Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 1752 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 3 Num. 1752 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 16/01/2024
Oggetto
Responsabilità professionale AVV_NOTAIO
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 23638/2021 R.G. proposto da COGNOME NOME, rappresentato e difeso dagli AVV_NOTAIOti NOME COGNOME (p.e.c. indicata: EMAIL) ed NOME COGNOME, con domicilio eletto presso lo studio del primo in Roma, INDIRIZZO;
-ricorrente –
contro
COGNOME NOME, rappresentato e difeso dagli AVV_NOTAIOti NOME COGNOME (p.e.c. indicata: EMAIL) e NOME COGNOME (p.e.c. indicata: EMAIL), con domicilio eletto presso il loro studio in Roma, INDIRIZZO
-controricorrente – avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma, n. 1444/2021 pubblicata il 24 febbraio 2021.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 6 dicembre 2023 dal Consigliere NOME COGNOME.
Rilevato che:
NOME COGNOME ricorre, con due motivi, nei confronti del AVV_NOTAIO (che resiste con controricorso), per la cassazione della sentenza in epigrafe con la quale la Corte d’appello di Roma ha confermato la decisione di primo grado che aveva respinto la sua domanda risarcitoria proposta nei confronti del predetto per danni da responsabilità professionale;
è stata fissata per la trattazione l’odierna adunanza camerale ai sensi dell’art. 380 -bis.1 cod. proc. civ., con decreto del quale è stata data rituale comunicazione alle parti;
non sono state depositate conclusioni dal Pubblico Ministero.
considerato che:
il ricorso si espone ad un preliminare e assorbente rilievo di inammissibilità perché carente del requisito di contenuto-forma prescritto dall’art. 366, comma primo, num. 3, cod. proc. civ. ;
il ricorrente ha inteso, infatti, assolvere il relativo onere attraverso la riproduzione testuale (tra virgolette e per esteso, nelle prime due pagine del ricorso, prima dell’esposizione dei motivi e delle conclusioni), di tre limitati brani della sentenza impugnata, ossia:
del dispositivo;
della parte descrittiva delle domande e delle difese svolte dalle parti nel giudizio di primo grado (non anche però delle statuizioni resa da quel giudice, né soprattutto delle relative motivazioni);
delle conclusioni dell’appellante e dell’appellato (non anche dei motivi d’appello, né delle motivazioni della relativa sentenza);
da tali indicazioni emerge (solo) che:
─ a fondamento della domanda si era dedott o in primo grado che: l’odierno ricorrente aveva costituito unitamente alla moglie un fondo patrimoniale con atto rogato dal convenuto in data 9 maggio 2002, avente ad oggetto bene immobile in Roma; tale cespite era stato sottoposto a pignoramento, per la quota della metà di pertinenza dell’attore, con atto trascritto in data 26 giugno 2014 e previsione di vendita all’incanto con valore di € 748.080,00; l’istante aveva appreso, in sede di opposizione all’esecuzione , che il Fondo era stato trascritto ma non annotato a margine dell’atto di matrimonio, ragione per cui la opposizione era stata respinta; a causa dell’omissione del convenuto aveva perciò subìto il pignoramento con danno pari al valore del bene perduto;
─ il notaio aveva di contro dedotto che: anche la sola trascrizione del Fondo rendeva inopponibile a terzi il vincolo di inespropriabilità; l’opposizione era stata proposta dalla moglie, sicché le disposizioni del g.e. non erano pertinenti alla posizione dell’attore; non vi era stato in ogni caso alcun pregiudizio in quanto il vincolo di destinazione sul bene era venuto meno prima del pignoramento ovvero con la separazione dei coniugi trascritta in data 14 gennaio 2014 ed il raggiungimento della maggiore età della figlia; non era infine chiara la natura del debito, ben potendo riferirsi a necessità familiari con conseguente possibile soddisfazione sul Fondo, ed essendo escluso un danno ingiusto in caso di costituzione del vincolo per sottrarre beni ai creditori; era infine lo stesso attore che aveva eventualmente concorso al pregiudizio, avendo subìto pignoramento del c/c soddisfacendo parzialmente le ragioni creditorie;
assolutamente nulla invece è detto circa:
le ragioni per cui in primo grado la domanda risarcitoria era stata rigettata;
i motivi che erano stati proposti a fondamento dell’appello;
le difese in appello svolte da controparte;
