Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 15137 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 3 Num. 15137 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 06/06/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 24084/2022 R.G. proposto da :
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME che lo rappresenta e difende, ex lege domiciliata come da PEC.
–
ricorrente – contro
RAGIONE_SOCIALE COGNOME, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato COGNOME, ex lege domiciliata come da PEC.
–
contro
ricorrente –
avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di TORINO n. 645/2022 depositata il 13/06/2022. Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 04/02/2025
dal Consigliere dr.ssa NOME COGNOME
Rilevato che
RAGIONE_SOCIALE propone ricorso per cassazione, affidato a tre motivi, avverso la sentenza con cui la Corte d’Appello di Torino rigettava il suo gravame avverso la sentenza del Tribunale di Torino, che a sua volta aveva accolto l’opposizione al decreto ingiuntivo, ottenuto dalla suddetta società, proposta dalla RAGIONE_SOCIALE -Cottolengo (di seguito, per brevità, ‘Cottolengo’).
L’ingiunzione di pagamento traeva fondamento nell’asserito inadempimento di cinque fatture, rispettivamente del 29 febbraio, 30 marzo, 29 aprile e 30 maggio 2016, per un totale complessivo di euro 74.291,90, emesse in esecuzione di un contratto di appalto di servizio di assistenza notturna.
L’odierna ricorrente prospettava di aver stipulato un contratto di affitto di ramo di azienda con tale RAGIONE_SOCIALE e che il citato accordo prevedeva, all’art. 6, il trasferimento di tutti i crediti, i debiti, i dipendenti e le attrezzature relativi alla gestione del ramo aziendale in favore dell’affittuaria: tra le posizioni attive cedute rientrava anche il summenzionato contratto di appalto, sottoscritto in data 29 novembre 2013, con durata fino al 1° dicembre 2014 (e poi prorogata sino al 1° luglio 2016), con cui era stato affidato alla RAGIONE_SOCIALEil servizio di assistenza notturna alle persone ricoverate presso i locali della Piccola Casa della Divina Provvidenza, sede di Roma’.
Il Tribunale di Torino accoglieva l’opposizione proposta dal Cottolengo, sul rilievo per cui RAGIONE_SOCIALE non avrebbe fornito la prova della cessione dei crediti relativi all’azienda ceduta.
Avverso tale sentenza RAGIONE_SOCIALE proponeva appello, che veniva rigettato dalla corte torinese con sentenza n. 645/2022 depositata il 13/06/2022.
Avverso tale sentenza la RAGIONE_SOCIALE propone ora ricorso per cassazione, affidato a tre motivi.
Resiste con controricorso il COGNOME.
La trattazione del ricorso è stata fissata in adunanza camerale ai sensi dell’art. 380 -bis .1, cod. proc. civ.
Il Pubblico Ministero non ha depositato conclusioni.
Il ricorrente ed il controricorrente hanno depositato rispettive memorie illustrative.
Considerato che
In via preliminare rileva il Collegio che, nella propria memoria, la società ricorrente eccepisce quanto segue: ‘la RAGIONE_SOCIALE non ha notificato il controricorso ex art. 370 c.p.c., di talché la sua memoria depositata in atti è inammissibile per violazione della prefata norma del codice di rito. La disposizione normativa , infatti, prevede che chi intende controbattere al ricorso è onerato di notificare il controricorso nel termine di 40 giorni decorrenti dalla notifica dell’atto introduttivo del giudizio di legittimità. In mancanza, alla parte è preclusa la proposizione di scritti difensivi essendo legittimata solo a presenziare all’udienza per la discussione orale. A tal riguardo è incontrovertibile che la Piccola Casa della Divina Provvidenza non abbia notificato il controricorso non essendo allegate le ricevute pec in formato eml della notifica. Di qui discende, come già dedotto, l’illegittimità della memoria difensiva depositata per violazione del cit. art. 370 c.p.c. di cui si chiede lo stralcio dal fascicolo’.
1.1. L’eccezione, tuttavia, è infondata e va respinta.
La Piccola Casa della Divina Provvidenza-Cottolengo ha infatti
resistito con rituale controricorso, che, come risulta dal fascicolo telematico, è stato tempestivamente notificato.
Il ricorso nel suo complesso presenta una ragione di inammissibilità per l’inosservanza del requisito dell’art. 366 n. 3 c.p.c.
Sussiste, infatti, una palese inidoneità dell’esposizione del fatto, che risulta assolutamente insufficiente, sia sotto il profilo dell’individuazione della vicenda sostanziale dedotta in giudizio, sia sotto quello dell’individuazione dello svolgimento della vicenda processuale e del modo del suo dipanarsi nei due gradi del giudizio di merito, per comprendere i quali dunque non resterebbe alla Corte che procedere si sua iniziativa alla lettura degli atti del processo.
Appare dunque incontestabile l’inosservanza dell’onere imposto dall’art. 366, comma primo, n. 3, cod. proc. civ..
Come questa Corte ha già avuto modo di affermare, è necessario che il ricorso per cassazione contenga, sia pure in modo non analitico o particolareggiato, ma anzi chiaro e sintetico, l’indicazione sommaria delle reciproche pretese delle parti, con i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che le hanno giustificate, delle eccezioni, delle difese e delle deduzioni di ciascuna parte in relazione alla posizione avversaria, dello svolgersi della vicenda processuale nelle sue articolazioni e, dunque, delle argomentazioni essenziali, in fatto e in diritto, su cui si è fondata la sentenza di primo grado, delle difese svolte dalle parti in appello, ed infine del tenore della sentenza impugnata (v. già Cass. Sez. U. n. 2602 del 2003; ed ancora da ultimo, ex multis , Cass. 08/08/2023, n. 24149; 03/11/2021, n. 31318; 19/10/2021, n. 28929; 08/08/2023, n. 24149).
In via gradata, se fosse possibile procedere all’esame dei motivi, se ne dovrebbe rilevare, come si rileva, l’inammissibilità.
Queste le ragioni.
Con il primo motivo la società ricorrente denuncia ‘Violazione e falsa applicazione dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. in relazione agli artt. 112 115, 116 c.p.c., 2562; 2558; 2559 c.c. 13 bis e 14 del contratto di appalto’.
Svolge la seguente censura: ‘Il percorso motivazionale della Corte territoriale posto alla base della sentenza gravata si fonda, sostanzialmente, lungo due direttrici: i) anzitutto, sostiene il Giudice che il Cottolengo, contestando l’affitto del ramo di azienda all’odierna ricorrente, ha paralizzato la sua successione automatica nel contratto di appalto concluso con RAGIONE_SOCIALE che rimarrebbe, dunque , l’unico soggetto obbligato al versamento degli oneri previdenziali (cfr. pag. 7, III cpv. sentenza gravata ); ii) sotto altro ma connesso profilo, la Corte di Appello di Torino subordina la validità della cessione dei crediti derivanti dal contratto di affitto di ramo d’azienda al duplice requisito -entrambi non richiesti dalla legge -della comunicazione preventiva di voler cedere il credito derivante dal contratto per le prestazioni eseguite e dell’assenso da parte del Cottolengo in relazione all’intervenuta cessione, sia quanto ai rapporti pregressi che a quelli successivi (cfr. pag. 7, ult. cpv. sentenza gravata). Sulla base di tale premessa, il Giudice ha attributo efficacia liberatoria al pagamento della fattura n. 147/2016 eseguito e documentato dalla committente che ha dimostrato di aver pagato direttamente i dipendenti che avevano effettuato quelle prestazioni, con un esborso complessivo di € 38.700,61, in forza degli obblighi di cui all’art. 29 del D.lgs. 276/2003, aventi efficacia liberatoria (cfr. pag. 8, II cpv. sentenza gravata). Già da queste considerazioni preliminari è possibile individuare l’errore contestabile alla Corte territoriale nell’applicazione della disciplina generale del l ‘affitto di ramo d’azienda e degli effetti prodotti da questa peculiare tipologia negoziale nei confronti dei contratti attivi della società cedente’.
Lamenta che erroneamente, in punto di fatto, la corte territoriale ha valorizzato l’opposizione del Cottolengo alla cessione di azienda, senza tuttavia considerare che esso aveva usufruito dei servizi professionali profusi dall’odierna ricorrente per il tramite del personale assorbito ex art. 2112 cod. civ., senza sollevare alcuna contestazione, se non successivamente al primo sollecito di pagamento, e, del pari erroneamente, in punto di diritto, ha male interpretato il disposto dell’art. 2558 cod. civ., in forza del quale nell’affitto di ramo di azienda la successione, anche comprensiva dei crediti attinenti all’organizzazione dell’impresa, è automatica, senza che sia richiesto il consenso del terzo contraente, al quale è invece accordato il diritto di recedere, entro tre mesi dalla notizia del trasferimento, purché sussista una giusta causa, con relativa responsabilità del concedente per l’eventuale risarcimento del danno.
Deduce inoltre che questa errata interpretazione della norma avrebbe anche comportato l’errata interpretazione degli artt. 13 -bis e 14 del contratto di appalto di servizi.
Lamenta, infine, che sarebbe errata l’affermazione della corte territoriale secondo cui il pagamento della fattura n. 147/2016 per l’importo di euro 12.179,00 avrebbe avuto efficacia liberatoria, in quanto anche se la committente Cottolengo aveva provveduto ad un pagamento in corso di causa, residuerebbe, tutt’ora, un credito insoluto.
3.1. Il motivo è inammissibile per violazione dell’art. 366 n. 6 cod. proc. civ., atteso che i documenti contrattuali e gli atti, ivi compresi quelli processuali, ai quali si fa riferimento non sono localizzati in questo giudizio di legittimità e vengono anche evocati senza adempimento degli oneri riproduttivi in via diretta od indiretta, con precisazione della parte corrispondente.
3.2. Occorre ribadire (v. già Cass., 12/01/2024, n. 1352) che la prescrizione di cui all’art. 366, cod. proc. civ., qui considerato
ai numeri 3 e 6, risponde non ad un’esigenza di mero formalismo, ma a quella di consentire una conoscenza chiara e completa dei fatti di causa, sostanziali e/o processuali, che permetta di bene intendere il significato e la portata delle censure rivolte al provvedimento impugnato.
La legittimità di tale requisito di accesso al giudizio di legittimità non può essere messa in dubbio in relazione al diritto di difesa delle parti, o a quello al giusto processo, tutelati dagli artt. 24 e 111 Cost., ovvero dall’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali (firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata -in uno al protocollo aggiuntivo firmato a Parigi il 20 marzo 1952 -con legge 4 agosto 1955, n. 848, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 221 del 24 settembre 1955 ed entrata in vigore il 10 ottobre 1955). Sotto questo profilo, in particolare, giova ribadire che il requisito di contenuto-forma in questione è imposto in modo chiaro e prevedibile, non è eccessivo per il ricorrente e risulta funzionale al ruolo nomofilattico della Suprema Corte e segnatamente all’esigenza di «consentire alla Corte di cassazione di conoscere dall’atto, senza attingerli aliunde , gli elementi indispensabili per una precisa cognizione dell’origine e dell’oggetto della controversia, dello svolgimento del processo e delle posizioni in esso assunte dalle parti» (Cass. Sez. U. 10/09/2019, n. 22575; Id. 16/05/2013, n. 11826).
Mette conto, altresì, ancora una volta rammentare che la Corte europea, con la sua sentenza 15 settembre 2016, in causa RAGIONE_SOCIALE c/ Italia (i cui principi sono stati ribaditi nella recente sentenza, depositata il 31 marzo 2021, nel caso COGNOME c. Russia), ha riaffermato -perfino riconoscendo l’astratta ammissibilità del pure abrogato sistema del c.d. «filtro a quesiti» per l’accesso in cassazione -il basilare principio della piena legittimità di un sistema anche rigoroso di requisiti formali per
l’accesso al giudizio di legittimità e per la redazione dei ricorsi introduttivi: il quale non solo non viola l’art. 6 CEDU, ma anzi è funzionale alla tutela del ruolo nomofilattico della Corte di legittimità e quindi al conseguimento dei valori fondamentali, benché non espressamente codificati nella Convenzione, della certezza del diritto e della buona amministrazione della giustizia; solo dovendo la compresente esigenza di tutela del diritto del singolo trovare un contemperamento, così che ogni soluzione possa superare il consueto vaglio di proporzionalità tra fine perseguito e mezzi impiegati (così, in motivazione, Cass. n. 26936 del 2016).
3.2.1. A tale contesto ermeneutico di riferimento non apporta significative novità la pronuncia della Corte Edu 28/10/2021, RAGIONE_SOCIALE: questa richiama anzi espressamente, confermandone i principi, tra le altre, la propria sentenza 15/09/2016, RAGIONE_SOCIALE
Essa ha bensì riscontrato la violazione dell’art. 6 § 1 della Convenzione con riferimento ad uno dei tre casi al suo esame (nel quale venivano in rilievo i diversi requisiti di ammissibilità di cui ai nn. 4 e 6 dell’art. 366 cod. proc. civ.), ma ciò ha fatto considerando, all’esito di un esame in punto di fatto degli atti ivi considerati, non certo che quei requisiti rispondessero di per sé e in astratto ad inammissibile formalismo fine a sé stesso, ma che nel caso in esame, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte di cassazione, fossero stati in realtà rispettati (e, peraltro, lo si nota sommessamente, vi sarebbe da interrogarsi sul se la censura effettuata dalla CEDU non fosse in realtà prospettabile con il rimedio interno dell’art. 391 -bis cod. proc. civ.). Quel che dunque è stata in quella sede censurata è la concreta applicazione delle formalità previste dall’ordinamento nazionale, che occorre osservare all’atto della proposizione del ricorso, in quanto nel caso esaminato ritenuta (l’applicazione, non le
formalità) in contrasto con il diritto di accesso ad un tribunale perché di fatto ispirata ad eccessivo formalismo e tale, dunque, da impedire il pur possibile esame nel merito del ricorso proposto dall’interessato.
3.3. Infine, la censura della motivazione resa dalla corte territoriale in relazione al credito portato dalla fattura n. 147/2016 non si correla alla ratio decidendi , ed è, dunque, inammissibile alla stregua del principio di diritto (già affermato da Cass. n. 359 del 2005, seguita da numerose conformi, e ribadito di recente da Cass., Sez. Un., nn. 16598 e 22226 del 2016), secondo cui: ‘Il motivo d’impugnazione è rappresentato dall’enunciazione, secondo lo schema normativo con cui il mezzo è regolato dal legislatore, della o delle ragioni per le quali, secondo chi esercita il diritto d’impugnazione, la decisione è erronea, con la conseguenza che, in quanto, per denunciare un errore bisogna identificarlo e, quindi, fornirne la rappresentazione, l’esercizio del diritto d’impugnazione di una decisione giudiziale può considerarsi avvenuto in modo idoneo soltanto qualora i motivi con i quali è esplicato si concretino in una critica della decisione impugnata e, quindi, nell’esplicita e specifica indicazione delle ragioni per cui essa è errata, le quali, per essere enunciate come tali, debbono concretamente considerare le ragioni che la sorreggono e da esse non possono prescindere, dovendosi, dunque, il motivo che non rispetti tale requisito considerarsi nullo per inidoneità al raggiungimento dello scopo. In riferimento al ricorso per Cassazione tale nullità, risolvendosi nella proposizione di un “non motivo”, è espressamente sanzionata con l’inammissibilità ai sensi dell’art. 366 n. 4 cod. proc. civ.’.
Con il secondo motivo la ricorrente denunzia ‘Violazione e falsa applicazione dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. in relazione agli artt. 112 115, 116 c.p.c. 2559 c.c.’.
Censura l’impugnata sentenza là dove afferma: ‘(…) questa Corte osserva che la RAGIONE_SOCIALE non ha mai comunicato preventivamente l’intenzione della cessione del credito derivante dal contratto (per le prestazioni eseguite) in favore della RAGIONE_SOCIALE, ma al contrario ha solo adempiuto a tale onere in data posteriore a quella di perfezionamento del contratto di affitto di azienda. Inoltre, né la RAGIONE_SOCIALE, né la RAGIONE_SOCIALE hanno mai ricevuto alcun assenso da parte della RAGIONE_SOCIALE in relazione all’intervenuta cessione, sia quanto ai rapporti pregressi che a quelli successivi (…)’ (cfr. pag. 7, ult. cpv., dell’impugnata sentenza).
Lamenta che la corte di merito ha erroneamente applicato l’art. 2559, comma 1, cod. civ., che nel tutelare sia l’interesse dell’acquirente a poter immediatamente proseguire l’attività dell’impresa, sia la mancanza di interesse dell’alienante alla conservazione di tali contratti relativi all’azienda ceduta, introduce una disposizione, eccezionale rispetto alla tutela prevista dal diritto comune per il terzo contraente, per cui, in caso di cessione di azienda, la cessione dei relativi crediti ha effetto nei confronti dei terzi dal momento dell’iscrizione del trasferimento nel registro delle imprese.
Lamenta che la corte di merito, nell’attribuire centralità al consenso preliminare del debitore ceduto, ha equiparato, con una inammissibile interpretazione analogica, la disciplina del trasferimento dei debiti in caso di affitto di ramo d’azienda alla normativa in tema di cessione del contratto ex art. 1406 cod. civ.
4.1. Il secondo motivo è inammissibile, per le medesime ragioni del primo.
4.2. Valga peraltro aggiungere, al riguardo, che le tesi prospettate dal ricorrente si limitano a riproporre censure già svolte in appello, rispetto alle quali la corte di merito si è
pronunciata nella corretta applicazione del disposto dell’art. 2558 cod. civ., come anche interpretato dalla giurisprudenza di questa Suprema Corte, secondo cui ‘In tema di affitto d’azienda, l’art. 2558 cod. civ. considera come effetto naturale dell’affitto, salvo patto contrario, il subingresso dell’affittuario nei contratti inerenti all’esercizio dell’azienda stessa che non abbiano carattere personale, e tale effetto esclude (con conseguente mancata liberazione del locatore d’azienda e contraente originario) solo in presenza di una specifica manifestazione di opposizione dell’altro contraente. Ne consegue che, in presenza dei detti presupposti (inerenza del contratto all’azienda; carattere non personale dello stesso), affinché si realizzi la successione dell’affittuario nel contratto, non è necessario dimostrare il consenso del terzo contraente’ (Cass., 16/06/2004, n. 11318).
Orbene, le doglianze della società ricorrente non scalfiscono il presupposto da cui muove la decisione adottata sul punto dalla corte d’appello, e cioè che l’art. 2558 cod. civ. prevede come naturale il subingresso dall’affittuario nei contratti inerenti all’esercizio dall’azienda, ‘se non è pattuito diversamente’ (1° comma) e che, nel caso di specie, alcune specifiche clausole del contratto integrano tale patto contrario, con previsioni tali da escludere il suddetto effetto naturale, in presenza di una specifica manifestazione di opposizione dell’altro contraente.
Priva di pregio, infine, è la censura con cui il ricorrente lamenta la mancata applicazione dell’art. 2559 cod. civ., che si riferisce solo alla cessione ed all’usufrutto di azienda, mentre la sorte delle vicende aziendali -in tutte le loro possibili forme di cessione, usufrutto ed anche affitto- è regolata esclusivamente dall’art. 2558 cod. civ.
4.3. Quanto alla deduzione della violazione dell’art. 112 non si identifica ciò che ne sarebbe stato oggetto, mentre la
violazione degli artt. 115 e 116 è dedotta inammissibilmente sulla base della giurisprudenza che si citerà a proposito del motivo successivo.
Con il terzo motivo la ricorrente denunzia ‘Violazione e falsa applicazione dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c. in relazione agli artt. 112, 115, 116 c.p.c.’.
Lamenta che la corte d’appello ha attributo esclusiva rilevanza alla missiva di contestazione della cessione del credito del 2 agosto 2016 ed ha invece trascurato di analizzare l’intero quadro probatorio, e deduce: ‘In particolare, la Corte ha omesso qualsiasi valutazione del contratto di affitto di ramo d’azienda e alla missiva del 9 giugno 2016 con cui veniva comunicata al Cottolengo la formalizzazione del citato affitto aziendale e la cessione del credito maturato in dipendenza del contratto di appalto, oltreché all’accettazione implicita della citata cessione. Ciò costituisce un errore di applicazione degli artt. 112, 115 e 116 c.p.c. censurabili ex art. 360 comma 1 n. 5 del codice di rito in quanto documenti e circostanze decisive per l ‘esito della controversia’.
5.1. Il motivo è inammissibile.
La violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. viene evocata in relazione all’omesso esame di elementi istruttori, e dunque non correttamente, dato che il vizio di omessa pronuncia è configurabile soltanto nel caso di mancato esame di domande od eccezioni di merito (v., tra le tante, Cass., 16/10/2024, n. 26913).
5.2. Egualmente, la violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. non viene svolta in conformità agli insegnamenti di questa Suprema Corte.
Secondo l’insegnamento delle Sezioni Unite, per dedurre la violazione dell’articolo 115 cod. proc. civ. occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la
prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio), mentre è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall’articolo 116 cod. proc. civ. (Cass., Sez. Un., 30/09/2020, n. 20867; Cass., Sez. Un., 05/08/2016, n. 16598).
Il presupposto della violazione dell’articolo 116 cod. proc. civ. è invece che il giudice, nel valutare una risultanza probatoria, non abbia operato (in assenza di diversa indicazione normativa) secondo il suo ‘prudente apprezzamento’, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento; diversamente, ove si deduca che il giudice abbia solo male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, solo nei rigorosi limiti in cui è ancora consentito il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione, e dunque solo in presenza dei gravissimi vizi motivazionali individuati dalle stesse Sezioni Unite (Cass., Sez. un., n. 8053 e n. 8054 del 2014; Cass., Sez. Un., 27/12/2019, n. 34474; Cass., Sez. Un. n. 20867/20, cit.).
5.3. Le critiche che la ricorrente rivolge alla impugnata sentenza si risolvono, in effetti, al di là dell’apparente deduzione di vizi di violazione di legge, in una contestazione del cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove (non legali) da
parte del giudice di merito e non sono, pertanto, inquadrabili ne’, come detto, nel paradigma dell’articolo 360 cod. proc. civ., comma 1, n. 5 (che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio), ne’ in quello del precedente n. 4, disposizione che -per il tramite dell’articolo 132 cod. proc. civ., n. 4dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante (Cass., 26/09/2018, n. 23153; Cass., 10/06/2016, n. 11892); e ciò sia perché’ la contestazione della persuasività del ragionamento del giudice di merito nella valutazione delle risultanze istruttorie attiene alla sufficienza della motivazione, non più censurabile secondo il nuovo parametro di cui all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, sia perché’ con il ricorso per cassazione la parte non può rimettere in discussione, contrapponendovi la propria, la valutazione delle risultanze processuali e la ricostruzione della fattispecie operate dai giudici del merito, trattandosi di accertamento di fatto, precluso in sede di legittimità (Cass., 15/05/2018, n. 11863; Cass., 17/12/2017, n. 29404; Cass., 02/08/2016, n. 16056).
In conclusione, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
Le spese del giudizio di legittimità, che vengono liquidate, secondo nota spese, nella misura indicata in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso.
Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 7.655,00 per compensi, oltre spese forfettarie nella
misura del 15 per cento, esborsi, liquidati in euro 200,00, ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 -quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, al competente ufficio di merito, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis , dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio della Terza