Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 20277 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 20277 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 20/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso 11488-2023 proposto da:
COGNOME, COGNOME, COGNOME, COGNOME, COGNOME COGNOME, tutti domiciliati presso l’indirizzo PEC dell’avvocato NOME COGNOME che li rappresenta e difende;
– ricorrenti –
contro
CENTRO DI RIFERIMENTO ONCOLOGICO – RAGIONE_SOCIALE AVIANO IRCSS, in persona del legale rappresentante pro tempore , domiciliato presso l’indirizzo PEC dell’avvocato NOME COGNOME che lo rappresenta e difende;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 159/2022 della CORTE D’APPELLO di TRIESTE, depositata il 14/11/2022 R.G.N. 137/2021;
Oggetto
RETRIBUZIONE PUBBLICO IMPIEGO
R.G.N.11488/2023
COGNOME
Rep.
Ud.05/03/2025
CC
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 05/03/2025 dal Consigliere Dott. COGNOME
FATTI DI CAUSA
Gli odierni ricorrenti avevano richiesto con ricorso per decreto ingiuntivo la condanna del Centro di Riferimento Oncologico Aviano (d’ora in poi CRO), alle dipendenze del quale prestavano servizio, al pagamento delle somme asseritamente spettanti quale corrispettivo delle illegittime decurtazioni operate dal datore di lavoro sull’orario lavorativo complessivamente prestato e attestato dalle registrazioni del sistema marcatempo (30 minuti per la pausa anche se non effettuata o effettuata in misura minore e dieci minuti eccedenti l’orario contrattuale). Avevano precisato che dette decurtazioni erano previste dal regolamento aziendale che il Tribunale di Pordenone aveva ritenuto in parte qua illegittimo con sentenza n. 57 del 2017, passata in giudicato. Il decreto ingiuntivo, concesso dal Tribunale, era stato opposto dal CRO il quale, così si legge nella sentenza qui impugnata, aveva dedotto che la pretesa monitoria si fondava su un «arbitrario e unilaterale ricalcolo dell’orario straordinario, in realtà n on effettuato o comunque non autorizzato».
Il T ribunale aveva rigettato l’opposizione valorizzando la sentenza passata in giudicato, ma la pronuncia veniva riformata dalla Corte d’appello che accoglieva il primo motivo di gravame, rilevando che il giudizio non poteva essere risolto solo invocando l’autorità del precedente giudicato , sia per la diversità delle parti rispetto a quelle della causa definita con la sentenza n. 57/2017, sia perché quella pronuncia si era limitata ad accertare in termini astratti l’illegittimità del regolamento aziendale senza statuire sulla attività lavorativa singolarmente
prestata. La Corte distrettuale richiamava il consolidato principio secondo cui nell’impiego pubblico contrattualizzato il lavoro straordinario può essere retribuito solo se autorizzato ed effettuato dal dipendente nell’interesse e a beneficio dell’azienda .
Proponevano ricorso per cassazione i dipendenti sulla base di due motivi cui resisteva il CRO con controricorso, illustrato da memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo si deduce testualmente «violazione o falsa applicazione di norma di diritto ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. per l’applicazione della normativa sulla necessità di provare l’autorizzazione ad eseguire lavoro straordinario in una fattispecie in cui non doveva essere applicata e comunque per cattiva applicazione della norma in fattispecie non esattamente comprensibile della norma».
1.1. I ricorrenti sostengono che la Corte d’appello non ha compreso il contenuto della domanda a fondamento della quale era stata posta non «la circostanza fattuale di avere svolto lavoro straordinario, ma di avere lavorato nei tempi precisamente indicati nei cartellini presenza previsti nel regolamento e che erano stati decurtati unilateralmente dal datore di lavoro in applicazione di clausola regolamentare dichiarata illegittima da sentenza passata in giudicato».
1.2. Ribadiscono che la loro pretesa si riferiva non al lavoro straordinario, che necessita di autorizzazione, ma al tempo aggiuntivo imposto dal regolamento dichiarato illegittimo dal Tribunale di Pordenone con la sentenza n. 57 del 2017 passata in cosa giudicata.
Con il secondo motivo si deduce «violazione dell’art 360, comma 1, n. 5 c.p.c. per omesso esame di un fatto decisivo e
contro
verso e difetto di motivazione nella parte in cui la Corte ha rigettato la domanda di pagamento svolta dai ricorrenti a titolo sanzionatorio per non avere il CRO dato adempimento alla sentenza n. 57 del 2017».
2.1. Il motivo ribadisce che il fondamento della domanda non era costituito dall’aver svolto lavoro ‘straordinario’ ma di aver lavorato nei tempi che erano stati decurtati unilateralmente dal datore di lavoro in applicazione di una clausola regolamentare che era stata dichiarata illegittima.
2.2 Nella sentenza impugnata non vi sarebbe il minimo riferimento alla circostanza che la sentenza del tribunale sopraindicata avrebbe dovuto essere rispettata, senza la decurtazione dalla retribuzione dell’orario di lavoro effettivamente svolto dai ricorrenti da parte del datore di lavoro sia con riferimento alla pausa non goduta pari a 30 minuti giornalieri che relativamente ai primi dieci minuti di lavoro aggiuntivo rispetto a quello ordinario.
Il primo motivo è inammissibile.
3.1. Va al riguardo premesso che la sentenza impugnata nell’accogliere il primo motivo di appello ha ritenuto il precedente giudicato inidoneo a giustificare il fondamento delle domande azionate in sede monitoria, posto che la sentenza del Tribunale di Pordenone era stata resa fra altre parti e riguardava l’illegittimità solo astratta del regolamento aziendale e non le singole posizioni lavorative. Sulla base di questa affermazione la Corte di merito ha accolto il primo motivo di appello con il quale il CRO aveva dedotto che le decurtazioni erano state fatte manualmente nei soli casi in cui l’ingresso in anticipo e la mancata pausa non avevano trovato giustificazione in esigenze di servizio.
3.2. Va in proposito richiamato il principio di recente affermato dalle Sezioni Unite (Cass. S.U. 20.6.2023 n. 18607) secondo cui il ricorrente ha l’onere di indicare puntualmente, a pena di inammissibilità, le norme asseritamente violate e l’esatto capo della pronunzia impugnata, prospettando altresì le argomentazioni intese a dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto, contenute nella sentenza gravata, siano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie, secondo l’interpretazion e delle stesse fornita dalla dottrina e dalla prevalente giurisprudenza di legittimità, così da prospettare criticamente una valutazione comparativa fra opposte soluzioni (ex multis, Cass. n. 635/2015; Cass. n. 26307/2014; Cass. n. 16038/2013; Cass. n. 22348/2007; Cass. n. 5353/2007; Cass. n. 4178/2007; Cass. n. 828/2007); ove rilevanti, inoltre, vanno indicati anche gli elementi fattuali in concreto condizionanti gli ambiti di operatività della violazione, ai fini di consentire alla Corte la corretta sussunzione del fatto nelle norme che si assumono violate o erroneamente applicate (Cass. n. 16872/2014; Cass. n. 15910/2005). Il vizio di violazione di legge deve essere dedotto, pertanto, non solo con l’indicazione delle norme che si assumono violate, ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni, intellegibili ed esaurienti, intese a motivatamente dimostrare in qual modo date affermazioni in diritto, contenute nella sentenza impugnata, debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornite dalla giurisprudenza di legittimità: pertanto, è inammissibile la denuncia di violazione e falsa applicazione di una serie di articoli, ove essendo la stessa meramente enunciata nella rubrica del motivo, ma non trovando sviluppo argomentativo nel corpo del medesimo (Cass., sez. un., n. 25392/2019). Il
vizio va argomentato mediante valutazione comparativa fra opposte soluzioni, evidenziandosi le ragioni per cui non si condividono quelle esposte nel provvedimento impugnato (Cass. n. 287/2016; Cass. n. 16760/2015; Cass. n. 16038/2013; Cass. n. 3010/2010).
3.3. Nel caso concreto, il motivo di ricorso è privo della necessaria indicazione delle norme di diritto asseritamente violate senza una articolata argomentazione in ordine alle ragioni giuridiche per cui non si condividono le soluzioni adottate dalla Corte di Appello, soprattutto con riferimento al giudicato e alla sua inidoneità a esplicare i suoi effetti nel caso concreto.
Su tale profilo argomentativo la censura non prospetta le argomentazioni intese a dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto, contenute nella sentenza gravata, siano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie, secondo l’interp retazione delle stesse fornita dalla dottrina e dalla prevalente giurisprudenza di legittimità, così da prospettare criticamente una valutazione comparativa fra opposte soluzioni.
3.4. Inoltre, il motivo di ricorso insiste sulla ritenuta illegittimità del regolamento aziendale, ma non si confronta con la specifica ratio decidendi della pronuncia impugnata nella parte in cui esclude il vincolo del giudicato.
Anche il secondo motivo è inammissibile.
4.1. Ed invero anche il vizio di cui all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. va articolato (per tutte, Cass., sez. un., 7 aprile 2014, n. 8053), dopo la sua modifica ad opera dell’art. 54 d.l. 22 giugno 2012 n. 83, convertito, con modificazioni, in l. 7 agosto 2012 n. 134, tenendo conto che si tratta di un vizio specifico, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la
cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia);
ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli art. 366 e 369 c.p.c., il ricorrente deve indicare il «fatto storico», il cui esame sia stato omesso, il «dato», testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il «come» e il «quando» tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua «decisività», fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie. In mancanza, il motivo d’impugnazione è viziato da nullità per inidoneità al raggiungimento dello scopo, che, nel giudizio di cassazione, risolvendosi in un ‘non motivo’, è sanzionata con l’inammissibilità (cfr. Cass., sez. un, n. 20501/2019; Cass. n. 454/2019; Cass. n. 447/2019; Cass. n. 22478/2018; Cass. n. 20910/2017; Cass. n. 17330/2015; Cass. n. 187/2014; Cass. n.11984/2011).
4.2. Ciò posto, la censura denuncia come omesso esame di fatto storico decisivo per il giudizio il mancato e/o erroneo apprezzamento di deduzioni difensive relativamente all’interpretazione asseritamente errata della domanda originaria svolta dai ricorrenti avente ad oggetto la decurtazione unilaterale di orario di lavoro da parte del CRO in applicazione di una clausola regolamentare illegittima.
Tale profilo di censura non rispetta le previsioni degli art. 366 e 369 c.p.c., secondo cui il ricorrente deve indicare il «fatto storico», il cui esame sia stato omesso, il «dato», testuale o
extratestuale, da cui esso risulti esistente, il «come» e il «quando» tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua «decisività», atteso che la asserita erronea interpretazione delle deduzioni difensive non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto storico, rilevante in causa.
In conclusione, il ricorso va dichiarato inammissibile.
Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte dichiara il ricorso inammissibile. Condanna parte ricorrente al rimborso di € 1. 800,00 a titolo di compensi, oltre € 200,00 per esborsi, nonché al rimborso forfetario delle spese generali, nella misura del 15%, ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art.13, comma 1 quater del DPR 115/2002, dà atto della ricorrenza dei presupposti processuali per il versamento da parte dei ricorrenti dell’importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma del comma 1 bis dello stesso art.13.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della IV Sezione