le motivazioni della sentenza d’appello;
anche l’illustrazione dei singoli motivi nulla dice della vicenda processuale e del modo del suo dipanarsi nei due gradi del giudizio di merito, per comprendere i quali dunque non resterebbe alla Corte che la lettura degli atti del processo;
orbene, nel solco di una consolidata pregressa giurisprudenza, simili forme di adempimento dell’onere di cui all’art. 366, comma primo, num. 3, cod. proc. civ., sono state ritenute inidonee da Cass. Sez. U. 11/04/2012, n. 5698, secondo la quale: «in tema di ricorso per cassazione, ai fini del requisito di cui all’art. 366 c.p.c., n. 3, la pedissequa riproduzione dell’intero, letterale contenuto degli atti processuali è, per un verso, del tutto superflua, non essendo affatto richiesto che si dia meticoloso conto di tutti i momenti nei quali la vicenda processuale si è articolata; per altro verso, è inidonea a soddisfare la necessità della sintetica esposizione dei fatti, in quanto equivale ad affidare alla Corte, dopo averla costretta a leggere tutto (anche quello di cui non occorre sia informata), la scelta di quanto effettivamente rileva in ordine ai motivi di ricorso»;
in base a tale principio di diritto, costantemente ribadito dalla giurisprudenza di questa Corte (si vedano, fra tante: Cass. n. 16254 del 2012; n. 17447 del 2012; n. 19474 del 2012; n. 22039 del 2012; n. 593 del 2013; n. 10244 del 2013; n. 17002 del 2013; n. 18020 del 2013; n. 594 del 2013; n. 595 del 2013; n. 2527 del 2015; n. 21750 del 2016; n. 16059 del 2017), il ricorso appare inammissibile per palese inosservanza della detta norma processuale, dato che la sua struttura nella parte preposta all’assolvimento del requisito ivi previsto impedisce qualsivoglia sommaria percezione del fatto sostanziale e processuale, ma pretende che la Corte debba leggere la congerie di atti riprodotti per ricostruirla, sicché il tenore del ricorso non risulta diverso da come sarebbe stato se per tutti gli atti
riprodotti il ricorrente si fosse limitato, anziché a riprodurli, a fare un rinvio alla loro lettura;
la prescrizione normativa risponde non ad un’esigenza di mero formalismo, ma a quella di consentire una conoscenza chiara e completa dei fatti di causa, sostanziali e/o processuali, che permetta di bene intendere il significato e la portata delle censure rivolte al provvedimento impugnato (Cass. Sez. U 20/02/2003, n. 2602);
la legittimità di tale requisito di accesso al giudizio di legittimità non può essere messa in dubbio in relazione al diritto di difesa delle parti, o a quello al giusto processo, tutelati dagli artt. 24 e 111 Cost., ovvero dall’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali (firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata -in uno al protocollo aggiuntivo firmato a Parigi il 20 marzo 1952 -con legge 4 agosto 1955, n. 848, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 221 del 24 settembre 1955 ed entrata in vigore il 10 ottobre 1955);
sotto questo profilo, in particolare, giova ribadire che il requisito di contenuto-forma in questione è imposto in modo chiaro e prevedibile, non è eccessivo per il ricorrente e risulta funzionale al ruolo nomofilattico della Suprema Corte e segnatamente all’esigenza di «consentire alla Corte di cassazione di conoscere dall’atto, senza attingerli aliunde, gli elementi indispensabili per una precisa cognizione dell’origine e dell’oggetto della controversia, dello svolgimento del processo e delle posizioni in esso assunte dalle parti» (Cass. Sez. U. 10/09/2019, n. 22575; Id. 16/05/2013, n. 11826);
mette conto, altresì, ancora una volta rammentare che la Corte europea, con la sua sentenza 15 settembre 2016, in causa Trevisanato c/ RAGIONE_SOCIALE (i cui principi sono stati ribaditi nella recente sentenza, depositata il 31 marzo 2021, nel caso COGNOME c. Russia), ha riaffermato -perfino riconoscendo l’astratta ammissibilità del pure abrogato sistema del c.d. «filtro a quesiti» per l’accesso in
cassazione -il basilare principio della piena legittimità di un sistema anche rigoroso di requisiti formali per l’accesso al giudizio di legittimità e per la redazione dei ricorsi introduttivi, il quale non solo non viola l’art. 6 CEDU, ma anzi è funzionale alla tutela del ruolo nomofilattico della Corte di legittimità e quindi al conseguimento dei valori fondamentali, benché non espressamente codificati nella Convenzione, della certezza del diritto e della buona amministrazione della giustizia; solo dovendo la compresente esigenza di tutela del diritto del singolo trovare un contemperamento, così che ogni soluzione possa superare il consueto vaglio di proporzionalità tra fine perseguito e mezzi impiegati (così, in motivazione, Cass. n. 26936 del 2016);
