravi illeciti riscontrati « sull’attività libero -professionale svolta in orario di servizio nella U.O.C. DI radiodiagnostica e radiologia interventistica degli o spedali Sant’Eugenio e C.T.O. », in cui evidenziava gravi irregolarità da parte di medici nello svolgimento dell’attività intramoenia, che veniva espletata durante turni di pronto soccorso e comunque in orari non consentiti; rilevava la mancata effettuazione di esami rendicontati e rilevava infine gravi carenze nella strumentazione a disposizione per gli esami; che la ASL avviava procedimenti disciplinari nei confronti del personale medico coinvolto, i quali si concludevano con sanzioni disciplinari di natura conservativa; che in data 27 giugno 2014, la dipendente presentava formale denuncia-querela per i reati ravvisabili nelle condotte descritte
dalle sue relazioni; che la Asl con ordine di servizio definitivo, datato 19 giugno 2014, assegnava la ricorrente al Poliambulatorio della Gioia e cioè presso una struttura coordinata da uno dei medici coinvolti nelle irregolarità denunciate dalla ricorrente. NOME COGNOME segnalava che tale assegnazione avrebbe comportato una grave violazione delle tutele di cui alla normativa anticorruzione, nonché dell’art. 2087 c.c., rifiutava di prendere servizio e si dichiarava a disposizione per l’individuazione di sedi alternative. La ricorrente spiegava formale eccezione d’inadempimento ex art. 1460 c.c. nei confronti della ASL. L’ASL reiterava l’ordine di ripresa del servizio, la ricorrente persisteva nel rifiuto ritenendo legittima l’eccezione di inadempimento . Si susseguivano poi una serie di sanzioni conservative irrogate dalla Asl alla dottoressa COGNOME fino alla sanzione definitiva irrogata nel settembre del 2016. Tanto premesso NOME COGNOME concludeva chiedendo: dichiarare la nullità e/o la natura discriminatoria e/o l’illegittimità del provvedimento di cessazione dell’incarico con preavviso adottato nei suoi confronti in data 30 novembre 2016 dalla Asl e di tutte le precedenti sanzioni conservative subite; conseguentemente, condannare la Asl alla reintegrazione nel posto di lavoro della ricorrente e all’erogazione delle retribuzioni non corrisposte; condannare la Asl al risarcimento del danno per la retribuzione globale di fatto dovuta e non percepita; condannare la ASL al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali nonché al risarcimento del danno da dequalificazione professionale del danno all’immagine e del danno da perdita di chance. La Asl Roma n. 2 si costituiva in giudizio chiedendo il rigetto del ricorso e svolgendo domanda riconvenzionale per il risarcimento dei danni arrecati con la sua
condotta dalla ricorrente. Il Tribunale di Roma rigettava la domanda principale e la domanda riconvenzionale.
NOME COGNOME proponeva appello. La Asl Roma n. 2 si costituiva chiedendo il rigetto del gravame. Con la sentenza n. 602/2021 depositata il 19/04/2021 la Corte di Appello di Roma, sezione lavoro, respingeva l’appello.
Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione NOME COGNOME articolando cinque motivi, il secondo spiegato sotto quattro diversi profili. La Asl Roma n. 2 si è costituita con controricorso chiedendo il rigetto dell’impugnazione.
La parte ricorrente e la parte controricorrente hanno depositato memorie ai sensi dell’art. 380 -bis 1 c.p.c..
Il ricorso è stato trattato dal Collegio nella camera di consiglio del 18 giugno 2025.
