Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 14916 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 14916 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 04/06/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 9662 R.G. anno 2021 proposto da:
COGNOME NOME e COGNOME NOME, in proprio e quali fideiussori e soci successori di RAGIONE_SOCIALE , rappresentati e difesi dall’avvocato NOME COGNOME;
ricorrente
contro
RAGIONE_SOCIALE quale procuratrice speciale di RAGIONE_SOCIALE rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME
contro
ricorrente
contro
RAGIONE_SOCIALE quale procuratrice speciale di RAGIONE_SOCIALE rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME
interveniente avverso la sentenza n. 288/2021 depositata il 9 marzo 2021 della Corte
di appello di Salerno.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 24 aprile 2025 dal consigliere relatore NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
─ Con atto di citazione del 30 luglio 2009 DRD RAGIONE_SOCIALE debitrice principale, unitamente a NOME COGNOME e a NOME COGNOME, fideiussori, hanno convenuto in giudizio Banca di Roma al fine di sentir accertata la correttezza di alcuni addebiti in conto corrente, con condanna della suddetta convenuta alla restituzione di quanto da essa illegittimamente percepito.
Banca di Roma ha resistito la domanda e chiesto in via riconvenzionale la condanna degli attori al pagamento della somma di euro 174.790,93
Il Tribunale ha respinto le domande attrici e ha condannato la società correntista e i garanti al pagamento dell’importo sopraindicato, maggiorato di interessi.
2 . ─ Il gravame interposto dagli attori soccombenti in primo grado è stato disatteso dalla Corte di appello di Salerno.
-Ricorrono per cassazione, con cinque motivi, COGNOME e COGNOME, anche nella qualità di soci successori ex art. 110 c.p.c. della società RAGIONE_SOCIALE, cancellata dal registro delle imprese. Resiste con controricorso RAGIONE_SOCIALE quale procuratrice speciale di RAGIONE_SOCIALE, cessionaria del credito azionato in via riconvenzionale. E’ intervenuta in giudizio RAGIONE_SOCIALE quale procuratrice speciale di RAGIONE_SOCIALE, cessionaria del credito.
RAGIONI DELLA DECISIONE
-L’intervento di COGNOME è inammissibile.
E’ difatti inammissibile nel giudizio di cassazione l’intervento di terzi che non hanno partecipato alle pregresse fasi di merito (Cass. 7
agosto 2018, n. 20565; Cass. 18 aprile 2005, n. 7930 ), fatta l’eccezione del successore a titolo particolare nel diritto controverso, ove non vi sia stata precedente costituzione del dante causa (Cass. 1 marzo 2022, n. 6774; Cass. 10 ottobre 2019, n. 25423): nel caso in esame la dante causa di RAGIONE_SOCIALE ha preso parte al giudizio di legittimità, notificando a mezzo della sua procuratrice speciale, controricorso.
Col primo motivo si deduce la violazione ed errata applicazione degli artt. 1418 e 1421 c.c., oltre che la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c.. Si lamenta che la Corte di appello di Salerno non si sia pronunciata sull ‘ eccezione di nullità del contratto di fideiussione . L’eccezione concerneva, in particolare, la nullità della fideiussione in quanto costituente sbocco dell’intesa restrittiva intercorsa tra gli istituti bancari : intesa accertata dalla Banca d’Italia con provvedimento n. 55 del 2005.
Il motivo è inammissibile.
Va osservato che l’eccezione di cui si discorre fu proposta nella comparsa conclusionale di appello. Ebbene, nel giudizio di appello, come in quello di primo grado, la comparsa conclusionale di cui all’art. 190 c.p.c. ha la sola funzione di illustrare le domande e le eccezioni già ritualmente proposte, sicché, ove con tale atto sia prospettata per la prima volta una questione nuova, il giudice del gravame non può, e non deve, pronunciarsi al riguardo, senza, con ciò, incorrere nella violazione dell’art. 112 c.p.c. (Cass. 23 giugno 2022, n. 20232): ne consegue che qualora il giudice dell’appello si sia astenuto dalla pronuncia, il motivo di ricorso per cassazione con cui ci si dolga di tale mancata pronuncia dev’essere dichiarato inammissibile (Cass. 5 agosto 2005, n. 16582).
