Sentenza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 5510 Anno 2024
Civile Sent. Sez. 2 Num. 5510 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 01/03/2024
R.G.N. 1716/2018
U.P. 30/01/2024
Mutuo
SENTENZA
sul ricorso (iscritto al N.R.G. NUMERO_DOCUMENTO) proposto da:
COGNOME NOME, rappresentato e difeso, in virtù di procura speciale apposta a margine del ricorso, dall’AVV_NOTAIO ed elettivamente domiciliato presso il suo studio, in Roma, INDIRIZZO;
–
ricorrente – contro
COGNOME NOME COGNOME e COGNOME, quali eredi di COGNOME NOME, rappresentati e difesi, in virtù di procura speciale apposta a margine del controricorso, dall’AVV_NOTAIO
COGNOME e presso il suo studio elettivamente domiciliati, in Roma, INDIRIZZO;
–
contro
ricorrenti –
e
RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore , e COGNOME NOME; intimati – avverso la sentenza della Corte di appello di Roma n. 3648/2017 (pubblicata il 31 maggio 2017);
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 30 gennaio 2024 dal AVV_NOTAIO relatore NOME COGNOME;
udito il P.G., in persona del AVV_NOTAIO procuratore generale NOME COGNOME, il quale ha concluso per il rigetto del ricorso;
uditi gli AVV_NOTAIO, per il ricorrente, e NOME COGNOME, per i controricorrenti.
RITENUTO IN FATTO
Con atto di citazione del febbraio 2005, COGNOME NOME e COGNOME NOME, in proprio e nella qualità di eredi di COGNOME NOME, nonché la RAGIONE_SOCIALE, convenivano in giudizio, dinanzi al Tribunale di Roma, COGNOME NOME per sentirlo condannare:
al pagamento della somma di euro 619.748,28 o di quella diversa ritenuta equa in virtù di una dichiarazione – contenente un asserito riconoscimento di debito – datata 1° settembre 1995, oltre interessi e rivalutazione monetaria;
al pagamento, iure hereditatis, del danno non patrimoniale subito da NOME in conseguenza della denuncia presentata dallo stesso COGNOME il 2 aprile 2001 da determinarsi equitativamente (ed approssimativamente in euro 400.000,00), oltre interessi e danno da rivalutazione monetaria; –
al pagamento, nei confronti della RAGIONE_SOCIALE per danno emergente e lucro cessante, della somma di euro 500.000,00 o in quella diversa ritenuta di giustizia;
al pagamento delle spese di giudizio.
Si costituiva in giudizio il COGNOME NOME, il quale, oltre a contestare la domanda attorea ed a disconoscere la conformità della copia dell’atto di riconoscimento del debito all’originale, formulava anche domanda riconvenzionale nei confronti degli eredi del COGNOME per la restituzione della somma di euro 316.823,91 in quanto da ritenersi indebitamente corrisposta.
il Tribunale di Roma, con sentenza n. 4591/2009, preso atto della rinuncia della società RAGIONE_SOCIALE alla propria domanda risarcitoria, per il resto accoglieva parzialmente la domanda attorea, condannando il convenuto COGNOME NOME al pagamento della somma di euro 612.571,60 e rigettava la sua domanda riconvenzionale sul rilievo del valore probatorio della dichiarazione di riconoscimento del debito non disconosciuta, con la conseguente inversione dell’onere della prova a carico del debitore, il quale aveva provato l’estinzione del debito nella limitata misura di lire 13.896.000.
Decidendo sul gravame interposto dal COGNOME e nella costituzione dei soli COGNOME NOME e NOME COGNOME, nel mentre gli altri appellati rimanevano contumaci, la Corte di appello di Roma, con sentenza n. 3648/2017, respingeva l’appello, condannando l’appellante al pagamento delle spese del grado.
