Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 3870 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 3870 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 15/02/2025
ORDINANZA
sul ricorso 21955-2019 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, INDIRIZZO presso l’Avvocatura Centrale dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
COGNOME, domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato COGNOME
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 98/2019 della CORTE D’APPELLO di SALERNO, depositata il 15/02/2019 R.G.N. 483/2017;
Oggetto
R.G.N. 21955/2019
COGNOME
Rep.
Ud. 13/11/2024
CC
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 13/11/2024 dal Consigliere Dott. COGNOME
RITENUTO CHE
In parziale riforma della pronuncia di primo grado, la Corte d’appello di Salerno accoglieva la domanda dell’attuale intimata volta a far accertare il rapporto di lavoro agricolo per 54 giornate nell’anno 2012 alle dipendenze dell’azienda RAGIONE_SOCIALE con condanna dell’INPS al pagamento dell’indennità di disoccupazione.
Riteneva la Corte che la riclassificazione operata dall’Inps con verbale di accertamento con cui si ascriveva la predetta società al settore industriale e non più a quello agricolo e la sentenza intervenuta tra datore di lavoro e INPS che aveva annullato la pretesa contributiva avanzata dall’Inps nei confronti del datore, non pregiudicassero la posizione previdenziale della lavoratrice per le prestazioni effettuate prima della riclassificazione.
Avverso la sentenza, l’Inps ricorre per due motivi.
NOME ha resistito con controricorso.
CONSIDERATO CHE
Il primo motivo, con il quale l’INPS deduce nullità della sentenza per motivazione apparente, dev’essere disatteso.
Possono essere sindacate in sede di legittimità quelle anomalie della motivazione che si tramutino in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinenti all’esistenza della motivazione in sé, sempre che il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali.
Vengono in rilievo, a tale riguardo, la mancanza assoluta di motivazione sotto l’aspetto materiale e grafico, la motivazione apparente, il contrasto irriducibile tra
affermazioni inconciliabili, la motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile ed è irrilevante, per contro, il semplice difetto di sufficienza della motivazione (Cass., Sez. Un., 7 aprile 2014, n. 8053).
L’apparenza della motivazione presuppone che non sia percepibile il fondamento della decisione.
Tale evenienza si verifica quando la pronuncia racchiuda argomentazioni obiettivamente inidonee a illustrare il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento posto che non si può demandare all’interprete il compito d’integrare la motivazione con le più varie, ipotetiche congetture e solo in tale ipotesi, la sentenza è nulla, in quanto inficiata da error in procedendo (Cass., Sez. Un., 3 novembre 2016, n. 22232).
Nessuna delle ipotesi enucleate dalla giurisprudenza di questa Corte si ravvisa nel caso di specie e i giudici d’appello hanno esposto in modo perspicuo le ragioni che sorreggono la pretesa azionata: diritto all’iscrizione negli elenchi agricoli per le prestazioni rese alle dipendenze della summenzionata società e alla corresponsione dell’indennità di disoccupazione.
Con il secondo motivo di ricorso, l’Inps deduce violazione e/o falsa applicazione dell’art.3, co. 8 L. n.335/95, degli artt. 1, 2, 3, 4 L. n. 352/78 e 44-bis d.l. n. 269/03, conv. con mod. dalla L. n. 326/03, per avere la Corte d’appello negato effetto retroattivo all’inquadramento nel settore industriale, a fronte dell’accertamento ispettivo relativo all’omessa comunicazione di circostanze attinenti alla prevalenza dell’attività aziendale, non agricola, ma industriale. Sostiene l’Inps che anche tale ipotesi andava ricondotta alla retroattività voluta dall’art. 3, co. 8 L. n. 335/95.
Il motivo è infondato.
L’orientamento ormai costante di questa Corte (Cass. 568/22, Cass. 5541/21, Cass. 14257/19, Cass. 3460/18, Cass. 4521/06), cui va data continuità, e che ha superato il precedente di Cass. 8558/14, afferma che la regola generale posta dall’art. 3, co. 8 L. n. 335/95 è quella per cui i provvedimenti dell’Inps di variazione della classificazione ai sensi dell’art. 49 L. n. 88/89 non hanno efficacia retroattiva e producono i loro effetti dal periodo di paga in corso alla data di notifica del provvedimento di variazione.
Tale regola vale quand’anche la riclassificazione sia svolta d’ufficio dall’Inps in caso di omessa comunicazione dei mutamenti intervenuti nell’attività; la retroattività è limitata, secondo la lettera della norma, alla sola ipotesi di un inquadramento iniziale errato poiché determinato da inesatte dichiarazioni del datore di lavoro.
L’orientamento appena citato resiste alle critiche avanzate col motivo di ricorso, poiché, come già rilevato da Cass. 568/22, la predetta lettura dell’art. 3, co. 8 L. n. 335/95 meglio si giustifica alla luce della ratio della norma, tesa a favorire la certezza nel rapporto contributivo, che ha ripercussioni sul bilancio dell’istituto e sulle posizioni previdenziali dei singoli lavoratori.
La retrodatazione degli effetti del nuovo inquadramento, inoltre, deve essere controbilanciata dall’esigenza dell’impresa a non essere soggetta a obbligazioni per periodi ormai passati.
La Corte d’appello, con accertamento di fatto non sindacabile in questa sede se non nei limiti dell’art. 360, co. 1, n. 5 c.p.c., ha affermato che nessuna inveritiera dichiarazione fu
comunicata all’Inps dall’azienda, sia in ordine all’attività industriale sia in ordine a quella agricola.
Se così è, in base alla richiamata giurisprudenza di legittimità, alla quale va aggiunta, da ultimo, Cass. n.13086/2024, riferita alla medesima società, la variazione operata dall’Inps ha effetto ex nunc, secondo corretta statuizione della Corte d’appello.
Conclusivamente il ricorso va rigettato, con condanna alle spese secondo soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna l’Inps al pagamento delle spese, liquidate in Euro 2000,00 per compensi, Euro 200,00 per esborsi, oltre 15% per spese generali e accessori di legge; si dà atto che, atteso il rigetto del ricorso, sussiste il presupposto processuale di applicabilità dell’art.13, co. 1-quater, D.P.R. n.115/02, con conseguente obbligo in capo a parte ricorrente di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, previsto per il ricorso.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 13 novembre