Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 18912 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 1 Num. 18912 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 10/07/2024
Oggetto: mutuo
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 20221/2020 R.G. proposto da COGNOME NOME e NOME, rappresentati e difesi da ll’ AVV_NOTAIO, con domicilio eletto presso lo studio dell’AVV_NOTAIO, sito in Roma, INDIRIZZO
– ricorrenti –
contro
RAGIONE_SOCIALE, rappresentata dalla RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’AVV_NOTAIO, con domicilio eletto presso il suo studio, sito in Roma, INDIRIZZO
– controricorrente –
avverso la sentenza del Tribunale di Monza n. 873/2019, depositata il 16 aprile 2019, e l’ordinanza della Corte di appello di Milano n. 1088/2020, depositata il 6 aprile 2020.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 31 maggio 2024 dal Consigliere NOME COGNOME;
RILEVATO CHE:
NOME COGNOME e NOME COGNOME propongono ricorso per cassazione avverso la sentenza del Tribunale di Monza, depositata il 16 aprile 2019 e oggetto di un loro appello dichiarato inammissibile ai sensi degli artt. 348 bis e 348 ter cod. proc. civ., che, pronunciandosi sulla opposizione al decreto ingiuntivo con cui era stato intimato loro di pagare in favore della UBI Banca s.p.a., quale mandataria della RAGIONE_SOCIALE, la somma di euro 28.935,12, oltre interessi, per inadempimento delle obbligazioni derivanti da un contratto di mutuo ipotecario, ha revocato il decreto ingiuntivo opposto e condannato essi ricorrenti al pagamento della minor somma di euro 28.899,11, oltre interessi, previo scorporo dalla somma ingiunta di quella corrispondente agli interessi moratori maturati sulla quota di interessi corrispettivi delle rate scadute, in quanto versata in esecuzione di una clausola nulla per violazione del divieto di anatocismo di cui all’art. 1283 cod. civ.;
il Tribunale ha osservato che, diversamente da quanto sostenuto dagli opponenti, il credito azionato era liquido e determinabile, la clausola avente a oggetto la determinazione degli interessi corrispettivi era valida e la banca non aveva applicato interessi usurari, ritenendo, altresì, infondati gli altri motivi di opposizione;
il ricorso è affidato a sei motivi;
resiste con controricorso la RAGIONE_SOCIALE, quale mandataria della RAGIONE_SOCIALE;
parte controricorrente deposita memoria ai sensi dell’art. 380 -bis .1 cod. proc. civ.;
CONSIDERATO CHE:
con il primo motivo i ricorrenti denunciano la violazione o falsa applicazione degli artt. 116 cod. proc. civ. e 2697 cod. civ., per aver il Tribunale erroneamente apprezzato il valore probatorio dei documenti prodotti dalla banca (in particolare, il piano di ammortamento e le comunicazioni relative alle richieste di pagamento), i quali non
offrirebbero dimostrazione dell’effettivo ammontare del credito , ed erroneamente ritenuto assolto l’onere probatorio gravante sulla banca medesima;
il motivo è inammissibile;
-deve rammentarsi che la evocata violazione dell’art. 116 cod. proc. civ. richiede l’allegazione che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato -in assenza di diversa indicazione normativa -secondo il suo prudente apprezzamento, attribuendole un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento (cfr. Cass., Sez. Un., 30 settembre 2020, n. 20867);
nel caso in esame difetta una siffatta allegazione, per cui l’evocazione del paradigma normativo non risulta pertinente;
del pari, non pertinente è il richiamo al paradigma rappresentato dall’art. 2967 cod. civ., in quanto i ricorrenti si dolgono, nella sostanza, non della non corretta applicazione dei criteri che presiedono al riparto dell’onere della prova, fissati da tale disposizione normativa, bensì della valutazione del giudice in ordine alla idoneità delle risultanze probatorie a dimostrare la sussistenza del diritto vantato dalla banca creditrice
con il secondo motivo i ricorrenti deducono la violazione o falsa applicazione degli artt. 1283, 1284, 1346 e 1418 cod. civ., per aver la sentenza impugnata ritenuto insussistente l’obbligo della banca di indicare l’Indicatore Sintetico di Costo (I .S.C.) dell’operazione in quanto un siffatto obbligo sarebbe stato previsto da disposizioni (la delibera del C.I.C.R. del 4 marzo 2003) approvate successivamente alla conclusione del contratto in oggetto;
evidenziano che la clausola avente a oggetto la indicazione degli interessi era nulla per indeterminatezza e che il giudice, una volta
dichiarata la nullità della clausola relativa alla capitalizzazione degli interessi passivi, avrebbe dovuto provvedere, tramite consulente tecnico d’ufficio, a scorporare anche le altre voci maturate successivamente alla chiusura del conto;
il motivo è inammissibile;
la doglianza si risolve in una generica contestazione della decisione del Tribunale nella parte in cui ha escluso l’allegata indeterminatezza della clausola relativa alla fissazione degli interessi passivi e ha quantificato il credito della banca all’esito dell’esclusione delle poste corrispondenti agli interessi moratori indebitamente capitalizzati;
difetta, altresì, l’indicazione delle ragioni per cui sarebbe errata la sentenza impugnata nell’aver ritenuto inapplicabile ratione temporis la menzionata delibera C.I.C.R. e quali sarebbero le conseguenze derivanti dalla violazione dell’obbligo ivi previsto di indicazione dell’I.S.C. dell’operazione;
con il terzo motivo i ricorrenti lamentano la violazione o falsa applicazione degli artt. 1284 e 1815, secondo comma, cod. civ., 644 cod. pen. e del d.l. 29 dicembre 2000, n. 394, conv. nella l. 28 febbraio 2001, n. 24, per aver il Tribunale ritenuto che il tasso di interesse pattuito fosse rispettoso delle soglie previste in materia di usura, omettendo di pendere in considerazione le argomentazioni sviluppate sul punto dagli opponenti e le risultanze probatorie;
con il quarto motivo si dolgono della violazione o falsa applicazione degli artt. 1815, secondo comma, cod. civ. e 644 cod. pen. e della l. 7 marzo 1996, n. 108, per aver la sentenza impugnata proceduto alla verifica del rispetto delle soglie previste dalla legislazione in materia di usura senza considerare l’operatività di clausole di revisione del tasso di interesse che avevano determinato il superamento di tali soglie;
i motivi, esaminabili congiuntamente, sono inammissibili;
le censure si risolvono in una critica alla valutazione degli elementi probatorie effettuata dal Tribunale in ordine alla individuazione degli
interessi applicati al contratto in oggetto, la quale non può essere sindacata in questa sede in relazione al paradigma della violazione o falsa applicazione di legge, trattandosi di un accertamento riservato al giudice di merito (cfr. Cass., Sez. Un., 27 dicembre 2019, n. 34476);
-con particolare riferimento all’omessa considerazione dell a clausola di revisione del tasso di interesse, va aggiunto, in primo luogo, che non è indicato se e in quale sede la doglianza è stata proposta dinanzi al giudice di merito, e, in secondo luogo, che la parte omette di indicare il contenuto di tale clausola, se la stessa è stata applicata e in che termini essa ha comportato il superamento del tasso soglia di riferimento, per cui la censura si presenta, sul punto, priva della sufficiente specificità, non consentendo di poterne apprezzare la ammissibilità e fondatezza;
con il quinto motivo i ricorrenti criticano la sentenza di primo grado per violazione o falsa applicazione degli artt. 116 e 117 t.u.b., nella parte in cui ha omesso di dichiarare la nullità del contratto a causa dell’omessa indicazione degli interessi e degli oneri che concorrevano a determinare il costo dell’operazione, così come espressi dal T.E.G. o dall’I.S.C.;
il motivo è inammissibile;
-la censura muove dall’assunto della omessa indicazione del costo dell’operazione, così come espresso da elementi analitici, quali gli interessi e gli altri oneri, e da quelli sintetici, che non trova riscontro nella sentenza impugnata, dalla quale, anzi, si evince la sola mancata indicazione, come rilevato in precedenza, dell’I.S.C., ritenuta non dovuta in assenza dell’esistenza di un relativo obbligo normativo vigente al momento della conclusione del contratto;
orbene, il vizio di violazione o falsa applicazione di legge non può che essere formulato se non assumendo l’accertamento di fatto, così come operato dal giudice del merito, in guisa di termine obbligato, indefettibile e non modificabile del sillogismo tipico del paradigma
dell’operazione giuridica di sussunzione, là dove, diversamente (ossia ponendo in discussione detto accertamento), si verrebbe a trasmodare nella revisione della quaestio facti e, dunque, ad esercitarsi poteri di cognizione esclusivamente riservati al giudice del merito (cfr. Cass. 13 marzo 2018, n. 6035; Cass., 23 settembre 2016, n. 18715);
-con l’ultimo motivo i ricorrenti deducono la violazione o falsa applicazione dell’art. 115 cod. proc. civ., per aver la sentenza impugnata omesso di disporre la richiesta consulenza tecnica d’ufficio;
il motivo è inammissibile;
-la deduzione della violazione dell’art. 115 cod. proc. civ. richiede l’allegazione che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio);
la doglianza non contiene una siffatta allegazione, per cui il richiamato paradigma normativa risulta erroneamente evocato;
può aggiungersi, in ogni caso, che la decisione di disporre o meno una consulenza tecnica d’ufficio rientra nei poteri discrezionali del giudice di merito (cfr. Cass. 25 agosto 2023, n. 25281; Cass. 13 gennaio 2020, n. 326; Cass. 23 marzo 2017, n. 7472);
pertanto, per le indicate considerazioni, il ricorso va dichiarato inammissibile;
le spese processuali seguono il criterio della soccombenza e si liquidano come in dispositivo
P.Q.M.
La Corte dichiara il ricorso inammissibile; condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese di giudizio di legittimità, che si liquidano in complessivi euro 4.000,00, oltre rimborso forfettario nella misura del 15%, euro 200,00 per esborsi e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, t.u. spese giust., dà atto della
sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Rom a, nell’adunanza camerale del 31 maggio 2024.