Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 13046 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 13046 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 16/05/2025
ORDINANZA
sul ricorso 5566-2021 proposto da:
NOMECOGNOME NOME, domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME, rappresentata e difesa dagli avvocati NOME COGNOME, NOME COGNOME;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 287/2020 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 24/08/2020 R.G.N. 409/2019;
Oggetto
Risarcimento danni rapporto lavoro privato
R.G.N. 5566/2021
COGNOME
Rep.
Ud. 30/01/2025
CC
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 30/01/2025 dal Consigliere Dott. COGNOME
RILEVATO CHE
La Corte di Appello di Firenze ha confermato la pronuncia del Tribunale di Grosseto di rigetto della domanda, proposta da NOME COGNOME dipendente della RAGIONE_SOCIALE, di risarcimento dei danni derivanti dalla condotta vessatoria e persecutoria di parte datoriale.
La Corte territoriale ha esaminato analiticamente i pregressi addebiti disciplinari, contestati al Rasà e sanzionati dalla società (due con sanzioni conservative e l’ultimo con la sanzione espulsiva) e invocati dal lavoratore come significativi dell’inten to persecutorio nei suoi confronti e ha ritenuto, in base all’esito delle deposizioni testimoniali, come le risultanze processuali non dimostrassero l’illegittimità della condotta datoriale.
Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso NOME COGNOME sulla base di tre motivi.
La Consigliera delegata ha, con atto del 9 luglio 2024, ha formulato proposta di definizione del giudizio ai sensi dell’art. 380 – bis c.p.c.
Il ricorrente ha chiesto la decisione del ricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nei termini di legge ex art. 380 bis 1 cpc.
CONSIDERATO CHE
I motivi possono essere così sintetizzati.
Con il primo motivo, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 5 cpc, si denuncia l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, nonché il mancato esame di prove documentali determinanti, senza che ci sia stata alcuna giustificazione e argomentazione sul punto, in ordine alle condotte vessatorie patite da esso ricorrente.
Con il secondo motivo si censura, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 4 e 5 cpc, l’errata valutazione delle prove nonché il mancato esame
delle argomentazioni di appello per essersi la Corte territoriale limitata a riportare le stesse deduzioni del giudice di prime cure.
Con il terzo motivo si obietta, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 5 cpc, l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia rappresentato dalla situazione di malessere di esso lavoratore e della percezione che egli aveva dei suoi colleghi.
Con il quarto motivo si lamenta, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 3 cpc, la violazione ed errata applicazione di legge per avere la Corte affermato che non vi era la prova dei continui atteggiamenti vessatori subiti sul luogo di lavoro e per i quali doveva rispondere il datore.
Con il quinto motivo, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 5 cpc, il ricorrente si duole dell’omessa argomentazione, da parte dei giudici di secondo grado, di alcune prove rispetto ad altre: in particolare, sulla attendibilità delle deposizioni dei genitori del COGNOME e sulla loro non conoscenza diretta dei fatti posti a fondamento della pretesa risarcitoria.
Preliminarmente, va precisato che di tutte le circostanze nuove, in fatto e diritto, dedotte da parte ricorrente solo con la memoria ex art. 380 bis comma 2 cpc, non se ne può tenere conto perché inammissibilmente prospettate.
La memoria ex art. 378 c.p.c. (cui è parificabile quella ex art. 380 bis comma 2 cpc) non può integrare, infatti, i motivi del ricorso per cassazione, poiché assolve all’esclusiva funzione di chiarire ed illustrare i motivi di impugnazione che siano già stati ritualmente cioè in maniera completa, compiuta e definitiva – enunciati nell’atto introduttivo del giudizio di legittimità, con il quale si esaurisce il relativo diritto di impugnazione (Cass. n. 8949/2023).
Ciò premesso, come correttamente rilevato nella proposta di definizione anticipata del giudizio, il primo, parte del secondo (relativamente alle doglianze articolate ex art. 360 co. 1 n. 5 cpc), il terzo ed il quinto motivo sono inammissibili perché si verte in una ipotesi di cd. doppia conforme, tra le decisioni di primo e secondo grado, ed il ricorrente non ha allegato la diversità delle ragioni di fatto
poste a base, rispettivamente, della decisione di primo e secondo grado.
Il quarto motivo è inammissibile perché, oltre a non contenere l’indicazione delle norme violate, le censure ivi veicolate tendono, in sostanza, ad ottenere solo la revisione del ragionamento decisorio del giudice, non sindacabile in sede di legittimità, in quanto la Corte di cassazione non può mai procedere ad un’autonoma valutazione delle risultanze degli atti di causa (Cass. n. 91/2014; Cass. S.U., n. 24148/2013; Cass. n. 5024/2012) e non potendo il vizio consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, spettando soltanto al giudice di merito di individuare le fonti del proprio convincimento, controllare l’attendibilità e la concludenza delle prove, scegliere tra le risultanze probatorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione dando liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova (Cass. n. 11511/2014; Cass. n. 25608/2013; Cass. n. 6288/2011; Cass. n. 6694/2009; Cass. n. 15489/2007; Cass. n. 4766/2006).
Con riguardo alle prove, quindi, mai può essere censurata la valutazione in sé degli elementi probatori secondo il prudente apprezzamento del giudice (Cass. 24155/2017; Cass. n. 1414/2015; Cass. n. 13960/2014) se non nei limiti di cui alla nuova formulazion e dell’art. 360 co. 1 n. 5 cpc, come individuati dalla giurisprudenza di legittimità (per tutte, cfr. Cass. Sez. Un. n. 8053/2014 e Cass. Sez. Un. n. 5792/2024), ratione temporis applicabile.
Il secondo motivo, infine, è anche esso inammissibile perché, anche qualora la censura fosse qualificabile ex art. 112 cpc, difetta di specificità per mancata precisazione del motivo di appello non esaminato; per il resto, si tratta anche in questo caso di una inammissibile richiesta di riesame del merito della vicenda non consentita innanzi a questa Corte di Cassazione.
Alla stregua di quanto esposto, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
Alla declaratoria di inammissibilità segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano come da dispositivo.
Poiché il giudizio è definito in conformità della proposta, va disposta la condanna del COGNOME a norma dell’art. 96, comma 3 e comma 4, c.p.c.
Vale, infatti, rammentare quanto segue: in tema di procedimento per la decisione accelerata dei ricorsi inammissibili, improcedibili o manifestamente infondati, l’art. 380-bis, comma 3, c.p.c. (come novellato dal d.lgs. n. 149 del 2022) ─ che, nei casi di definizione del giudizio in conformità alla proposta, contiene una valutazione legale tipica della sussistenza dei presupposti per la condanna ai sensi del terzo e del quarto comma dell’art. 96 c.p.c. ─ codifica un’ipotesi normativa di abuso del processo, poiché il non attenersi ad una valutazione del proponente, poi confermata nella decisione definitiva, lascia presumere una responsabilità aggravata del ricorrente (Cass. Sez. U. 13 ottobre 2023, n. 28540).
In tal senso, il ricorrente va condannato, in favore della controricorrente, al pagamento della somma equitativamente determinata di € 2.500,00, oltre che al pagamento dell’ulteriore somma di € 2.500,00 in favore della Cassa delle ammende.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ult eriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13 (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020).
PQM
La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di lite che liquida in euro 4.500,00 per compensi professionali, euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge. C ondanna il ricorrente al pagamento della somma di €. 2.000,00 in
favore della parte controricorrente, e di una ulteriore somma di €. 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 30 gennaio 2025