Vero è che l’eccezione concerneva questione rilevabile d’ufficio. Nondimeno, i ricorrenti non deducono di aver documentato tempestivamente la stessa: e cioè di aver prodotto nei termini di cui all’art. 183, comma 6, c.p.c., quanto era necessario per comprovare l’intesa in questione e la derivazione, da essa, del contratto di
fideiussione oggetto di causa. Ciò posto, la nullità del contratto è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del processo, a condizione che i relativi presupposti di fatto, anche se non interessati da specifica deduzione della parte interessata, siano stati acquisiti al giudizio di merito nel rispetto delle preclusioni assertive e istruttorie, ferma restando l’impossibilità di ammettere nuove prove funzionali alla dimostrazione degli stessi (Cass. 23 febbraio 2024, n. 4867); in conseguenza, la parte che, in sede di legittimità, lamenti il mancato rilievo ufficioso della menzionata invalidità deve dedurre -a pena di inammissibilità della censura per difetto di specificità -anche l’emersione, nel corso del giudizio di merito, degli elementi che avrebbero dovuto indurre il giudice a ravvisare detta nullità (Cass. 19 ottobre 2022, n. 30885, con riguardo alla nullità della clausola con cui si realizzi un abuso di dipendenza economica, sancita dall’art. 9 l. n. 192 del 1998).
3. Col secondo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1346, 1418 e 1419 c.c.. La censura investe la sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso la nullità della clausola contrattuale relativa alla commissione di massimo scoperto. Si richiama l’art. 2 -bis , comma 1, d.l. n. 185/2008, che ha previsto la nullità delle clausole che prevedano una remunerazione per la banca per la messa a disposizione di una linea di credito indipendentemente dal suo utilizzo.
Il motivo è inammissibile.
La Corte di appello ha rilevato che la commissione di massimo scoperto risultava pattuita legittimamente nel contratto «in relazione al criterio di calcolo individuato temporalmente e in relazione alla somma massima di scoperto di bimestrale, stante il carattere remunerativo della voce di spesa».
A fronte di tale rilievo non vale genericamente opporre quanto previsto dall’ art. 2bis , comma 1, d.l. n. 185/2008 (convertito, con modificazioni in l. n. 2/2009). La norma in questione non aveva effetto
retroattivo e l’adeguamento , rispetto alle relative prescrizioni, dei contratti che erano in corso alla data di entrata in vigore della legge di conversione del citato decreto-legge doveva aver luogo, in base al comma 3 dello stesso articolo, nei successivi centocinquanta giorni. Ciò detto, la questione relativa all’applicazione, al rapporto, del cit. art. 2bis riflette questione nuova: e, come è noto, ove, con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, è onere della parte ricorrente, al fine di evitarne una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso stesso, di indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Suprema Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta questione (Cass. 1 luglio 2024, n. 18018; Cass. 9 agosto 2018, n. 20694; Cass. 13 giugno 2018, n. 15430; Cass. 18 ottobre 2013, n. 23675 ). D’altro canto, il tema in esame è privo di decisività se non si deduce – e i ricorrenti non hanno dedotto – che , perdurando il contratto alla data di entrata in vigore del d.l. n. 185 del 2008, la banca mancò di adeguare il contratto di conto corrente, secondo quanto prescritto dal richiamato comma 3 dell’art. 2 -bis.
4. Il terzo mezzo prospetta la violazione e falsa applicazione degli artt. 113 c.p.c., 2697 e 1421 c.c., oltre che della l. n. 108/1996. Il motivo di ricorso investe la sentenza impugnata nella parte in cui ha affermato che la doglianza sull’usura non poteva trovare accoglimento, posto che gli odierni ricorrenti non avevano prodotto i decreti ministeriali – quelli, deve qui precisarsi , recanti i tassi effettivi globali medi -e non avevano «neppure contestualizzato la censura in relazione alla misura dell’usura all’arco temporale di riferimento». Si osserva che, a differenza di quanto affermato dal Giudice di appello, la violazione di legge eccepita era stata documentata e chiarita; si
aggiunge che i richiamati decreti ministeriali non andavano acquisiti mediante produzione documentale dal momento che essi recavano norme di carattere secondario che realizzavano una eterointegrazione del precetto normativo.
L’affermazio ne della Corte territoriale circa l’assenza di specificità della censura – la quale precede in rito, sul piano logico -giuridico, quella circa la mancata documentazione dei tassi soglia attraverso l ‘acqu isizione processuale dei decreti ministeriali – è malamente aggredita dagli istanti. Questi deducono di aver dedotto, in appello, come anche dall’esame degli estratti conto scalari emergesse l’applicazione di «tassi fino al 13% in evidente violazione delle soglie stabilite dai decreti ministeriali previsti dalla l. n. 108/1990 ». Lamentano, tuttavia, la violazione della detta legge, dell’art. 2697 c.c. e dell’art. 1421 c.c.: e quindi di discipline normative di carattere sostanziale, che nulla hanno a che vedere con la statuizione impugnata, che è, invece, di contenuto processuale. In ogni caso, la pronuncia oggetto di ricorso, nella parte che interessa, è incentrata su di un deficit di allegazione ed è quindi contrastata in modo inappropriato facendo riferimento alle emergenze degli estratti conto, quindi a un dato probatorio. Senza contare che la censura svolta in questa sede si mostra generica e priva di concludenza, posto che i ricorrenti, per un verso, non riproducono il preciso contenuto della difesa fatta valere in appello e fanno riferimento, per altro verso, a un unico estratto conto, senza nemmeno chiarire la ragione per la quale il Giudice distrettuale avrebbe dovuto ritenere usurario l’ interesse addebitato (non precisano, infatti, di aver in quella sede indicato il tasso soglia applicabile al rapporto oggetto di causa: indicazione che non forniscono nemmeno col ricorso per cassazione).
Una volta stabilito che la doglianza basata sull’inammissibilità della censura proposta in appello è a sua volta inammissibile, per le ragioni appena indicate, non rileva quanto affermato dalla Corte di
appello circa la mancata produzione dei decreti ministeriali di rilevazione dei tassi effettivi globali medi, tema – questo – che attiene alla prova dell’usurarietà dei tassi applicati. Infatti, ove il giudice, dopo avere dichiarato inammissibile una domanda, un capo di essa o un motivo d’impugnazione, in tal modo spogliandosi della potestas iudicandi , abbia ugualmente proceduto al loro esame nel merito, le relative argomentazioni devono ritenersi ininfluenti ai fini della decisione e, quindi, prive di effetti giuridici, di modo che la parte soccombente non ha l’onere né l’interesse ad impugnarle, essendo tenuta a censurare soltanto la dichiarazione d’inammissibilità, la quale costituisce la vera ragione della decisione (Cass. 19 settembre 2022, n. 27388; Cass. 16 giugno 2020, n. 11675).
In conclusione, il terzo motivo è inammissibile.
5. Il quarto motivo oppone l’omessa o insufficiente valutazione di un fatto decisivo della controversia ovvero violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c.. Ci si duole, in sintesi, della mancata ammissione della consulenza tecnica contabile: decisione motivata dalla Corte territoriale avendo riguardo sia all’onere gravante sul cliente di fornire la prova dei movimenti del conto, sia alla genericità delle doglianze formulate dagli appellanti.
Il motivo è palesemente inammissibile.
I ricorrenti non spiegano quale sarebbe il fatto storico oggetto di omesso esame. L’art. 360, n. 5, c.p.c., riformulato dall’art. 54 del d.l. n. 83/2012, convertito in l. n. 134/2012, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, n. 6, e 369, n. 4, c.p.c., il ricorrente deve indicare il «fatto storico», il
cui esame sia stato omesso, il «dato», testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il «come» e il «quando» tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua «decisività», fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8054). Si osserva, per completezza, che la lagnanza dei ricorrenti si prospetta comunque non conferente: una volta chiarito che le deduzioni svolte dagli appellanti con riguardo alla commissione di massimo scoperto e all’usura risultavano essere generiche, va fatta applicazione del principio per cui la consulenza tecnica è legittimamente negata qualora la parte tenda con essa a supplire alla deficienza delle proprie allegazioni, oltre che delle proprie offerte di prova (Cass. 12 aprile 2019, n. 10373; Cass. 15 dicembre 2017, n. 30218).
Per dedurre, poi, la violazione dell’art. 115 c.p.c. occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio), mentre è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall’art. 116 c.p.c. (Cass. Sez. U. 30 settembre 2020, n. 20867; Cass. 9 giugno 2021, n. 16016).
6. Col quinto mezzo di censura si lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c.. Con riguardo alla domanda riconvenzionale proposta dalla banca si deduce che la documentazione contabile prodotta non era tale da consentire la ricostruzione del
rapporto bancario e quindi da giustificare l’accoglimento della pretesa creditoria.
Il motivo è inammissibile.
La censura è evidentemente diretta a una revisione del giudizio di fatto riservato al giudice del merito. Come è noto, del resto, la violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c., censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c., è configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (Cass. 31 agosto 2020, n. 18092; Cass. 29 maggio 2018, n. 13395; Cass. 17 giugno 2013, n. 15107).
Nel corpo del motivo i ricorrenti svolgono due deduzioni che sono inammissibili. Assumono, anzitutto, che la banca avrebbe dovuto fornire la prova della ricezione degli estratti conto (da parte del cliente che ne era destinatario) e rilevano, poi, che la stessa odierna controricorrente, attrice in riconvenzionale, avrebbe dovuto produrre il contratto di apertura di conto corrente recante la sottoscrizione di entrambe le parti. Con riguardo alla prima questione non è spiegato come essa sia stata fatta valere nel corso del giudizio di merito, onde ne va dichiarata, per ciò solo, l’ inammissibilità; in ogni caso, la produzione in giudizio degli estratti conto costituisce «trasmissione», ai sensi dell’art. 1832 c.c., onerando il correntista delle necessarie specifiche contestazioni al fine di impedire che lo stesso possa intendersi approvato (Cass. 28 luglio 2006, n. 17242) e tale onere di contestazione opera anche nei confronti del fideiussore (Cass. 25 settembre 2003, n. 14234; Cass. 2 maggio 2002, n. 6258; cfr. pure Cass. 27 giugno 2023, n. 18352). La seconda questione è stata poi specificamente affrontata dalla Corte territoriale, che ha fatto retta
applicazione del principio, affermato in tema di intermediazione finanziaria, per cui il requisito della forma scritta del contratto è rispettato ove sia redatto il contratto per iscritto e ne venga consegnata una copia al cliente ed è sufficiente la sola sottoscrizione dell’investitore, non necessitando la sottoscrizione anche dell’intermediario, il cui consenso ben si può desumere alla stregua di comportamenti concludenti dallo stesso tenuti’ (Cass. Sez. U. 16 gennaio 2018. n. 898): principio ribadito in più occasioni per i contratti bancari (di recente, tra le pronunce massimate in tal senso, cfr. Cass. 12 ottobre 2023, n. 28500).
Il ricorso va dunque dichiarato inammissibile.
– Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza. Nulla compete all’interveniente, stante l’inammissibilità dell’intervento.
P.Q.M.
La Corte
dichiara inammissibile il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 3.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi, liquidati in euro 200,00, ed agli accessori di legge; ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater , del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti , dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello stabilito per il ricorso, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 1ª Sezione