Ragioni della decisione
Con il primo motivo si deduce ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c. violazione degli artt. 24 e 117 cost., 2697 c.c., 416 e 436 c.p.c., 55-bis d.lgs. n. 165 del 2001 e dell’accordo collettivo nazionale del 17.12.2015 e si critica la sentenza impugnata per aver respinto l’eccezione formulata dalla difesa di NOME COGNOME circa l’intervenuta decadenza dall’azione disciplinare per mancato ri spetto del termine iniziale di avvio della contestazione. Secondo la parte ricorrente il termine di de correnza dell’azione disciplinare doveva decorrere dal giorno 04/08/2016 e cioè dal giorno in cui l’Ufficio titolare del potere disciplinare aveva avuto formale notizia dei fatti all’origine dell’addebito sicché il termine di quaranta giorni, da considerarsi perentorio per legge, era già decorso quando la contestazione era stata consegnata al messo postale in data 14/09/2016. La sentenza impugnata avrebbe errato, invertendo
l’onere della prova circa la tempestività della irrogazione della sanzione disciplinare rispetto al giorno in cui l’Ufficio competente aveva avuto notizia. Secondo la ricorrente, una volta contestata la tardività della sanzione disciplinare, spettava all’Ente irrogante fornire la prova della data di recezione della notizia e, per questa via, della tempestività della sanzione e la Corte non avrebbe rilevato che la Asl nel costituirsi in giudizio aveva omesso qualsiasi contestazione sul punto.
1.1. Il motivo è infondato. La Corte di Appello ha valorizzato, in modo coerente e motivato, come vi fosse evidenza agli atti che la nota di segnalazione all’origine della sanzione, datata 04/08/2016, fosse stata spedita con raccomandata e non potesse essere arrivata all’Ufficio che ha irrogato la sanzione prima del giorno 05/08/2016 con conseguente tempestività della contestazione inviata il 14/09/2016. La Corte in ragione dell’esame diretto dei documenti ha valutato la tempestività della contestazione disciplinare. Non colgono nel segno le argomentazioni spese dal ricorrente circa la pretesa violazione dei criteri di ripartizione dell’onere della prova. Non vi è questione di onere della prova perchè la evidenza della tempestività della sanzione era già in atti ed il Giudice, chiamato a definire la decorrenza del termine, la ha valutata in via autonoma in ragione dei documenti acquisiti al processo senza esercitare di ufficio poteri di contestazione ovvero di controeccezione riservati alla parte. Il giudice del merito non ha fatto applicazione dell’art. 2697 c.c. e delle regole sulla ripartizione dell’onere della prova, ma ha ricostruito in fatto le circostanze di rilievo ai fini della tempestività della irrogazione della sanzione con ragionamento presuntivo in questa sede inattaccabile.
Con il secondo motivo il ricorso deduce ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. violazione degli artt. 1460 e 2087 c.c., 54-bis d.lgs. n. 165/2001; 13 del dpr n. 62 del 2013 (codice di comportamento dei dipendenti pubblici) e 18 del d.lgs. n. 81 del 2008.
2.1. Sotto il primo profilo, si deduce che la decisione della Corte di Appello sarebbe in contrasto con il consolidato orientamento di questa corte circa l’esperibilità dell’eccezione di inadempimento da parte del lavoratore, con conseguente legittimità del rifiuto di rendere la prestazione lavorativa secondo determinate modalità quando le stesse modalità imposte dal datore di lavoro siano illegittime (Cass. 19/07/2019, n. 19579) ovvero quando comunque il rifiuto sia conforme a buona fede perché l’esecuzione della prestazione sia idonea a incidere negativamente su fondamentali esigenze di vita e familiari del prestatore di lavoro (Cass. 29/03/2019, n. 8911; Cass. 11/05/2018, n. 11408).
Sotto questo primo profilo il motivo è infondato perché consiste nel semplice richiamo ai principi giurisprudenziali di rilievo in materia di eccezione di inadempimento e buona fede del lavoratore ma non si confronta con la motivazione della corte di appello che, tenuti presenti quei principi, ha affermato che nel concreto la condotta di NOME COGNOME rappresentava grave inadempimento degli obblighi del lavoratore, connotandosi il rifiuto di prestare in senso assoluto la prestazione lavorativa in termini di contrarietà alla buona fede quale regola oggettiva di condotta negoziale e tanto perché il rifiuto si è prolungato per due anni, perché è proseguito nonostante plurime sanzioni conservative mai impugnate dalla lavoratrice e perché NOME COGNOME ha trascurato le proposte del datore di lavoro circa la ripresa del servizio e la ricollocazione. La sentenza della
Corte di Appello, dopo aver escluso la sussistenza dell’inadempimento che la lavoratrice imputava alla Asl, e dopo in ogni caso averne escluso la gravità e l’idoneità a mettere in pericolo primarie esigenze personali, di salute e lavorative della dipendente, ha concluso prendendo atto della mancanza di proporzionalità tra l’inadempimento realizzato dalla odierna ricorrente e quello attribuito alla Azienda Sanitaria.
