Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 14434 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 14434 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 23/05/2024
ORDINANZA
sul ricorso 29477/2020 proposto da:
COGNOME NOME, elettivamente domiciliata in INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato AVV_NOTAIO , che la rappresenta e difende;
-ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, COGNOME NOME in proprio, elettivamente domiciliati in INDIRIZZO presso lo studio del l’ avvocato AVV_NOTAIO, che li rappresenta e difende;
– controricorrenti – avverso la sentenza n. 1027/2020 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 25/05/2020 R.G.N. 5871/2014; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del
17/04/2024 dal AVV_NOTAIO. NOME COGNOME.
RILEVATO CHE
Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte di appello di Roma ha in parte riformato la sentenza di primo grado e, in accoglimento del ricorso di NOME COGNOME, ha accertato che i vari contratti di collaborazione coordinata e continuativa stipulati, dal marzo 2003 all’agosto 2013, per lo svolgimento dei compiti di operatore di sportello di agenzia ippica con NOME COGNOME e la società RAGIONE_SOCIALE dissimulavano un rapporto di lavoro di natura subordinata. Ha, pertanto, dichiarato che tra le parti era intercorso un rapporto di lavoro subordinato, con orario pari a 30 ore settimanali e con inquadramento nel V livello di cui al CCNL dipendenti RAGIONE_SOCIALE, con conseguente condanna al pagamento delle differenze retributive (per com plessivi euro 30.835,59), rigettando l’ulteriore domanda di risarcimento del danno avanzata ai sensi dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970 a fronte della mancata prova di un sopravvenuto licenziamento del rapporto (e non essendo stata proposta alcuna do manda di nullità dell’apposizione di un termine al contratto con diritto alla riammissione in servizio né di risarcimento del danno per il periodo successivo alla messa in mora, domande che avrebbero dato accesso all’applicazione dell’art. 32,comma 5, dell a legge n. 183 del 2010); la Corte ha, infine, compensato per metà le spese di lite fra le parti in considerazione dell’accoglimento solo parziale delle domande della lavoratrice.
Per la cassazione della sentenza ricorre la lavoratrice che articola due motivi (al loro interno ulteriormente articolati) cui resistono con controricorso NOME COGNOME e la società RAGIONE_SOCIALE Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Al termine della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nei successivi sessanta giorni.
CONSIDERATO CHE
Con il primo motivo di ricorso è dedotta, ai sensi dell’art. 360 cod.proc.civ., primo comma, n. 3, la violazione e falsa applicazione degli artt. 115, 116, 232 cod.proc.civ., 32 legge n. 183 del 2010, 91 e 92 cod.pro.civ. avendo, la ricorrente, richiesto la illegittimità dei ripetuti contratti a termine in quanto illeciti e simulatori di un effettivo rapporto di lavoro subordinato; la sentenza impugnata ha
erroneamente respinto la domanda di risarcimento del danno ex art. 32 legge n. 183 del 2010 conseguente alla dichiarazione di nullità del licenziamento senza giusta causa né giustificato motivo ed ha, inoltre, compensato le spese di lite per metà nonostant e il ‘totale ribaltamento della decisione di primo grado’.
Con il secondo motivo è dedotta, ai sensi dell’art. 360 cod.proc.civ., primo comma, n. 5, l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia avendo, la Corte territoriale, ritenuto attendibili i prospetti paga con riguardo al numero di ore che risultavano svolte dalla lavoratrice ed avendo, ingiustificatamente, compensato per metà le spese di lite .
I motivi di ricorso, che possono essere trattati congiuntamente in quanto strettamente connessi, sono inammissibili.
La censura concernente l’applicazione dell’art. 32 della legge n. 183 del 2010 e le eventuali domande proposte dalla lavoratrice (in specie, le domande di nullità di apposizione del termine ai contratti stipulati, di ripristino del rapporto, di risarcimento del danno subito dopo la messa in mora del datore di lavoro) è prospettata con modalità non conformi al principio di specificità dei motivi di ricorso per cassazione, secondo cui parte ricorrente avrebbe dovuto, quantomeno, trascrivere nel ricorso il contenuto (o i tratti salienti) del ricorso introduttivo del giudizio, fornendo al contempo alla Corte elementi sicuri per consentirne l’individuazione e il reperimento negli atti processuali, potendosi solo così ritenere assolto il duplice onere, rispettivamente previsto a presidio del suddetto principio dagli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod.pro.civ.
Del pari, le censure sulle spese di lite sono inammissibili posto che la valutazione delle proporzioni della soccombenza reciproca e la determinazione delle quote in cui le spese processuali debbono ripartirsi o compensarsi tra le parti, ai sensi dell’art. 92, comma 2, cod.proc.civ., rientrano nel potere discrezionale del giudice di merito, che resta sottratto al sindacato di legittimità, non essendo egli tenuto a rispettare un’esatta proporzionalità fra la domanda accolta e la misura delle spese poste a carico del soccombente (Cass. n. 30592 del 2017).
In conclusione il ricorso va dichiarato inammissibile e le spese di lite seguono il criterio della soccombenza dettato dall’art.91 cod.proc.civ.
Sussistono le condizioni di cui all’art. 13, comma 1 quater, d.P.R.115 del 2002.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità liquidate in euro 4.500,00 per compensi professionali e in euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, de ll’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso nella camera di consiglio del 17 aprile 2024.