a tale contesto ermeneutico di riferimento non apporta significative novità la pronuncia della Corte Edu 28/10/2021, RAGIONE_SOCIALE c. RAGIONE_SOCIALE, questa richiama anzi espressamente, confermandone i principi, tra le altre, la propria sentenza 15/09/2016, Trevisanato c. RAGIONE_SOCIALE;
essa ha bensì riscontrato la violazione dell’art. 6 § 1 della Convenzione con riferimento ad uno dei tre casi al suo esame (nel quale venivano in rilievo i diversi requisiti di ammissibilità di cui ai nn. 4 e 6 dell’art. 366 cod. proc. civ.), ma ciò ha fatto considerando, all’esito di un esame in punto di fatto degli atti ivi considerati, non certo che quei requisiti rispondessero di per sé e in astratto a inammissibile formalismo fine a sé stesso ma che nel caso in esame, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte di cassazione, fossero stati in realtà rispettati (e, peraltro, lo si nota sommessamente, vi sarebbe da interrogarsi sul se la censura effettuata dalla CEDU non fosse in realtà prospettabile con il rimedio interno dell’art. 391 -bis cod. proc. civ.);
quel che dunque è stata in quella sede censurata è la concreta applicazione delle formalità previste dall’ordinamento nazionale, che occorre osservare all’atto della proposizione del ricorso, in quanto nel
caso esaminato ritenuta (l’applicazione, non le formalità) in contrasto con il diritto di accesso ad un tribunale perché di fatto ispirata ad eccessivo formalismo e tale dunque da impedire il pur possibile esame nel merito del ricorso proposto dall’interessato;
in tale prospettiva, la Corte EDU con la medesima pronuncia ha invece escluso la violazione della detta norma convenzionale in un altro caso contestualmente esaminato in cui veniva in considerazione proprio il requisito dell’art. 366 n. 3 cod. proc. civ. (ritenuto in quel caso non rispettato dalla RAGIONE_SOCIALE. per l’utilizzo della tecnica redazionale del c.d. assemblaggio), osservando in particolare che:
-l’interpretazione data all’esposizione sommaria dei fatti è compatibile con l’applicazione del principio dell’autosufficienza del ricorso che esige che la Corte di cassazione, ad una lettura globale del ricorso, sia in grado di comprendere l’oggetto della controversia nonché il contenuto delle censure che dovrebbero giustificare l’annullamento della decisione impugnata e sia in grado di pronunciarsi;
-la giurisprudenza della Corte di cassazione prevede procedure chiare e definite (si vedano i paragrafi 17 e 30) per la redazione dell’esposizione dei fatti rilevanti;
-la procedura davanti alla Corte di cassazione prevede l’assistenza obbligatoria di un avvocato che deve essere iscritto in un albo speciale, sulla base di determinate qualifiche, per garantire la qualità del ricorso e il rispetto di tutte le condizioni formali e sostanziali richieste; l’avvocato dei ricorrenti era quindi in grado di sapere quali fossero i suoi obblighi al riguardo, sulla base del testo dell’art. 366 e con l’aiuto dell’interpretazione della Corte di cassazione, definita «sufficientemente chiara e coerente»;
ciò premesso, occorre quindi ribadire la piena legittimità del requisito in parola e che per soddisfarlo è necessario che il ricorso per cassazione contenga, sia pure in modo non analitico o
particolareggiato, ma anzi chiaro e sintetico, l’indicazione sommaria delle reciproche pretese delle parti, con i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che le hanno giustificate, delle eccezioni, delle difese e delle deduzioni di ciascuna parte in relazione alla posizione avversaria, dello svolgersi della vicenda processuale nelle sue articolazioni e, dunque, delle argomentazioni essenziali, in fatto e in diritto, su cui si è fondata la sentenza di primo grado, delle difese svolte dalle parti in appello, ed infine del tenore della sentenza impugnata (v. Cass. Sez. U. n. 2602 del 2003; ed ancora da ultimo, ex multis , Cass. 08/08/2023, n. 24149; 03/11/2021, n. 31318; 19/10/2021, n. 28929);
se fosse possibile -ma non lo è -prescindere da tale preliminare e assorbente rilievo, il ricorso andrebbe incontro comunque ad analogo esito per altre ragioni intrinseche al contenuto dei motivi;
il primo denuncia « violazione di legge; omessa e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia; violazione art. 360 n. 5 c.p.c. »;
si deduce che « la decisione della Corte di Appello ‘ricalca’ quasi pedissequamente le statuizioni del Tribunale: già tale circostanza è motivo di nullità/illegittimità della sentenza impugnata »;
si lamenta inoltre che non sia stato « esaminato … nella dovuta considerazione, quanto esposto … in sede di gravame »;
il secondo denuncia « nullità della sentenza impugnata; violazione di legge »;
si premette che il Tribunale e la Corte di Appello hanno « sostenuto con motivazione speculare che non sarebbe ‘sufficiente argomentare che il debito contratto era per acquisto quote societarie da congiunto -come emerge dalla sentenza 18041/15 -per dimostrare la estraneità ai bisogni familiari, giacché tale circostanza dipende non dalla natura della obbligazione assunta ma dalle finalità della medesima ben potendo l’acquisizione societaria rispondere ad
esigenze di produttività finalizzate al sostentamento o accrescimento delle risorse necessarie per bisogni del nucleo familiare ‘ »;
si deduce che la sentenza è, sotto questo profilo, illegittima per due motivi: a) per violazione di legge; b) per nullità della sentenza;
─ la violazione riguarderebbe l’art. 170 cod. civ. : si sostiene, sulla scorta di alcuni richiami giurisprudenziali (tra cui Cass. n. 2904 dell’8 febbraio 2021), che, di regola, secondo nozioni di comune esperienza, le obbligazioni assunte nell’esercizio dell’attività d’impresa o professionale hanno uno scopo estraneo ai bisogni della famiglia, salvo prova contraria che deve però essere data dal creditore opposto, prova nella specie non offerta, con la conseguenza che la Corte d’appello avrebbe dovuto accogliere l’opposizione ;
─ la nullità della sentenza viene poi dedotta per avere la Corte d’appello esposto sul punto una motivazione apparente, avendo rilevato che dagli atti di causa risulterebbe la destinazione dell’acquisto di quote societarie a soddisfare i bisogni della famiglia «ben potendo l’acquisizione societaria rispondere ad esigenze di produttività finalizzate al sostentamento o accrescimento delle risorse necessarie per bisogni del nucleo familiare», senza però fornire alcuna indicazione circa gli elementi o indizi (‘il fatto noto’) deponenti nel senso dell’essere stato l’acquisto delle quote direttamente ed automaticamente volto anziché a favorire lo svolgimento dell’attività societaria al soddisfacimento viceversa dei bisogni della propria famiglia;
il primo motivo è inammissibile;
lo è anzitutto perché evoca un paradigma censorio (omessa e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia) non più previsto tra i vizi cassatori tipizzati nell’art. 360 cod. proc. civ., senza dire della contraddittorietà di una tale doglianza con quella pure dedotta in rubrica di violazione di legge (che presupporrebbe la chiara individuazione della ratio decidendi tacciata di contrarietà a
diritto) e senza dire pure della mancanza assoluta di alcuna successiva indicazione di quale sia l’ error iuris denunciato;
come si è detto, peraltro, né prima (nella parte del ricorso dedicata alla esposizione sommaria dei fatti), né in seno alla stessa illustrazione del motivo si fa alcun cenno a quali siano state le motivazioni della sentenza di primo grado e di quella d’appello, sicché non è dato compiere alcun vaglio in ordine alla affermata pedissequa coincidenza delle due motivazioni;
analogamente deve dirsi quanto all’altra doglianza di mancato esame di « quanto esposto in sede di gravame », sul punto (ossia, su quanto era stato «esposto in sede di gravame») il ricorso serbando il più assoluto silenzio, non essendo nemmeno dato comprendere se con quella affermazione si intenda svolgere una denuncia di omessa pronuncia o di omessa motivazione;
il secondo motivo è parimenti inammissibile, con riferimento ad entrambe le sub-censure in esso esposte;
le stesse sono riferite ad una affermazione che si dice contenuta nella sentenza appellata (quella secondo cui, per dimostrare la estraneità ai bisogni familiari , non sarebbe ‘sufficiente argomentare che il debito contratto era per acquisto quote societarie da congiunto ‘ ) e che però, in realtà, in essa non è dato riscontrare;