A sostegno dell’adottata pronuncia la Corte laziale affermava, in particolare, che, essendosi l’appellante lamentato della difformità fra le risultanze contabili effettive che il AVV_NOTAIO avrebbe dovuto annotare e quelle che invece risultavano dalla scheda contabile, la doglianza del COGNOME, quale querelante, riguardava il riempimento del documento in modo
difforme da quello pattuito, con la conseguenza che in tal caso l’eccipiente aveva l’onere di provare, senza ricorrere alla querela di falso, la sua eccezione di abusivo riempimento ‘contra pacta’, consistente nell’inadempimento del mandato ‘ad scribendum’, per non esservi -secondo la prospettazione dello stesso COGNOME corrispondenza tra il dichiarato e ciò che intendeva fosse dichiarato e detta prova avrebbe dovuto essere articolata in primo grado entro i termini previsti dalla legge, essendo preclusa in appello ai sensi dell’art. 345 c.p.c.
Inoltre, la Corte di appello rilevava, ad ulteriore conferma dell’inammissibilità della querela di falso, che in atti c’era la prova dell’ammissione, da parte del COGNOME, di aver sottoscritto la scheda contabile facendo proprio il riconoscimento del debito, per quanto desumibile anche dal contenuto ammissivo emergente dalla denuncia penale successivamente presentata dal COGNOME medesimo.
La Corte territoriale evidenziava anche che, per quanto riguardava la censura afferente la critica della valutazione circa la sussistenza dei presupposti di cui all’art. 1988 c.c., essa era superabile per effetto della considerazione che un problema di esternazione non si poneva in quanto la scheda, redatta dal creditore e sottoscritta dal debitore, era nella disponibilità del creditore stesso, mentre era stata tardiva la richiesta di perizia grafologica, incorrendo anch’essa in appello nella preclusione di cui all’art. 345 c.p.c.
Infine, la Corte laziale rilevava che nessuna prova era stata fornita dal COGNOME in ordine all’invalidità del negozio posto in essere sulla base della prospettazione che la pretesa degli appellati dovesse intendersi costituita esclusivamente da interessi usurari, tendendo anche conto che, in sede penale, non era stato accertato il reato di usura a carico del COGNOME.
Avverso la menzionata sentenza di appello, ha proposto ricorso per cassazione, sulla base di quattro motivi, NOME COGNOME, al
quale hanno resistito, con un congiunto controricorso, i soli NOME COGNOME e NOME COGNOME, mentre le altre parti intimate non hanno svolto attività difensiva in questa sede.
Con ordinanza interlocutoria del 20 giugno 2023 la trattazione della causa veniva rimessa alla pubblica udienza, fissata per il 30 gennaio 2024, in prossimità della quale i difensori di entrambe le parti hanno anche rispettivamente depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Con il primo motivo, il ricorrente denuncia -ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. -la violazione dell’art. 221 c.p.c., sostenendo che la Corte di appello abbia errato nel non ritenere che nella nozione di riempimento absque pactis del foglio sottoscritto in bianco rientri anche quella ipotesi di riempimento in cui la difformità fra dichiarazione e convenzione sia di tale ampiezza ed evidenza da potersi ragionevolmente dubitare della reale esistenza di un valido e logico collegamento tra la dichiarazione successiva e la sottoscrizione precedente.
2. Con la seconda doglianza, il ricorrente deduce -ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. la violazione e falsa applicazione degli artt. 1988 c.c. e 112 c.p.c. ritenendo che la Corte di appello abbia omesso di pronunciarsi sull’esatto tenore dell’atto di appello, in quanto con lo stesso era stata censurata la sentenza di primo grado anche nella parte in cui il Tribunale non aveva riscontrato la carenza, nel documento denominato riconoscimento del debito, degli elementi che avrebbero dovuto essere contenuti nell’atto, in particolar modo l’essere la dichiarazione confessoria indirizzata alla persona del creditore. Il giudice territoriale avrebbe, quindi, mal interpretato il preciso significato dell’espressione ‘indirizzato alla persona del creditore’, dal momento che, nel rigettare il motivo di appello, osservava che
la questione della ‘esternazione non si pone in quanto la scheda, redatta dal creditore e sottoscritta dal debitore, era nella disponibilità del creditore stesso’.
Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta -ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. -l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio affermando che, nella citazione in appello, egli, anche integrando la documentazione già prodotta nel giudizio di primo grado, aveva dedotto e provato, con produzione documentale ritenuta ammissibile ex art. 345 c.p.c., l’intervenuto adempimento di ogni obbligazione nei confronti del AVV_NOTAIO prima della pretesa sottoscrizione dell’asserito riconoscimento del debito, provando così la falsità ideologica di quest’ultimo e dimostrando, altresì, che ogni ulteriore richiesta avanzata nei suoi confronti avrebbe dovuto essere imputata ad ulteriori interessi, rendendo evidentemente usurario il rapporto di finanziamento azionato in causa.
Con la quarta ed ultima doglianza, il ricorrente denuncia -ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. la violazione dell’art. 644 c.p. in merito alla svolta censura di usurarietà del rapporto di finanziamento inter partes.
Rileva il collegio che il primo motivo non è fondato.
Con esso, il COGNOME contesta che la Corte di appello avrebbe erroneamente confermato la decisione di inammissibilità – già adottata con ordinanza nel corso del giudizio -della formulata querela di falso avverso il documento contabile ‘apparentemente’ proveniente dallo stesso e dal medesimo firmato, contenente la contestata ricognizione di debito, sull’asserito presupposto che il relativo contenuto fosse stato inserito dal AVV_NOTAIO (anche sulla scorta degli usuali rapporti pregressi intercorrenti tra le parti) su una ‘schedina contabile’ firmata da esso COGNOME in bianco e che, in assenza di altre prove a supporto della domanda proposta nei riguardi dello stesso appellante, si
sarebbe dovuto ritenere che si era venuta a configurare una ipotesi di riempimento di foglio in bianco absque pactis e non contra pacta .
Senonché, va osservato che la Corte di merito ha dato una corretta qualificazione al caso di specie, poiché, in effetti, con la querela di falso il COGNOME aveva inteso sostenere – sull’assunto presupposto che lo stesso avesse firmato la ‘schedina contabile’ in bianco – che tale documento riportava un contenuto non corrispondente alla reale situazione contabile esistente tra le parti (e, quindi, rispetto a quanto concordato tra le stesse), le cui contestazioni, quindi, potevano essere comprovate con gli ordinari mezzi istruttori, donde la conseguenza che le relative istanze probatorie avrebbero dovute essere dedotte già nel giudizio di primo grado e nell’osservanza delle previste preclusioni e non allegate e formulate per la prima volta in appello, in violazione dell’art. 345 c.p.c.
Nella prospettata ricostruzione, quindi, non si ricadeva in una ipotesi in cui sarebbe stata necessaria la proposizione della querela di falso, siccome non si era venuto a configurare un riempimento abusivo del documento absque pactis.
La giurisprudenza di questa Corte (cfr., tra le tante, Cass. n. 18989/2010; Cass. n. 5417/2014 e Cass. n. 18234/2023) è, infatti, pacifica nell’affermare che, nel caso di sottoscrizione di documento in bianco, colui che contesta il contenuto della scrittura è tenuto a proporre la querela di falso soltanto se assume che il riempimento sia avvenuto, per l’appunto, absque pactis , in quanto in tale ipotesi il documento esce dalla sfera di controllo del sottoscrittore completo e definitivo, sicché l’interpolazione del testo investe il modo di essere oggettivo dell’atto, tanto da realizzare una vera e propria falsità materiale, che esclude la provenienza del documento dal sottoscrittore;
qualora, invece, il sottoscrittore, che si riconosce come tale, si dolga del riempimento della scrittura in modo difforme da quanto pattuito, egli ha l’onere di provare la sua eccezione di abusivo riempimento contra pacta e, quindi, di inadempimento del mandato ad scribendum in ragione della non corrispondenza tra il dichiarato e ciò che si intendeva dichiarare, giacché attraverso il patto di riempimento il sottoscrittore medesimo fa preventivamente proprio il risultato espressivo prodotto dalla formula che sarà adottata dal riempitore.
In altri termini, la denuncia dell’abusivo riempimento di un foglio firmato in bianco postula il rimedio della querela di falso tutte le volte in cui il riempimento risulti avvenuto absque pactis o sine pactis -ipotesi che ricorre anche quando la difformità della dichiarazione rispetto alla convenzione sia tale da travolgere qualsiasi collegamento tra la dichiarazione e la sottoscrizione -, mentre tale rimedio non è necessario nell’ipotesi di riempimento contra pacta , ossia in caso di mancata corrispondenza tra quanto dichiarato e quanto si intendeva dichiarare (v., anche Cass. n. 18059/2007; Cass. n. 25445/2010 e Cass. n. 30226/2011).
In sintesi, ciò che rileva, ai fini dell’esclusione del ricorso alla querela di falso, è che il riempitore sia stato autorizzato al riempimento, ‘mentre nessuna importanza ha il fatto che egli miri a far apparire il documento come collegato ad un’operazione economica diversa da quella alla quale si riferisce l’autorizzazione’ (v., in modo specifico, Cass. n. 5245/2006). Ne consegue che deve ritenersi sussistente non un falso materiale (riempimento absque pactis ), ma un abuso di biancosegno (riempimento contra pacta ) in tutti i casi in cui esista un qualsivoglia accordo sugli interventi da eseguire sul testo (v. pure Cass. n. 899/2018).
Peraltro – come sottolineano i controricorrenti – la Corte di appello, a conforto della ravvisata inammissibilità della querela di falso, ha aggiunto un’ulteriore, rafforzativa, ratio decidendi , ricondotta all’accertata circostanza che il COGNOME aveva ammesso in sede extragiudiziale, ovvero con la sporta denuncia penale – di aver sottoscritto la scheda contabile riconoscendo il debito in esso riportato, ragion per cui anche il valore confessorio di tale dichiarazione avrebbe inciso, a monte, sulla valutazione della stessa rilevanza, ai fini decisori, del documento impugnato con querela di falso (quand’anche fosse stata ammissibile).
6. Altrettanto destituito di fondamento si profila il secondo motivo.
Con esso, il ricorrente critica la sentenza di appello per essere -a suo avviso -caduta in equivoco nella comprensione delle sue difese, avuto riguardo alla necessità che la ricognizione di debito (contenuta nella ‘schedina contabile’ prodotta dagli appellati) dovesse possedere il carattere di atto ricettizio affinché fosse produttiva degli effetti di cui all’art. 1988 c.c., sostenendo che la Corte di appello era incorsa nella violazione dell’art. 112 c.p.c.
La censura non coglie nel segno perché la Corte territoriale ha pronunciato sul motivo avanzato con l’atto di appello in ordine al contenuto e alla natura giuridica del documento costituente ricognizione di debito, rilevando che, nel caso di specie, non si ponesse proprio una questione sulla necessaria recettizietà o meno della relativa dichiarazione, dal momento che l’esternazione del soggetto che del riconoscimento può avvalersi persegue il fine di rendere la dichiarazione stessa accessibile al creditore, sicché, nel caso di specie, un tale problema non si era venuto affatto a configurare poiché la scheda, redatta dal creditore e sottoscritta dal debitore (ovvero pacificamente dal COGNOME NOME), risultava già nella disponibilità della parte creditrice e la medesima era stata da quest’ultima utilizzata a supporto della dimostrazione del
contratto causale da cui il credito scaturiva, donde era stata addotta come prova documentale del contenuto di tale rapporto (senza, quindi, che possa ritenersi venire in rilievo una questione di relevatio ad onere probandi riferibile al fenomeno dell’astrazione processuale di cui all’art. 1988 c.c.), avverso il quale il COGNOME avrebbe dovuto provare i fatti impeditivi od estintivi del debito in tale documento dichiarato, donde -ai fini probatori -era sufficiente valutare che la controversa scrittura provenisse dal debitore che l’aveva sottoscritta.
Anche la terza doglianza deve essere disattesa, dal momento che -al di là della mancata specificità del contenuto, quantomeno per sintesi, dei documenti richiamati (non bastando il mero rinvio per relationem alle produzioni contenute nel fascicolo di parte) la Corte di appello (come dallo stesso ricorrente ammesso: v. pagg. 51 e 52) ha effettivamente espresso una motivazione sulla rilevanza dei documenti in questione (non incorrendo, perciò, nel vizio di cui al novellato n. 5 dell’art. 360 c.p.c.), sostenendo che dall’esame dei documenti stessi prodotti in secondo grado (quali le copie del fronte di assegni a copia del fronte e del retro di pagherò emessi da terzi nell’arco di più di un quinquennio) non era emerso che alla data del primo settembre 1995 il preteso debito di oltre 700.000.000 di lire fosse stato pagato dal COGNOME, poiché si era potuta evincere la prova dell’incasso da parte del citato COGNOME di pagherò a lui girati per un importo non corrispondente a detta cifra, ma per un importo non superiore a 297.614.000 lire.
Anche il quarto e ultimo motivo è infondato e va, quindi, respinto.
Con questo motivo – nell’evocare la supposta violazione dell’art. 644 c.p. – il ricorrente deduce che i contratti di mutuo intercorsi tra lo stesso ed il AVV_NOTAIO si sarebbero dovuti considerare affetti da nullità siccome caratterizzati dalla
pattuizione di interessi usurari e che, anzi, la domanda degli attuali controricorrenti fosse stata diretta ad ottenere il pagamento di importi pretesi solo a titolo di interessi applicati in misura illecita tanto da configurare il reato di cui al citato art. 640 c.p. .
Il collegio osserva preliminarmente (come è, peraltro, pacifico) che, nella fattispecie, si applicavano ratione temporis (ovvero con riferimento all’epoca in cui i rapporti tra le parti furono instaurati) le versioni degli artt. 1815, comma 2, c.c. e 644 c.p.c. nel relativo testo antecedente alle modifiche sopravvenute con la legge n. 108/1996, ragion per cui l’accordo sull’applicazione di interessi ultralegali si sarebbe potuta ritenere illegittimo solo ove si fossero configurati gli estremi del reato di usura (per l’appunto contemplato dal menzionato art. 644 c.p. nella sua previgente formulazione), il quale presupponeva l’esistenza del vantaggio usurario, lo stato di bisogno del soggetto passivo e l’approfittamento di tale stato da parte del mutuante (cfr., ad es., Cass. n. 8138/2009 e Cass. n. 25182/2010).
Orbene, sulla base di tale premessa, occorre rilevare, innanzitutto, che la Corte di appello ha dato atto, in via primaria, che non era stata accertata in sede penale la consumazione del reato di usura (pur essendo stata presentata una denuncia corredata da appositi prospetti riepilogativi dei complessivi rapporti intercorsi e intercorrenti tra le parti) a carico del menzionato AVV_NOTAIO (circostanza non contestata dal ricorrente e di per sé già potenzialmente risolutiva nel senso dell’infondatezza della censura) e che, in ogni caso, al fine di valutare la (sola supposta) usurarietà delle somme pretese imputandole tutte ad importi maturati a titolo di interessi usurari, il COGNOME avrebbe dovuto assolvere pienamente all’onere probatorio di riscontrare l’avvenuta estinzione delle proprie obbligazioni (restitutorie con riferimento al mutuo e di pagamento del corrispettivo con
riguardo alle altre prestazioni eseguite dal COGNOME) in data anteriore al riconoscimento del debito, onere rimasto inadempiuto nella sua completezza. Ciò senza trascurare l’altra decisiva circostanza che non era stata fornita la prova di tutte le altre richiamate condizioni necessarie per la configurazione del reato di cui al citato art. 644 c.p., con particolare riferimento allo stato di bisogno dello stesso COGNOME e della condotta approfittatrice del menzionato COGNOME, non potendosi considerare solo presunti tali presupposti (come sembrerebbe far intendere il ricorrente, per effetto della prospettata sua oggettiva impossibilità di assolvere le proprie obbligazioni nei confronti del sistema bancario, sul presupposto a sua volta non provato – che il COGNOME fosse a conoscenza di tale circostanza e che avrebbe approfittato della stessa, pretendendo l’applicazione di interessi illegittimamente elevati).
In definitiva, il ricorso del COGNOME deve essere integralmente respinto, con la sua conseguente condanna al pagamento, in favore dei controricorrenti, delle spese del presente giudizio, che si liquidano nei termini di cui in dispositivo (tenendo conto delle tabelle professionali temporalmente applicabili, della natura e del valore della controversia oltre che delle specifiche attività difensive esercitate, considerando che la difesa dei medesimi controricorrenti ha anche depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.).
Non vi è, invece, luogo a provvedere sulle spese relative ai rapporti processuali instauratisi tra il ricorrente e le altre parti rimaste intimate.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore dei controricorrenti, delle spese del presente giudizio, liquidate in complessivi euro 10.200,00, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre contributo forfettario, iva e c.p.a., nella misura e sulle voci come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della II Sezione