2.2. In questo modo la motivazione della sentenza impugnata si è conformata ai principi di diritto più volte affermati dalla giurisprudenza di questa Corte: si consideri in proposito che «per stabilire se l’eccezione di inadempimento è stata sollevata in buona fede, il giudice di merito deve verificare se la condotta della parte in concreto inadempiente ha influito sull’equilibrio sinallagmatico del contratto, avuto riguardo all’interesse della controparte, valutando la proporzionalità tra i rispettivi inadempimenti, non già in rapporto alla rappresentazione soggettiva delle parti, bensì in relazione alla situazione oggettiva» (Cass. 18/02/2025 n. 4134).
Con il secondo profilo di doglianza nel quale si articola il secondo motivo, la ricorrente deduce ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. violazione dell’art. 54 -bis d.lgs. n. 165/2001 e dell’art. 1460 c.c. e contesta la sentenza della Corte di Appello nella parte in cui non avrebbe tenuto in conto adeguato le ragioni sempre poste dalla ricorrente a fondamento della eccezione di inadempimento e cioè la circostanza che lavorando presso il centro di destinazione sarebbe stata sottoposta alla direzione e al coordinamento del dott. COGNOME coinvolto nelle relazioni e nelle denunce presentate dalla ricorrente, con conseguente violazione dell’art. 54 -bis d.lgs. 165/2001 e della speciale normativa anticorruzione.
3.1. Il profilo di doglianza, per come articolato, è inammissibile. La sentenza della Corte di Appello, all’esito dell’esame del materiale istruttorio acquisito, dopo aver ampiamente argomentato circa l’applicabilità dell’art. 54 -bis del TUPI esclude che il rifiuto di rendere la propria prestazione lavorativa da parte della Bianchi sia stato conforme a buona fede e ad una legittima opposizione di eccezione di inadempimento. Tanto perché, secondo la Corte territoriale, risultava smentita documentalmente la principale ragione opposta dalla ricorrente a fondamento del rifiuto di adempiere alla propria posizione e cioè la sottoposizione a poteri gerarchici ovvero a diretta dipendenza dal dott. COGNOME e cioè da un medico coinvolto nelle denunce della Bianchi e negli accertamenti conseguenti, tanto perché secondo la Corte di Appello altri erano i dirigenti medici che presiedevano all’ufficio di assegnazione della Bianchi.
3.2. La Corte di Appello, per questa via, non elude il disposto dell’art. 54 -bis del TUPI che recita: «art. 54-bis. – (Tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti). – 1. Fuori dei casi di responsabilità a titolo di calunnia o diffamazione, ovvero per lo stesso titolo ai sensi dell’articolo 2043 del codice civile, il pubblico dipendente che denuncia all’autorità giudiziaria o alla Corte dei conti, ovvero riferisce al proprio superiore gerarchico condotte illecite di cui sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro, non può essere sanzionato, licenziato o sottoposto ad una misura discriminatoria, diretta o indiretta, avente effetti sulle condizioni di lavoro per motivi collegati direttamente o indirettamente alla denuncia».
3.3. La Corte di Appello accerta, in punto di fatto, che difettavano i presupposti per collegare «direttamente o indirettamente» la condotta sanzionata, il rifiuto reiterato della
prestazione lavorativa per due anni nonostante diverse sanzioni conservative e progressive, alla denuncia svolta dalla Bianchi e, per questa via, difettavano i presupposti per l’applicazione della disposizione invocata. Tale valutazione in diritto va esente da censure, ad avviso del Collegio, nella misura in cui la Corte di Appello ha considerato che l’ultima e definitiva sanzione non poteva essere collegata in via diretta o indiretta alla denuncia perché, una volta esclusa la natura ritorsiva della assegnazione al posto di lavoro e una volta esclusa l’esposizione della Bianchi a condotte ritorsive del medico denunciato, la sanzione definitiva trovava autonoma ed esclusiva spiegazione nel rifiuto reiterato di prestare la propria prestazione lavorativa. La Corte di Appello ha valutato il dedotto collegamento tra denuncia e sanzione sul piano obiettivo che è, poi, l’unico piano valutabile per la retta applicazione delle disposizioni invocate, dovendo essere esclusa la rilevanza di rappresentazioni soggettive.
3.4. Il motivo, a bene vedere, lungi dal contestare tali passaggi dettati dalla interpretazione della disposizione, piuttosto contesta l’accertamento in fatto condotto dalla Corte circa le modalità di svolgimento del rapporto di lavoro e circa i presupposti per ritenere l’applicabilità della disposizione. Si tratta di sovrapporre all’accertamento condotto dalla sentenza impugnata una ricostruzione del materiale probatorio diversa ed opposta e, per questa via, si tratta di una attività irriferibile a questa Corte in ragione del carattere tipico del giudizio di cassazione.
3.5. La Corte di Appello, poi, con osservazioni non attinte dal ricorso, e di per sé stesse idonee a sostenere la motivazione, osserva come la condotta della ricorrente non potesse qualificarsi in termini di eccezione di inadempimento sia perché era insussisten te l’inadempimento contestato alla Asl sia perché
l’aver reiterato il rifiuto di prestare servizio per due anni interi e nonostante l’irrogazione di diverse e progressive sanzioni sostitutive era da considerarsi contrario alla buona fede.
3.6. Con osservazione esatta e che vale a cogliere il significato della buona fede oggettiva quale regola di condotta nei rapporti di durata, nei rapporti a prestazioni corrispettive e vieppiù nei rapporti di lavoro ovvero di collaborazione a tempo indeterminato con la pubblica amministrazione, la Corte di Appello osserva come la ricorrente abbia lasciato cadere ogni offerta del datore di lavoro che la aveva invitata a riprendere servizio anche solo per dieci giorni nella sede assegnata per poi definire soluzioni alternative ed eventuali trasferimenti.
3.7. La ricorrente lamenta, poi, che la sentenza impugnata sarebbe errata nella misura in cui avrebbe escluso la sussistenza dei presupposti per l’applicabilità delle tutele invocate trascurando le note dell’ANAC prodotte in atti.
3.8. La sentenza non merita censure sul punto perché ha valutato nel complesso il materiale istruttorio e le osservazioni dell’ANAC non valgono quale accertamento dei fatti prevalente su quello condotto in via autonoma dalla autorità giudiziaria. Le segnalazion i dell’ANAC, per come riportate nel ricorso, erano poi assunte in ragione della unilaterale rappresentazione dei fatti proposta dalla odierna ricorrente e non all’esito di un procedimento in contraddittorio.
Con il terzo profilo di doglianza nel quale si articola il secondo motivo, il ricorso deduce violazione dell’art. 13 del d.P.R. n. 62/2013 codice di comportamento dei dipendenti pubblici: la ASL avrebbe violato la disposizione che impone ai dirigenti di assicurare il benessere organizzativo della struttura e per questa via i principi desumibili dall’art. 2087 c.c..
4.1. Il motivo è infondato anche sotto questo profilo; la Corte di Appello ha accertato in fatto l’insussistenza dell’inadempimento della Asl come dedotto dalla ricorrente. Di qui l’insussistenza dell’obbligo del datore di lavoro di adibire la ricorrente ad altro incarico ovvero ad altra destinazione.
Con il quarto profilo di doglianza nel quale si articola il secondo motivo, il ricorso deduce violazione del d.lgs 81/2008 e dell’art. 1460 c.c. perché la sentenza non avrebbe considerato che il centro La Gioia non era dotato di tecnologie adeguate allo screening mammografico per la diagnosi di cancro al seno.
5.1. Questa doglianza non è trattata dalla sentenza della Corte di Appello, che in senso contrario sottolinea come l’eccezione di inadempimento della ricorrente si sarebbe sempre fondata sulla pretesa violazione dell’art. 54 -bis d.lgs. 165/2001. Il ricorrente non indica dove come e quando avrebbe dedotto la circostanza in via giudiziale e di seguito con l’appello . Ne consegue, ad avviso del Collegio, la inammissibilità di questo profilo di contestazione per il suo carattere di novità.
5.2. La sussistenza di questa circostanza, anche dimostrata, non giustificherebbe poi l’integrale rifiuto di svolgere la propria prestazione ma semmai le dovute segnalazioni alla ripresa della attività lavorativa, che pacificamente si svolgeva con altri medici e con gli stessi mezzi in contestazione.
Con il terzo motivo di ricorso si deduce ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. violazione dell’art. 2697 c.c. nonché degli artt. 115, 416, 421, 436 e 437 c.p.c. lamentando l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui avrebbe addossa to sulla ricorrente l’onere di provare l’inadempimento della ASL e parimenti avrebbe trascurato di accertare la verità materiale anche disponendo atti istruttori di ufficio (prova per
testi, c.t.u. contabile, ordine di esibizione) ed avrebbe, infine, errato nel valutare la prova documentale in atti.
6.1. Il motivo è infondato. Non assume rilievo alcuna violazione delle regole sulla ripartizione dell’onere probatorio: la Corte di Appello (e il Tribunale prima di essa) non hanno respinto la domanda della odierna ricorrente per un difetto di prova sulle circostanze dell’inadempimento del datore di lavoro, ma perché hanno accertato in senso contrario e positivo e sulla base della copiosa documentazione in atti, offerta da entrambe le parti, che era insussistente l’i nadempimento del datore di lavoro, che l’assegnazione della ricorrente a quell’Ufficio era priva di intenti ritorsivi e che non vi erano ragioni per collegare la sanzione irrogata alle denunce presentate dalla lavoratrice.
6.2. Pertanto, ancora una volta, il motivo si risolve in una contestazione in fatto del l’accertamento probatorio svolto dalle sentenze di merito e della scelta delle prove di rilievo e non offre al giudizio di questa Corte alcuna violazione ovvero falsa applicazione delle norme invocate.
Con il quarto motivo di ricorso si deduce violazione dell’art. 112 c.p.c. 360, primo comma, n. 4, c.p.c. e si lamenta l’omessa pronuncia circa la denuncia della violazione del d.lgs. 81/2008.
7.1. Il motivo è inammissibile. La parte ricorrente afferma genericamente di aver rappresentato questo profilo di doglianza nel momento in cui fu sollevata l’ eccezione di inadempimento nel l’anno 2014 ma non specifica se la questione sia stata specificamente dedotta quale autonomo motivo di ricorso in primo grado e in appello. Dunque, in assenza della proposizione di una autonoma domanda, non è ravvisabile il vizio di omissione di pronuncia. Peraltro la Corte di Appello tratta della questione, sub paragrafo 2.4. della sentenza, esclude la
denunciata violazione del d.lgs. 81/2008 così come non ravvisa pericolo di lesione di beni fondamentali della lavoratrice nella ripresa della prestazione lavorativa e tanto in ragione della ricostruzione dei fatti condotta nei termini innanzi specificamente ripercorsi.
Con il quinto motivo di ricorso si lamenta che la Corte di Appello, avendo valutata come legittima la condotta del datore di lavoro, abbia respinto anche le domande della ricorrente relative alla corresponsione delle retribuzioni maturate dopo la sanzione definitiva e non corrisposte.
8.1. Il motivo è assorbito in ragione del rigetto dei primi quattro motivi di ricorso.
In conclusione il ricorso deve essere integralmente respinto.
Le spese di giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
rigetta il ricorso;
condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese che liquida in complessivi euro 4.000,00 (quattromila), oltre ad euro 200,00 per esborsi, al rimborso forfettario spese generali nella misura del 15% e accessori come per legge;
a i sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. n. 115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell ‘ ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1bis del citato art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione