Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 10309 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 10309 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data pubblicazione: 18/04/2025
1.La Corte di Appello di Napoli ha rigettato il gravame proposto dall’I.RAGIONE_SOCIALE. avverso la sentenza del Tribunale di Benevento che, in accoglimento delle domande proposte da NOME COGNOME (impiegato amministrativo in servizio presso la sede RAGIONE_SOCIALE di Benevento), aveva dichiarato illegittima la sanzione della sospensione dal servizio con privazione della retribuzione per un mese, al medesimo irrogata dall’Istituto con determinazione n. 57/2016 del 25.6.2016, e ne aveva disposto l’annullamento.
La Corte territoriale , disattesa l’eccezione di inammissibilità dell’appello, ha condiviso la valutazione del primo giudice in ordine al difetto di proporzionalità tra l’ addebito e la sanzione irrogata, ritenendo che ai fini delle sanzioni conservative sia vincolante la tipizzazione contenuta nella contrattazione collettiva.
Il giudice di appello ha osservato che la condotta del COGNOME, in ragione della quale era stata irrogata la sanzione, era inconstestata ed accertata attraverso l’istruttoria ; ha in particolare evidenziato che il COGNOME in data 10.2.2016 aveva timbrato una prima volta in entrata alle 8.22 e una seconda volta in uscita alle ore 15.37 ed era stato visto parlare al telefonino nelle vicinanze della sede alle ore 11.45.
Ha dunque rilevato che il COGNOME si era ingiustificatamente allontanato dal suo ufficio senza autorizzazione del superiore gerarchico e senza avere marcato il badge in uscita, ed ha presunto che il suddetto allontanamento fosse stato di breve entità.
Ha escluso il carattere fraudolento della condotta del COGNOME (privo di precedenti disciplinari), in quanto non era stato posto in essere alcun artifizio o
raggiro ed in quanto l’allontanamento non aveva arrecato specifici danni o disservizi all’ufficio.
Ha ritenuto che la condotta del COGNOME contrastasse con l’art. 1, comma 3, lett. e) del regolamento di disciplina e con l’art. 14, comma 1, del codice di comportamento, ma ha escluso che fosse riconducibile ad una delle ipotesi sanzionate dall’art. 2 , comma 7, del regolamento di disciplina ed in applicazione dell’art. 2, comma 10, del medesimo regolamento ha ritenuto sproporzionata la sanzione applicata al COGNOME.
Ha infine disatteso la richiesta dell’I.N.P.S. di rideterminazione della sanzione, in quanto proposta solo nel giudizio di appello.
Avverso tale sentenza l’RAGIONE_SOCIALE ha proposto ricorso per cassazione sulla base di un unico motivo.
NOME COGNOME ha resistito con controricorso, illustrato da memoria.
DIRITTO
1.Con l’unico motivo il ricorso denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 1, commi 1, 2 e 3 lett. e), nonché dell’art. 2, commi 7 e 10, del Regolamento di disciplina INPS, degli artt. 4 e 14 comma 1 del Codice di comportamento INPS, degli artt. 2106 e 2697 cod. civ. e dell’art. 63, comma 2 bis d.lgs. n. 165/2001, in r elazione alla violazione dei principi di cui all’art. 111 Cost. ed in particolare del comma 7, in una lettura integrata con l’art. 6 CEDU.
Con una prima sottocensura addebita alla Corte territoriale di avere escluso con scarne argomentazioni la riconducibilità della condotta del COGNOME all’art. 2, commi 7 e 10, del regolamento di disciplina.
Critica la sentenza impugnata per non avere esplicitato la ragione della ritenuta sproporzione della sanzione.
Sostiene che ai fini del giudizio sulla gravità degli addebiti rilevano il contenuto oggettivo della condotta del lavoratore (riguardo alla natura ed alla qualità del rapporto, al vincolo che esso comporta e al grado di affidamento che sia richiesto alle mansioni espletate) e la sua portata soggettiva (le particolari circostanze e condizioni, i modi, gli effetti e l’intensità dell’elemento volitivo dell’agente),
mentre non rileva il valore del danno patrimoniale eventualmente arrecato al datore di lavoro.
Richiama il contenuto della determinazione n. 57/2016 di definizione del procedimento disciplinare, evidenziando che l’Istituto aveva provato la volontarietà e la gravità della condotta sotto il profilo oggettivo e soggettivo.
Lamenta la stridente distonia tra l’indiscussa ascrivibilità della condotta al COGNOME, la ritenuta insussistenza di danni o disservizi all’ufficio e l’ignorato pregiudizio al buon andamento e alla trasparenza della P.A.
Con la seconda sottocensura addebita alla Corte territoriale di avere erroneamente ritenuto necessaria la richiesta di parte ai fini della rideterminazione della sanzione, ai sensi dell’art. 63, comma 2 bis, d.lgs. n. 165/2001 (inserito dall’art. 21, comma 1, lett. b del d.lgs. n. 75/2017).
Evidenzia che il COGNOME nel giudizio di primo grado aveva chiesto la rideterminazione della sanzione, che l’Istituto aveva chiesto il rigetto delle avverse domande ed in appello aveva chiesto in via subordinata la rideterminazione della sanzione.
La prima sottocensura, che denuncia l’omessa insufficiente e contraddittoria motivazione, è inammissibile.
Non è configurabile l’omessa motivazione, avendo la Corte territoriale valutato la portata oggettiva e soggettiva della condotta del COGNOME; ha in particolare escluso che il COGNOME, privo di precedenti disciplinari, abbia posto in essere una condotta fraudolenta e che abbia arrecato danni o disservizi all’ufficio.
La sentenza impugnata ha dunque esplicitato le ragioni per le quali ha escluso che la condotta del COGNOME fosse riconducibile o assimilabile alle ipotesi sanzionate dall’art. 2, comma 7, del regolamento di disciplina, e per le quali ha ritenuto sproporzionata la sanzione; ai fini della determinazione della sanzione ha dunque applicato l’art. 2, comma 10, del regolamento di disciplina .
Deve inoltre rammentarsi che a seguito alla riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., disposta dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012, non sono più ammissibili nel ricorso per cassazione le censure di contraddittorietà e insufficienza della motivazione della
sentenza di merito impugnata, in quanto il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica della violazione del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111, sesto comma, Cost., individuabile nelle ipotesi -che si convertono in violazione dell’art. 132, secondo comma, n. 4, c.p.c. e danno luogo a nullità della sentenza- di “mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale”, di “motivazione apparente”, di “manifesta ed irriducibile contraddittorietà” e di “motivazione perplessa od incomprensibile”, mentre al di fuori di tali ipotesi il vizio di motivazione può essere dedotto solo per omesso esame di un “fatto storico”, che abbia formato oggetto di discussione e che appaia “decisivo” ai fini di una diversa soluzione della controversia (Cass. Sez. 1 – Ordinanza n. 7090 del 03/03/2022; Cass. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 22598 del 25/09/2018; Cass. Sez. 3 – Sentenza n. 23940 del 12/10/2017).
4. La seconda sottocensura è fondata, in conformità alla giurisprudenza di questa Corte (v. Cass. n. 10236/2023 e Cass. n. 18846/2024), da intendersi richiamata anche ai sensi dell’art. 118 disp. att. cod. proc. civ.
L’INPS ha irrogato al COGNOME la sanzione disciplinare sospensione dal servizio con privazione della retribuzione per un mese in data 25.6.2016, per l’illecito da lui commesso in data 10.2.2016; il ricorso giudiziale è stato depositato in data 18.7.2016 e la sentenza di primo grado è stata emessa in data 4.6.2018
E’ dunque applicabile alla fattispecie l’art. 63, comma 2 bis, del d.lgs. n. 165/2001, inserito dall’art. 21 del d.lgs. n. 75/2017, secondo cui ‘ Nel caso di annullamento della sanzione disciplinare per difetto di proporzionalità, il giudice può rideterminare la sanzione, in applicazione delle disposizioni normative e contrattuali vigenti, tenendo conto della gravità del comportamento e dello specifico interesse pubblico violato ‘.
Questa Corte ha infatti chiarito che la disposizione transitoria dettata dall’art. 22, comma 13, del d.lgs. n. 165/2001 , secondo cui ‘ Le disposizioni di cui al Capo VII si applicano agli illeciti disciplinari commessi successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto ‘ si applica alla sola disciplina del procedimento disciplinare e non può essere estesa alla modifica dell’art. 63 d.lgs.
n. 165/2001, riguardante i poteri attribuiti al giudice ordinario nelle controversie inerenti ai rapporti di impiego pubblico contrattualizzato (Cass. n. 10236/2023).
A tale orientamento va data continuità, atteso che il comma 2 bis dell’art. 63 del d.lgs. n. 165/2001 costituisce una norma processuale inserita dall’art. 21 del d.lgs. n. 75/2017, collocato nel Capo IX.
La disciplina applicabile ratione temporis all’esercizio di detti poteri è dunque quella vigente nel momento in cui il potere poteva essere esercitato, mentre non assume alcun rilievo la data di commissione dell’illecito.
Si è inoltre chiarito che nel formulare la norma in commento il legislatore delegato, che inizialmente aveva previsto la rinnovazione del procedimento disciplinare in caso di annullamento della sanzione per difetto di proporzionalità, ha recepito le indicazioni contenute nel parere reso dal Consiglio di Stato sullo schema di decreto (Cons. St. Comm. Spec. 21 aprile 2017 n. 916), parere secondo cui, una volta accertata l’esistenza dell’illecito, il potere di rideterminazione della sanzione ben può essere attribuito al giudice, armonizzandosi con il principio più generale, sancito dallo stesso art. 63, in forza del quale l’autorità giudiziaria ordinaria adotta nei confronti della pubblica amministrazione tutti i provvedimenti di accertamento, costitutivi e di condanna richiesti dalla natura dei diritti tutelati.
In quel parere è stata rimarcata l’esigenza di scongiurare il pericolo che, a fronte di condotte accertate e di sicuro rilievo disciplinare, il riscontrato difetto di proporzionalità si possa risolvere nell’impunità del dipendente che l’illecito ha commesso, impunità che contrasterebbe con la particolare connotazione che la responsabilità disciplinare assume nell’impiego pubblico contrattualizzato (sulla natura del potere disciplinare del datore di lavoro pubblico cfr. Cass. n. 14245/2019; Cass. n. 8722/2017 e Cass. n. 17307/2016).
Il Consiglio di Stato ha quindi osservato che il potere del giudice di rimodulare la sanzione non è estraneo all’ordinamento, non integra un inammissibile sconfinamento del potere giurisdizionale in quello dell’amministrazione, non lede in alcun modo il di ritto di difesa del dipendente non ‘essendo ragionevole ipotizzare una minore tutela del dipendente nel procedimento giurisdizionale rispetto a quello disciplinare/amministrativo’.
Nel decreto legislativo è stato dunque trasfuso il testo della norma suggerito nel parere, che significativamente richiama oltre alla gravità del comportamento, lo ‘specifico interesse pubblico violato’, interesse che giustifica l’intervento giudiziale e del quale occorre tener conto nell’affrontare la questione, che qui si pone, della doverosità o meno di quell’intervento anche nell’ipotesi in cui la rideterminazione della sanzione non sia espressamente sollecitata dall’Amministrazione.
Sul punto non sono mancate in dottrina opinioni difformi che hanno fatto leva da un lato sulle finalità che il legislatore delegato ha inteso assicurare, dall’altro sul tenore letterale della disposizione, la quale non si esprime nel senso della doverosità e sembra evocare una discrezionalità del giudice nel procedere o meno all’individuazione della sanzione proporzionata all’illecito.
Tenuto conto del contesto in cui la disposizione si iscrive (quello dell’individuazione dei poteri che il giudice ordinario può esercitare nei confronti della pubblica amministrazione), questa Corte non ha ritenuto dirimente il dato letterale.
Il legislatore non ha indicato alcuna altra condizione alla cui ricorrenza l’esercizio del potere dovrebbe essere subordinato, sicché la tesi che esclude la doverosità della rideterminazione finisce per attribuire al giudice una discrezionalità assoluta, che renderebbe la norma priva di ragionevolezza, oltre che contrastante con la dichiarata necessità di valorizzare e tutelare gli interessi pubblici coinvolti nell’illecito.
Considerati il contesto in cui la disposizione si iscrive, la finalità che la stessa persegue, la non discrezionalità che caratterizza il potere disciplinare attribuito al datore di lavoro pubblico (la quale porta ad escludere che l’applicazione della norma sia stata pensata come condizionata dalla richiesta dell ‘Amministrazione), si è dunque ritenuto che il legislatore abbia inteso attribuire al giudice il potere/dovere di rideterminare la sanzione, nei casi in cui quella inflitta venga ritenuta non proporzionata alla gravità del fatto accertato.
5. La sentenza impugnata, che non ha rideterminato la sanzione in ragione della ritenuta tardività della relativa richiesta dell’INPS, non è dunque conforme a tali principi.
6. Il ricorso va pertanto accolto per quanto di ragione; la sentenza impugnata va pertanto cassata con rinvio, anche per il regolamento delle spese del giudizio di legittimità.
P. Q. M.
La Corte accoglie il ricorso per quanto di ragione, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di Appello di Napoli in diversa composizione anche per il regolamento delle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Lavoro della