Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 7848 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 7848 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 25/03/2025
ORDINANZA
sul ricorso 7504-2023 proposto da:
COGNOME NOME, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio COGNOME, rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE (già RAGIONE_SOCIALE –RAGIONE_SOCIALE), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata presso l’indirizzo PEC dell’avvocato NOME COGNOME che la rappresenta e difende;
– controricorrente –
Oggetto
LICENZIAMENTO
DISCIPLINARE
R.G.N.7504/2023
COGNOME
Rep.
Ud.12/02/2025
CC
avverso la sentenza n. 28/2023 della CORTE D’APPELLO di LECCE SEZIONE DISTACCATA di TARANTO, depositata il 02/02/2023 R.G.N. 422/2022;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 12/02/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
RILEVATO CHE
Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte d’appello di Lecce, confermando il provvedimento del giudice di primo grado, ha parzialmente accolto le domande proposte da NOME COGNOME nei confronti della società RAGIONE_SOCIALE accertando la illegittimità del licenziamento disciplinare di cui alla contestazione del 28.5.2021 con conseguente risoluzione del rapporto di lavoro e condanna al pagamento di una indennità pari a dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre accessori.
La Corte territoriale – rilevando preliminarmente che il provvedimento espulsivo era stato adottato in considerazione di due comportamenti adottati dalla lavoratrice (registrazioni audio-visive non autorizzate in ambiente di lavoro nonché rifiuto di ricevere la contestazione disciplinare del 28.5.2021) -ha condiviso la valutazione del giudice di primo grado circa l’insussistenza della prima condotta (in quanto l e registrazioni erano state effettuate, seppur all’insaputa dei presenti, per la tutela di un diritto e dovevano, pertanto, ritenersi consentite e legittime) e la tenuità della seconda condotta (da configurarsi, peraltro, quale insubordinazione, in quanto posta in violazione dell’obbligo del dipendente di collaborazione per non ostacolare l’organizzazione e l’efficienza aziendale), con conseguente sproporzione tra la condotta disciplinarmente rilevante e il provvedimento di natura espulsiva.
Avverso tale sentenza la lavoratrice ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi. La società ha resistito con controricorso.
Al termine della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nei successivi sessanta giorni.
CONSIDERATO CHE
Con il primo motivo di ricorso si denunzia, ai sensi dell’art. 360 cod.proc.civ., primo comma, nn. 3 e 5, violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., 24 e 111 Cost. in riferimento alla mancata ammissione delle prove testimoniali e all’errata valutazione dell’onere probatorio, prove tese a dimostrare che la lavoratrice non aveva apposto un rifiuto a ricevere la comunicazione del datore di lavoro ma aveva chiesto di illustrarne il contenuto; incombeva, inoltre, al datore di lavoro dimostrare che la lettera che intendeva consegnare alla lavoratrice era la contestazione disciplinare o una comunicazione attinente al rapporto di lavoro.
Con il secondo motivo di ricorso, si denunzia, ai sensi dell’art. 360 cod.proc.civ., primo comma, n. 3, violazione degli artt. 2697 c.c., 18, comma 5, della legge n. 92 del 2012 non avendo, il datore di lavoro, dimostrato quale era il comportamento contra legem, quali le norme di legge o del codice disciplinare violate, quale il danno prodotto e non essendo stata fornita alcuna prova circa il contenuto della comunicazione che si voleva consegnare alla lavoratrice.
Con il terzo motivo di ricorso si denunzia, ai sensi dell’art. 360 cod.proc.civ., primo comma, n. 3, violazione degli artt. 3, 24 e 111 Cost., 1241 c.c., 91 e 92 c.p.c. avendo, la Corte territoriale condannato la lavoratrice reclamante al pagamento delle spese nonostante avesse confermato la illegittimità del
licenziamento (dichiarata dal giudice di primo grado), dovendosi, pertanto, ritenere entrambe le parti soccombenti.
I primi due motivi di ricorso sono inammissibili.
4.1. La Corte territoriale, confermando l’accertamento in fatto svolto dal giudice di primo grado, ha precisato che: ‘ Tutte le deduzioni involgenti il contenuto della nota in data 28.5.2021 sono estranee al thema decidendum, in quanto la decisione reclamata attiene al contegno osservato dalla Quero nel rifiutare la ricezione di tale nota, punto esclusivo e determinante in cui costei è risultata soccombente. In questa prospettiva, i capitoli di prova vertenti (sotto diverse angolazioni) sul contenuto della comunicazione e sul rifiuto (da parte della dirigenza RAGIONE_SOCIALE) della sua illustrazione sono ininfluenti ai fini decisoriò Per le medesime ragioni, è priva di pregio la censura circa un (assunto) inadempimento dell’RAGIONE_SOCIALE.p.a. rispetto all’onere della prova su tale circostanza’.
4.2 Ebbene, posto che il rifiuto della lavoratrice di ricevere la nota aziendale del 28.5.2021 rappresentava uno degli addebiti disciplinari contestati e che l’accertamento in fatto dell’adozione di tale comportamento è riservato al giudice del merito (che in entrambi i gradi di giudizio ha ritenuto sussistente il comportamento), le argomentazioni svolte in ricorso sostanzialmente sollecitano, ad onta dei richiami normativi in esso contenuti, una rivisitazione nel merito della vicenda e delle risultanze processuali affinché se ne fornisca un diverso apprezzamento. Si tratta di operazione non consentita in sede di legittimità, ancor più ove si consideri che in tal modo il ricorso finisce con il riprodurre (peraltro in maniera irrituale: cfr. Cass. S.U. n. 8053 del 2014) sostanziali censure ex art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., a monte non consentite dall’art. 348-ter, commi 4 e 5, cod. proc.
civ., essendosi in presenza di doppia pronuncia conforme di merito basata sulle medesime ragioni di fatto circa la sussistenza di una delle condotte disciplinarmente rilevante.
Il terzo motivo di ricorso non è fondato.
La Corte territoriale ha correttamente applicato il principio della soccombenza dettato dall’art. 91 c.p.c. a fronte del rigetto dell’appello proposto dalla lavoratrice (e in mancanza di appello incidentale da parte della società), ipotesi che si differenzia dal caso in cui sia riformata la sentenza di primo grado, con conseguente potere del giudice di appello di rinnovare totalmente la regolamentazione delle spese sulla base dell’esito finale della lite.
In conclusione, la Corte rigetta il ricorso, con regolazione delle spese di lite secondo il criterio della soccombenza.
Sussistono le condizioni di cui all’art. 13, comma 1 quater, d.P.R.115 del 2002;
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano in Euro 200,00 per esborsi, nonché in Euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, de ll’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.