la ratio decidendi posta a base della sentenza d’appello (individuata dalla Corte di merito come « ragione più liquida ») è molto più semplice e stringata: « l’attore/appellante non ha allegato, né provato, che, ove il fondo patrimoniale fosse stato opponibile al creditore pignorante, l’esecuzione avrebbe potuto essere impedita per essere il medesimo creditore a conoscenza dell’estraneità del debito ai bisogni della famiglia. Pertanto, dovendo condividersi la valutazione negativa del primo giudice sulla prova del danno, l’appello va rigettato »;
tale ratio non può ritenersi pertinentemente aggredita né con la
prima, né con la seconda sub-censura;
entrambe, infatti, suppongono che la Corte d’appello abbia riferito la propria valutazione ad una fattispecie nella quale fosse stata data la prova che il credito azionato in executivis nascesse dalla cessione di quote societarie;
così però non è: come detto, la Corte romana ferma la propria valutazione un passo prima; la riferisce ad una fattispecie concreta ricostruita senza considerare tale elemento (la genesi del credito azionato dal terzo in executivis ) e, coerentemente a tale implicita premessa fattuale, rileva che l’appellante, per dar prova del nesso eziologico tra inadempimento del notaio e danno dedotto, avrebbe dovuto dimostrare che, ove la prestazione professionale fosse stata esattamente adempiuta, il vincolo di destinazione avrebbe potuto utilmente opporsi al creditore esecutante e, per far ciò, avrebbe dovuto dimostrare che quest’ultimo era a conoscenza dell’estraneità del debito ai bisogni della famiglia;
né la diversa ricostruzione della fattispecie esaminata dalla Corte, quale postulata in ricorso, può ritenersi per implicito acquisita dal giudice d’appello per via della espressa « condivisione » della « valutazione negativa del primo giudice sulla prova del danno », dal momento che la valutazione del primo giudice, riportata nella sentenza per esteso in ben due pagine intere (da fine di pag. 2 all’inizio di pag. 4) pone a fondamento di quella valutazione (che la Corte d’appello dice di condividere) anche altre alternative considerazioni (la cessazione del Fondo, in data anteriore al pignoramento, per effetto della separazione dei coniugi e della acquisita maggiore età dell’unica figlia ; la preesistenza di precedente pignoramento da parte di altro creditore; l’impossibilità di stabilire se il bene sia andato all’asta per ulteriori pretese creditorie ; la mancanza di prova in ordine al quantum );
il motivo, dunque, avrebbe semmai dovuto investire la
ricostruzione della fattispecie concreta, nei limiti in cui ciò fosse consentito ai sensi dell’art. 360, primo comma, num. 5, cod. proc. civ. (che richiede anche la decisività del fatto non esaminato), evidenziandosi, peraltro, che nell’ipotesi di “doppia conforme”, prevista dall’art. 348ter , quinto comma, cod. proc. civ., come quella all’esame, il ricorso per cassazione proposto per il motivo di cui al n. 5) dell’art. 360 cod. proc. civ. è inammissibile se non indica le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass., ord., n. 5947 del 28/02/2023 e Cass. n. 5528 del 10/03/2014), onere nella specie non assolto ed anzi, espressamente, il ricorrente rappresenta che «la decisione della Corte di Appello ‘ricalca’ quasi pedissequamente le statuizioni del Tribunale» (v. ricorso p. 3);
una volta invece che la diversa ricostruzione della fattispecie concreta presupposta dalla sentenza non sia stata in detti termini validamente impugnata, sono certamente inammissibili le censure in iure che ne presuppongono una diversa;
per tutte le considerazioni che precedono il ricorso deve essere in definitiva dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del presente giudizio, liquidate come da dispositivo;
va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1 -bis dello stesso art. 13;
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso.
Condanna il ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 3.000 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 -quater del d.P .R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente , dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1 -bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza