Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 5208 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 3 Num. 5208 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 27/02/2024
Oggetto
Responsabilità civile – Danno da illecito extracontrattuale
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 15346/2021 R.G. proposto da COGNOME NOME, rappresentato e difeso dall’AVV_NOTAIO (p.e.c. indicata: EMAIL);
-ricorrente –
contro
NOME COGNOME AVV_NOTAIO AVV_NOTAIO, RAGIONE_SOCIALE NOME, RAGIONE_SOCIALE, RAGIONE_SOCIALE, tutti rappresentati e difesi dall’AVV_NOTAIO COGNOME (p.e.c. indicata: EMAIL), con domicilio eletto in Roma, INDIRIZZO, presso lo studio dell’AVV_NOTAIO (pec: EMAIL);
-controricorrenti –
e nei confronti di
Banca Popolare di Sondrio, COGNOME NOME, RAGIONE_SOCIALE in RAGIONE_SOCIALE, COGNOME NOME, COGNOME NOME;
avverso la sentenza della Corte d’appello di depositata in data 18 marzo 2021.
-intimati -Milano n. 878/2021
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 12 febbraio 2024 dal Consigliere NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
NOME COGNOME propone ricorso, con sei motivi, nei confronti di NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e RAGIONE_SOCIALE (che resistono con unico controricorso), nonché della Banca Popolare di Sondrio, di NOME COGNOME, della RAGIONE_SOCIALE, di NOME COGNOME e di NOME COGNOME (che rimangono intimati), per la cassazione della sentenza -in epigrafe indicatadella Corte d’appello di Milano, che, confermato il rigetto, deciso in primo grado, delle sue domande, ha confermato anche la condanna alle spese e al pagamento di ulteriore somma per responsabilità processuale aggravata; statuizioni, queste ultime, ripetute anche per il giudizio di appello.
È stata fissata per la trattazione l’odierna adunanza camerale ai sensi dell’art. 380 -bis.1 cod. proc. civ., con decreto del quale è stata data rituale comunicazione alle parti.
Non sono state depositate conclusioni dal Pubblico Ministero.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Il ricorso è così strutturato:
─ riportato , nella prima pagina, il dispositivo della sentenza d’appello impugnata , si apre subito dopo un paragrafo intitolato « Fatto e svolgimento del processo » (pagg. 2 -6);
─ segue, poi, da pag. 6 a pag. 9, un paragrafo intitolato « Il fatto
secondo i giudici »;
─ le pagg. da 9 a 25 sono quindi dedicate alla illustrazione dei motivi;
─ infine, alle pagg. 26 -29, sono riportate, per l’auspicata ipotesi di una pronuncia cassatoria con decisione nel merito, non meglio definite « conclusioni rassegnate in atti ».
Dalla esposizione del « Fatto e svolgimento del processo », scorrendo nel testo tra affermazioni polemiche e l’anticipazione di critiche poi riprese nei motivi, si ricava che:
─ con l’atto introduttivo del giudizio di primo grado era stata rappresentata « una truffa, non solo ai danni dell’Erario, ma anche a … danno » dell’istante, scoperta nel 2014 per via « dell’accertamento dell’RAGIONE_SOCIALE delle entrate » (pag. 2);
─ si era assunto, in quella sede, che:
« per eseguire la truffa … la Banca Popolare di Sondrio ha aperto un conto corrente con firma falsa di NOME COGNOME, in qualità di presidente di una associazione costituita anche questa con firme falsificate (ed oggetto dell’accertamento dell’RAGIONE_SOCIALE delle entrate) » (pag. 3 del ricorso);
« le società convenute hanno versato sul conto corrente somme sproporzionate per ‘sponsorizzare’ una attività improbabile ed insignificante nel campo della vela dilettantistica …, godendone dei benefici fiscali » ( ibidem );
« poi i legali rappresentanti di quelle società … hanno ripreso i soldi versati, stavolta sotto forma di contanti … i soldi sono spariti dal conto corrente come appare dagli estratti conto bancari, gli unici che il dottor NOME COGNOME ha recuperato dall’RAGIONE_SOCIALE delle entrate » (sempre pag. 3);
« è stata … predisposta documentazione falsificata per l’RAGIONE_SOCIALE delle entrate, costituita dalle fasulle ricevute di rimborso ai soci (apparenti) che avrebbero anticipato “spese” (ovviamente non
documentate, come risulta anche dall’accertamento fiscale) » (pag. 4);
─ due convenuti erano rimasti contumaci in primo grado (Banca Popolare di Sondrio e « un professionista »); gli altri si erano invece costituiti (ma nulla si dice delle loro difese) (pag. 4);
─ il giudice aveva rigettato l’istanza di (emissione di) ordine di esibizione da rivolgersi alla Banca;
─ assegnata la causa ad altro magistrato, essa era stata decisa come sopra detto;
─ la Corte d’appello ha rigettato il gravame interposto, ritenuto però tempestivo a dispetto di preliminare eccezione sul punto delle controparti (pag. 5).
La parte del ricorso che si è detto intitolata « Il fatto secondo i giudici » contiene argomentazioni a supporto delle pretese risarcitorie insieme a considerazioni critiche rivolte ai « pronunciamenti di merito », all’interno di un discorso frammentario e disorganico.
Si tratta di affermazioni che, da un lato, non consentono di comprendere quali fossero i « pronunciamenti » presi di mira e in che modo essi si inserissero nello sviluppo dei due gradi di giudizio (si accomunano, nel discorso critico, senza alcuna distinzione, « i giudici del merito »), dall’altro, non vengono in alcun modo ricondotte ad alcuno dei vincolati mezzi di critica ammessi nel giudizio di legittimità.
Non è pertanto attribuibile a tale parte del ricorso alcun ruolo funzionale alla svolta impugnazione, tanto meno quella di motivo di ricorso.
Al riguardo, varrà rammentare che l’art. 366 n. 4 cod. proc. civ. (nel testo applicabile ratione temporis ) impone l’indicazione, a pena d ‘ inammissibilità, de « i motivi per i quali si chiede la cassazione, con l’indicazione delle norme di diritto su cui si fondano ».
Tale requisito, come chiarito dalle Sezioni Unite, comporta « l’esigenza di una chiara esposizione, nell’ambito del motivo, delle
ragioni per le quali la censura sia stata formulata e del tenore della pronunzia caducatoria richiesta, che consentano al giudice di legittimità di individuare la volontà dell’impugnante e stabilire se la stessa, così come esposta nel mezzo di impugnazione, abbia dedotto un vizio di legittimità sostanzialmente, ma inequivocamente, riconducibile ad alcuna delle tassative ipotesi di cui all’art. 360 cod. proc. civ. » (Cass. Sez. U. 24/07/2013, n. 17931).
Venendo quindi alla parte del ricorso che si è detto dichiaratamente dedicata alla illustrazione dei motivi, deve anzitutto rilevarsi che con il primo di essi sono svolte tre distinte censure.
4.1. Con la prima ─ intitolat a « la domanda e la costituzione adesiva della RAGIONE_SOCIALE -violazione dell’art. 360 n. 3 c.p.c. in relazione all’art. 112 c.p.c. » ─ il ricorrente critica la sentenza impugnata per avere male interpretato le conclusioni svolte dalla convenuta COGNOME nella comparsa di costituzione in primo grado, come volte a ottenere solo il rigetto della domanda nei suoi confronti avanzata e non anche sentenza di accertamento della falsità della sua firma apparente apposta sulla ricevuta prodotta dall’attore .
Assume che, ove invece correttamente interpretata in tal senso, si sarebbe dovuto dare atto che sia l’attore che la convenuta avevano esposto posizioni convergenti sull’assunto della falsità della firma e che pertanto non vi era soccombenza di esso ricorrente sul punto.
Tale censura va letta (ed esaminata) congiuntamente alla prima censura del sesto motivo, con la quale ─ al fine di impugnare la statuita condanna alle spese nei confronti della RAGIONE_SOCIALE ─ si rileva che, in ogni caso , la Corte d’appello, in mancanza di appello incidentale sul punto, non poteva qualificare diversamente la domanda riconvenzionale della RAGIONE_SOCIALE dal momento che così era stata qualificata dal Tribunale, che l’aveva anche rigettata.
4.2. Con la seconda censura ─ rubricata « violazione dell’art. 360 n. 5 in relazione agli artt. 250 e segg. c.p.c. e 2697 c.c. » ─ il
ricorrente deduce che « l’esistenza di documentazione (ricevute di rimborso) ove la firma falsa della RAGIONE_SOCIALE appare accertata, doveva dare ingresso alle istanze istruttorie per accertare che anche le altre ricevute erano state chiaramente falsificate ».
4.3. Con la terza censura ─ intestata « violazione dell’art. 360 n. 3 c.p.c. in relazione all’art. 112 c.p.c. e 2697 c.c. » ─ lamenta, infine, che erroneamente la Corte d’appello abbia ritenuto inammissibile la domanda di accertamento della falsità delle firme apposte sui rimborsi per spese, apparentemente redatte da terzi soggetti, sul rilievo che il disconoscimento può riguardare solo la firma di chi lo opera.
Rileva, al riguardo, che si trattava in realtà di una istanza istruttoria, volta a ottenere dai terzi, in sede testimoniale, di dichiarare se le firme fossero o meno le loro.
Il secondo motivo, dedicato -secondo intestazionealla posizione della Banca Popolare di Sondrio, si articola in due censure.
5.1. Con la prima ─ rubricata « violazione dell’art. 360 n. 5 in relazione agli artt. 210 e segg. c.p.c. e 2697 c.c. » ─ si lamenta che erroneamente la Corte territoriale abbia ritenuto inammissibile l’ordine di esibizione documentale richiesto nei confronti della banca, poiché generico e meramente esplorativo. Ci si duole altresì della mancata ammissione di prova per testi (v. ricorso, pag. 15).
5 .2. Con la seconda ─ rubricata « violazione dell’art. 360 n. 5 in relazione agli artt. 112, 115 e 116 c.p.c. » ─ si lamenta il mancato esame della domanda proposta nei confronti della banca, rimasta contumace.
Con il terzo motivo ─ riferito, secondo l’anteposta rubrica, alla posizione dei convenuti/appellati COGNOME, COGNOME NOME e COGNOME e intitolato « violazione dell’art. 360 n. 5 in relazione agli artt. 640 e 110 c.p. » ─ il ricorrente lamenta che erroneamente la Corte di merito abbia ritenuto che a fondamento della pretesa risarcitoria erano stati
addotti dei meri « sospetti, congetture, non meglio precisate ipotesi nei confronti di una pluralità di soggetti, tutti convenuti in giudizio, senza mai indicare quali specifiche attività sarebbero state da loro poste in essere allegando fatti precisi » e che ciò appariva in particolare evidente riguardo alla posizione dei convenuti suddetti, indicati come autori di attività illecite: il COGNOME, per il solo fatto di essere stato legale delle due società RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE; il COGNOME NOME e la sua ex moglie non si sa nemmeno in quale veste.
Si sostiene che, in realtà, non di insinuazioni si trattava ma di vere prove (confessioni, movimenti di conto corrente).
Con il quarto motivo ─ riferito, secondo l’anteposta rubrica, alla posizione dei convenuti/appellati « RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALERAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE -Di COGNOME » e intitolato « violazione dell’art. 360 n. 3 in relazione 210 » ─ il ricorrente si duole del rigetto delle richieste di emissione di ordine di esibizione rivolte nei confronti delle dette società, ritenute in sentenza « del tutto esplorative ovvero superflue ».
Osserva che, essendo pacifico che le società avevano sponsorizzato in misura abnorme (per quasi Euro 400.000 complessivi) una attività dilettantistica, sarebbe stato necessario acquisire i relativi contratti atteso che, in mancanza, tali contratti avrebbero dovuto considerarsi nulli, in frode alla legge.
Argomenta, quindi, che « secondo le regole processuali sulla prova, in questo caso per presunzioni gravi, precise e concordanti, appare evidente che la sponsorizzazione era fasulla, e le somme versate sono state tutte ‘restituite’ ai legali rappresentanti, che così hanno beneficiato non solo di una riduzione di tasse ed imposte, ma hanno davvero frodato il fisco, e truffato l’attore ».
Con il quinto motivo ─ intitolato « l’omessa ammissione delle prove; violazione dell’art. 360 n. 5 in relazione art. 2697 c.c. e 244 e sgg. c.p.c. » ─ il ricorrente lamenta che erroneamente la Corte d’appello abbia ritenuto inammissibili le prove orali e non abbia
nemmeno disposto, come richiesto, l’ esibizione di documenti e l’ acquisizione di informazioni.
Questi, in sintesi, gli argomenti di critica proposti:
─ la prova per testi sui capitoli nn. 1 4 non è stata ammessa perché diretta a far dichiarare dai testi che le firme apposte sui documenti da mostrare loro sarebbero state falsificate, ovvero che la firma di soggetto estraneo al giudizio sarebbe falsa per fatto notorio o, ancora, perché relativa a circostanze negative o del tutto inconferenti: « affermazioni » -dice il ricorrente- « non degne di commento »;
─ la prova per testi sui capitoli nn. 5, 6, 7, 8 e 10 non è stata ammessa perché relativa a circostanze da provare documentalmente: assunto -secondo il ricorrente- erroneo dal momento che si trattava di fatti per i quali non era richiesta, e per alcuni nemmeno era possibile, la prova scritta;
─ le richieste di ordine di esibizione documentale non sono state ammesse perché « assolutamente esplorative e generiche » e quella ex art. 213 cod. proc. civ. sul rilievo che tale mezzo istruttorio non può « supplire alla mancanza di prove dell’assunto prospettato dall’appellante fin dall’inizio in termini addirittura dubitativi »: motivazione -secondo il ricorrente- laconica e da considerare alla stregua di « frase di stile ».
Con il sesto motivo sono, infine, svolte distinte censure così sintetizzabili:
─ ha errato la Corte d’appello a confermare la condanna alle spese del giudizio di primo grado in favore di NOME COGNOME, avendo omesso di considerare che non vi era nei suoi confronti effettiva soccombenza (di tale censura si è già detto a proposito della prima censura del primo motivo);
─ altro errore avrebbe commesso la Corte milanese a proposito delle spese liquidate in primo grado in favore dei convenuti COGNOME,
COGNOME, COGNOME e COGNOME, COGNOME e COGNOME, atteso che, essendosi essi costituiti bensì con atti distinti ma con il patrocinio dello stesso avvocato, si sarebbe dovuto procedere alla RAGIONE_SOCIALE di un solo importo, « eventualmente maggiorato per ogni parte con la tariffa base, diminuita per ogni parte rappresentata »;
─ infine , sarebbe errata la condanna al pagamento di somma per responsabilità aggravata in relazione al proposto appello, sia perché disposta sul falso presupposto che l’impugnazione fosse priva dei requisiti di cui all’art. 342 c.p.c. (smentito dal fatto che l’appello fu giudicato infondato, non inammissibile), sia per la mancanza del presupposto della integrale soccombenza.
Ebbene, pur prescindendo dalla marcata carenza strutturale del ricorso sul piano dell’assolvimento dell’onere di cui all’art. 366 n. 3 cod. proc. civ. ─ invero, al di là della assai vaga descrizione dei fatti posti a fondamento dell’atto introduttivo (già rilevata dalle pronunce di merito) e del contenuto stesso delle domande, nulla è detto circa: le difese e/o eccezioni svolte dai convenuti nel giudizio di primo grado; le ragioni poste a fondamento della decisione di primo grado; i motivi che erano stati proposti a fondamento dell’appello; le difese in appello svolte dalle controparti; le motivazioni della sentenza d’appello (fatta eccezione per un ampio stralcio di essa che viene trascritto nella illustrazione del terzo motivo di ricorso) ─ tutte le esposte censure si appalesano inammissibili.
Lo è anzitutto la prima censura del primo motivo e di conseguenza lo stesso deve dirsi della prima censura del sesto motivo.
La Corte d’appello ha confermato il rigetto della domanda di accertamento negativo proposta nei confronti di NOME essenzialmente sulla base dei seguenti rilievi (v. sentenza, pagg. 18 19):
─ « non è ammissibile una domanda di accertamento negativo che
abbia ad oggetto, come nella formulazione indicata, non già un rapporto giuridico, ma una condotta ovvero la falsità della firma di un soggetto terzo diverso dall’autore del disconoscimento, mancando sul punto qualsivoglia interesse giuridico in capo alla parte che formula siffatta richiesta » (a conferma richiamandosi il precedente di Cass. n. 16162 del 2015);
─ « diversamente da come censurato, le conclusioni formulate dalla difesa di NOME COGNOME non possono essere interpretate come confermative della domanda di accertamento negativo articolata dall’appellante, con conseguente accoglimento della stessa», essendo chiaro piuttosto che l’appellata ha chiesto «il rigetto di tutte le pretese articolate anche nei suoi confronti », a tale esito essendo finalizzata anche la contestazione della propria firma apparente apposta su una ricevuta di rimborso;
─ neppure l’appellante, del resto, aveva « saputo spiegare la ragione della sua citazione in giudizio ».
Orbene di queste tre rationes decidendi il ricorrente impugna solo la seconda, ma non la prima né la terza, di per sé assorbenti.
La circostanza che il Tribunale avesse ritenuto proposta, dalla convenuta COGNOME, domanda di accertamento negativo della propria firma e l’avesse rigettata, sembra in effetti trovare riscontro anche nella sentenza impugnata, là dove, a pag. 19, si evidenzia che « in dispositivo il Tribunale respinto la domanda riconvenzionale a suo avviso svolta dalla sua difesa ».
A fronte di tale statuizione, in assenza di appello incidentale, restava in effetti precluso alla Corte d’appello operare una diversa interpretazione delle conclusioni della predetta convenuta.
Tutto ciò nondimeno non esclude che:
la domanda principale del COGNOME era stata a sua volta dichiarata inammissibile per difetto di interesse: valutazione di per sé non inficiata dal fatto che anche la domanda della COGNOME fosse stata
rigettata;
il rigetto della domanda riconvenzionale di accertamento negativo della RAGIONE_SOCIALE non determinava una soccombenza reciproca nei confronti dell’attore, dal momento che, com’è pacifico, non si trattava di domanda contrapposta;
pur diversamente opinando al riguardo, restava in ogni caso consentito al giudice, ai sensi dell’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ. (non compensare ma) porre interamente le spese a carico di una delle parti, in ipotesi, reciprocamente soccombenti;
in tale ultima prospettiva la condanna dell’attore restava giustificata dal rilievo dell’inammissibilità, per difetto di interesse, di quella domanda di accertamento negativo, le cui ragioni erano rimaste non spiegate anche in appello;
il fatto stesso di avere convenuto in giudizio la RAGIONE_SOCIALE, senza alcuna pretesa da far valere nei suoi confronti, esponeva l’attore , infatti, per il principio di causalità, a sopportare le spese da lei sostenute per costituirsi in giudizio e ivi rappresentare le proprie difese.
Peraltro, il ricorrente omette anche di specificare in che termini sul punto si era espresso il primo giudice e se e come la relativa statuizione era stata impugnata con l’appello.
La seconda censura del primo motivo ─ con la quale, al di là del non pertinente riferimento in rubrica agli artt. 2697 cod. civ. e 250 cod. proc. civ., il ricorrente si duole della mancata ammissione di prova per testi ─ è inammissibile , sotto vari profili.
12.1. Anzitutto, per inosservanza dei requisiti di cui ai nn. 4 e 6 dell’art. 366 cod. proc. civ. .
12.1.1. Non è chiaro, invero, di cosa si lamenti esattamente al riguardo il ricorrente: se del fatto che la Corte d’appello abbia del tutto omesso di esaminare le richieste istruttorie cui si fa riferimento (v. pag. 11 del ricorso, sub par. 1.2) o del fatto che le abbia espressamente ritenute inammissibili e in tal caso con quale motivazione
È appena il caso di rammentare in proposito che, secondo principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, il motivo d’impugnazione è rappresentato dall’enunciazione, secondo lo schema normativo con cui il mezzo è regolato dal legislatore, delle ragioni per le quali, secondo chi esercita il diritto d’impugnazione, la decisione è erronea, con la conseguenza che, siccome per denunciare un errore occorre identificarlo (e, quindi, fornirne la rappresentazione), l’esercizio del diritto d’impugnazione di una decisione giudiziale può considerarsi avvenuto in modo idoneo soltanto qualora i motivi con i quali è esplicato si concretino in una critica della decisione impugnata e, quindi, nell’esplicita e specifica indicazione delle ragioni per cui essa è errata, le quali, per essere enunciate come tali, debbono concretamente considerare le ragioni che la sorreggono e da esse non possono prescindere, dovendosi, dunque, il motivo che non rispetti tale requisito, considerarsi nullo per inidoneità al raggiungimento dello scopo. In riferimento al ricorso per Cassazione tale nullità, risolvendosi nella proposizione di un «non motivo», è espressamente sanzionata con l’inammissibilità ai sensi dell’art. 366 n. 4 cod. proc. civ. (Cass. 11/01/2005, n. 359; v. anche ex aliis Cass. Sez. U. 20/03/2017, n. 7074, in motivazione, non massimata sul punto; Id. 05/08/2016, n. 16598; Id. 03/11/2016, n. 22226; Cass. 15/04/2021, n. 9951; 05/07/2019, n. 18066; 13/03/2009, n. 6184; 10/03/2006, n. 5244; 04/03/2005, n. 4741).
12.1.2. Neppure si indica, inoltre, tanto meno nel rispetto degli oneri di specificità e autosufficienza imposti dagli artt. 366 n. 6 e 369
n. 4 cod. proc. civ., se e dove tali prove fossero state richieste in primo grado, se e come su tali richieste si fosse pronunciato il primo giudice, se, in caso di mancata ammissione, le richieste stesse fossero state reiterate in sede di precisazione delle conclusioni, né ancora se sul punto fosse stato proposto specifico motivo di gravame.
12.2. In secondo luogo, la censura andrebbe detta comunque inammissibile poiché non risulta adeguatamente illustrata ─ né può ravvisarsi ─ la decisività delle circostanze oggetto di prova, indicazione tanto più necessaria considerato che esse riguardavano soggetti estranei al giudizio (con la sola eccezione di NOME COGNOME, con riferimento alla quale però, come sopra s’è già evidenziato, non risultava contestato che essa non avesse firmato la prodotta ricevuta di rimborso spese).
Varrà al riguardo rilevare che, quand’anche, all’esito della richiesta prova testimoniale, risultasse confermato che le firme apposte sui documenti esibiti ai testi non erano autentiche (secondo accertamento, riguardante l’efficacia probatoria , invero affidato al libero apprezzamento del giudice, e quindi suscettibile di essere accertato con qualunque mezzo di prova, ove si tratti di scrittura privata non autenticata prodotta in giudizio nei confronti di parte diversa dall’autore apparente: v. Cass. n. 6192 del 28/06/1994), non si vede, però, né è spiegato, quale legame inferenziale avrebbe da ciò potuto far giungere al convincimento della fondatezza delle domande proposte nei confronti dei convenuti/appellati.
13. La terza censura del primo motivo è parimenti inammissibile per lo stesso motivo. Posto che è lo stesso ricorrente a precisare, nella illustrazione della censura , che ─ a dispetto dell’improprio riferimento in rubrica agli artt. 112 c.p.c. e 2697 c.c. ─ ciò di cui si duole non è l’omessa pronuncia su motivo di gravame , né la violazione dei criteri di riparto dell’onere probatorio, ma la mancata ammissione di prova per testi, valgano al riguardo le medesime
considerazioni sopra svolte con riferimento alla seconda censura del primo motivo.
La prima censura del secondo motivo è inammissibile.
14.1. Quanto all’ordine di esibizione ex art. 210 cod. proc. civ. -fermo restando che non si dice nemmeno, tanto meno nel rispetto degli oneri di specificità imposti dall’art. 366 n. 6 cod. proc. civ., se e quando sia stato richiesto in primo grado, quali siano state le valutazioni sul punto del primo giudice, se e in che termini fosse stato proposto motivo di gravame -va rilevato, in via assorbente, che la valutazione concernente la ricorrenza dei relativi presupposti è rimessa al giudice di merito e il mancato esercizio da parte di costui del relativo potere discrezionale non è sindacabile in sede di legittimità (v. Cass. 12/05/2022, n. 15167; 07/01/2021, n. 52; 07/07/2011, n. 14968; 24/04/2004, n. 7855; 19/09/2002, n. 13721).
14.2. Quanto poi alla prova per testi valgano le medesime considerazioni sopra svolte a proposito della seconda censura del primo motivo (v. supra par. 12.1 e sottoparagrafi).
La seconda censura del secondo motivo è parimenti inammissibile sotto vari profili.
Non si precisa, tanto meno nel rispetto degli oneri di specificità e autosufficienza, quale domanda non sia stata esaminata dalla Corte d’appello.
La violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. da parte del giudice di secondo grado è peraltro in astratto prospettabile solo con riferimento a motivi di gravame, non certo a domande ; ed invero delle due l’una : o si tratta di domande proposte in primo grado, e in tal caso il giudice d’appello è tenuto a occuparsene solo in relazione alla decisione che sia stata al riguardo presa dal primo giudice ed ai motivi di impugnazione; o si tratta di domande nuove e in tal caso il giudice d’appello non è proprio tenuto a prenderle in esame per il divieto
posto dall’art. 345 cod. proc. civ..
Quand’anche il ricorrente intendesse riferirsi non a una « domanda » ma ad un « motivo di gravame », non muterebbe comunque l’esito . Il difetto di specificità e autosufficienza rimarrebbe infatti ugualmente apprezzabile, e ciò anche con riferimento all’onere in tal caso gravante sul ricorrente di precisare -a pena di inammissibilità – che il motivo era stato mantenuto nel giudizio di appello fino al momento della precisazione delle conclusioni (v. Cass. n. 5087 del 3/03/2010: « la parte che, in sede di ricorso per cassazione, deduce che il giudice di appello sarebbe incorso nella violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. per non essersi pronunciato su un motivo di appello o, comunque, su una conclusione formulata nell’atto di appello, è tenuta, ai fini dell’astratta idoneità del motivo ad individuare tale violazione, a precisare – a pena di inammissibilità che il motivo o la conclusione sono stati mantenuti nel giudizio di appello fino al momento della precisazione delle conclusioni »; v. anche conf. n. 41205 del 22/12/2021, Rv. 663494 -01): onere, nella specie, non assolto.
16. Il terzo motivo è inammissibile.
L ungi dall’illustrare il dedotto error in iudicando , esso prospetta inammissibilmente una quaestio facti , peraltro con inosservanza degli oneri di specifica indicazione degli atti richiamati, ex artt. 366 n. 6 e 369 n. 2 c.p.c..
17. Il quarto motivo è inammissibile.
Anzitutto, per inosservanza del requisito di cui all’art. 360 n. 4 cod. proc. civ.: vengono confusamente intrecciate argomentazioni critiche che non consentono di comprendere quale sia l’effettivo obiettivo censorio.
Quanto alla doglianza di mancata emissione dell’ordine di esibizione valgano comunque le considerazioni svolte a proposito della prima censura del secondo motivo (v. supra par. 13.1).
Per il resto la censura prospetta anch’essa una quaestio facti il cui esame non è consentito nel giudizio di legittimità.
18. Il quinto motivo ─ il quale prospetta ancora doglianze per la mancata ammissione di richieste istruttorie ─ è inammissibile , sotto vari profili.
18.1. In quanto riferita ai capitoli nn. 1, 2, 3 e 4 di prova, lo è (inammissibile): a) per la mancata specifica indicazione del contenuto di tali capitoli e dell’atto nel quale essi sono stati formulati, in violazione degli artt. 366 n. 6 e 369 n. 4 c.p.c.; b) perché non viene indicato se quelle prove fossero state richieste in primo grado e se fossero state iterate in sede di precisazione delle conclusioni e, in tal caso, se e quale valutazione su quelle richieste avesse espresso il primo giudice, se e quale motivi di gravame fosse stato al riguardo proposto; c) per l’assenza di uno specifico motivo di critica, riferibile ad alcuno dei vizi cassatori (tale non potendo certo considerarsi il rilievo che le affermazioni al riguardo espresse in sentenza « non sono degne di commento »).
18.2. In quanto riferita agli altri capitoli di prova, la censura è inammissibile -oltre che per le ragioni già sopra esposte – perché comunque si risolve nella prospettazione di un non deducibile vizio di motivazione.
Al riguardo, varrà rammentare che la mancata ammissione di richiesta istruttoria non può integrare vizio di violazione di legge sostanziale, atteso che a potersi valutare in rapporto alla sua correttezza in iure è la decisione resa sulla domanda giudiziale, non già quella meramente strumentale riguardante le richieste istruttorie, finalizzate solo all’accertamento dei fatti rilevanti.
Il provvedimento reso sulle richieste istruttorie è piuttosto, in astratto, censurabile, o per inosservanza di norme processuali o per vizio di motivazione, ma in tale secondo caso solo nei ristretti limiti nei quali è oggi deducibile secondo il paradigma di cui all’art. 360,
comma primo, num. 5, cod. proc. civ..
Non può, in via di principio, essere posto in dubbio il rilievo che il diritto alla prova assume quale strumento di un effettivo esercizio del diritto di agire e difendersi in giudizio attraverso un giusto processo (artt. 24 e 111 Cost.; art. 6, § 1, CEDU) di guisa che la sua violazione, ove per l’appunto si risolva in violazione anche di tali dirittifine, è certamente censurabile in cassazione ai sensi dell’art. 360, comma primo, num. 4, cod. proc. civ..
Una tale violazione è, però, configurabile allorquando il giudice del merito rilevi decadenze o preclusioni insussistenti (cfr. Cass. 05/03/1977, n. 910) ovvero affermi tout court l’inammissibilità del mezzo di prova richiesto per motivi che prescindano da una valutazione, di merito, della sua rilevanza in rapporto al tema controverso ed al compendio delle altre prove richieste o già acquisite.
Ove invece ci si muova in tale seconda prospettiva, ancorché la decisione del giudice di merito si risolva pur sempre nel rifiuto di ammettere il mezzo di prova richiesto, non viene in rilievo una regola processuale rigorosamente prescritta dal legislatore ma piuttosto -come è stato rilevato -« il potere (del giudice) di operare nel processo scelte discrezionali, che, pur non essendo certamente libere nel fine, lasciano tuttavia al giudice stesso ampio margine nel valutare se e quale attività possa o debba essere svolta » (Cass. Sez. U. 22/05/2012, n. 8077).
In tal caso, « la decisione si riferisce, certo, ad un’attività processuale, ma è intrinsecamente ed inscindibilmente intrecciata con una valutazione complessiva dei dati già acquisiti in causa ed, in definitiva, della sostanza stessa della lite. Il che spiega perché siffatte scelte siano riservate in via esclusiva al giudice di merito e perché, quindi, pur traducendosi anch’esse in un’attività processuale, esse siano suscettibili di essere portate all’attenzione della Corte di
cassazione solo per eventuali vizi della motivazione che le ha giustificate, senza che a detta Corte sia consentito sostituirsi al giudice di merito nel compierle » (Cass. Sez. U. n. 8077 del 2012, cit.).
La mancata ammissione della prova pone, dunque, in tale ipotesi, solo un problema di coerenza e completezza della ricostruzione del fatto in rapporto agli elementi probatori offerti dalle parti e può pertanto essere denunciata in sede di legittimità (solo) per vizio di motivazione in ordine all’attitudine dimostrativa di circostanze rilevanti ai fini della decisione (Cass. n. 20693 del 2015; n. 66 del 2015; n. 5377 del 2011; n. 4369 del 1999).
Nel caso di specie si verte, evidentemente, in questa seconda ipotesi.
La Corte d’appello ha , in sostanza, considerato irrilevanti, sotto vari profili, le prove di che trattasi.
Ciò inevitabilmente attribuisce alla doglianza rilievo censorio non riconducibile al paradigma di cui al num. 4 dell’art. 360 cod. proc. civ. ma a quello di cui al num. 5 e la sottopone ai relativi limiti di deducibilità.
In tale prospettiva, invero, la censura si risolve, come detto, nella prospettazione di una mera quaestio facti , ovvero di un difetto di ricognizione della fattispecie concreta.
Essa, però, si appalesa in tale direzione inammissibile sia per la palese inosservanza del paradigma del novellato art. 360, comma primo, num. 5, cod. proc. civ., sia, ancor prima, per la preclusione che alla prospettazione di un siffatto vizio deriva, ai sensi dell’art. 348ter , quinto comma, cod. proc. civ. (applicabile, ai sensi del d.l. n. 83 del 2012, art. 54, comma 2, conv., con modif., dalla legge n. 134 del 2012, ai giudizi d’appello introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione dal giorno 11 settembre 2012) dall’essere la decisione impugnata confermativa sul
punto della decisione di primo grado (c.d. doppia conforme).
18.3. Quanto, infine, alla mancata ammissione dei mezzi istruttori ex artt. 210 e 213 cod. proc. civ., in disparte il rilievo della aspecificità della doglianza, varrà rammentare che i poteri istruttori attribuiti al giudice ex art. 210 cod. proc. civ. e 213 cod. proc. civ., da un lato, come correttamente rilevato nella sentenza impugnata, non possono valere a sopperire al mancato assolvimento dell’onere probatorio gravante sula parte, dall’altro hanno natura prettamente discrezionale e il loro mancato esercizio non è sindacabile dalla Corte di cassazione (Cass. n. 27412 del 08/10/2021: «In tema di poteri istruttori del giudice, l’emanazione di ordine di esibizione è discrezionale e la valutazione di indispensabilità non deve essere neppure esplicitata; ne consegue che il relativo esercizio è svincolato da ogni onere di motivazione e il provvedimento di rigetto dell’istanza non è sindacabile in sede di legittimità, neppure sotto il profilo del difetto di motivazione, trattandosi di strumento istruttorio residuale, utilizzabile soltanto quando la prova dei fatti non possa in alcun modo essere acquisita con altri mezzi e l’iniziativa della parte istante non abbia finalità esplorativa»; Cass. n. 34158 del 20/12/2019: «L’esercizio del potere, previsto dall’art. 213 c.p.c., di richiedere d’ufficio alla P .A. le informazioni relative ad atti e documenti della stessa che sia necessario acquisire al processo, costituisce una facoltà rimessa alla discrezionalità del giudice, il mancato ricorso alla quale non è censurabile in sede di legittimità»; v. anche, ex aliis Cass. n. n. 14454 del 24/05/2023; n. 23120 del 16/11/2010; n. 24188 del 25/10/2013).
Il sesto motivo è inammissibile.
19.1. Della prima censura già si è detto nello scrutinio ad essa dedicato congiuntamente alla prima censura del primo motivo (v. supra par. 11).
19.2. La seconda censura è inammissibile. La grave carenza, già
sopra rilevata, di indicazioni circa la ragioni in fatto e in diritto delle pretese azionate nei confronti di ciascuno dei convenuti, impedisce di compiere alcun vaglio in ordine all’assunto secondo cui si trattava di parti aventi la «stessa posizione processuale», con la conseguente applicabilità della norma di cui all’art. 4, comma 2, d.m. 10 marzo 2014, n. 55, ai fini della RAGIONE_SOCIALE dei compensi spettanti all’unico avvocato che, pur con distinti atti, li aveva tutti rappresentati e difesi in giudizio.
19.3. La terza censura è inammissibile.
Atteso l’esito del giudizio di appello non può dubitarsi della piena e integrale soccombenza dell’appellante.
La condanna al pagamento di somme ex art. 96, terzo comma, cod. proc. civ., non è motivata in sentenza dalla mancanza dei requisiti di cui all’art. 342 c.p.c., avendo piuttosto la Corte di merito inteso stigmatizzare, in quanto espressione di « evidente malafede », l’inconsistenza nel merito delle pretese azionate e della loro riproposizione in appello.
Il ricorrente non contesta l’idoneità in astratto di tale rilievo a giustificare la ritenuta esistenza di malafede sanzionabile ai sensi della richiamata disposizione, ma contesta piuttosto la sussistenza del detto presupposto fattuale, con ciò inammissibilmente investendo, con censura generica e meramente oppositiva, nel suo complesso, la stessa decisione di rigetto dell’appello.
20. Per tutte le considerazioni che precedono il ricorso deve essere in definitiva dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento, in favore dei controricorrenti, delle spese del presente giudizio, liquidate come da dispositivo.
Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore
importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1 -bis dello stesso art. 13.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso.
Condanna il ricorrente al pagamento, in favore dei controricorrenti, delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 5.600 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 -quater del d.P .R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente , dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1 -bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza