Sentenza di Cassazione Civile Sez. L Num. 16922 Anno 2025
Civile Sent. Sez. L Num. 16922 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 24/06/2025
SENTENZA
sul ricorso 22094-2021 proposto da:
COGNOME rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE – AZIENDA TERRITORIALE PER L’EDILIZIA RESIDENZIALE PUBBLICA DELLA PROVINCIA DI FROSINONE, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 431/2021 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 01/03/2021 R.G.N. 1711/2018;
Oggetto
Dirigente pubblico impiego
R.G.N. 22094/2021
COGNOME
Rep.
Ud. 06/05/2025
PU
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 06/05/2025 dal Consigliere Dott. COGNOME udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. NOME COGNOME che ha concluso per l’accoglimento del secondo motivo del ricorso, assorbiti gli altri; udito l’avvocato NOME COGNOME udito l’avvocato NOME COGNOME per delega avvocato NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
La Corte d’appello di Roma, con la sentenza oggetto di impugnazione, ha confermato la legittimità della revoca dell’incarico di NOME COGNOME a direttore generale dell’Azienda Territoriale per l’Edilizia Residenziale Pubblica (in seguito , in breve, ATER) e dell’atto di recesso ante tempus dal contratto di lavoro a tempo determinato recante scadenza naturale al 5.12.2016.
La Corte d’appello, come già il Tribunale, ha ritenuto legittimi i detti provvedimenti, adottati in data 10.2.2015 dal Commissario Straordinario dell’ATER in applicazione dell’art. 11 co. 2 della legge reg. Lazio n. 30/2022, il quale prevede che l’incar ico di direttore generale è conferito a tempo determinato per un periodo non superiore a cinque anni, rinnovabile, ed ha comunque termine con la costituzione del nuovo consiglio di amministrazione dell’Azienda.
La Corte territoriale ha escluso ogni dubbio di costituzionalità della norma in questione, in particolare per violazione dell’art. 97 Cost., dal momento che la figura del direttore generale costituisce il raccordo tra il consiglio di amministrazione, di nomina politica, e la struttura amministrativa dell’ente; ha poi affermato che il commissario straordinario, che nei fatti aveva provveduto a disporre la revoca dell’incarico e la cessazione del rapporto, era
legittimato al compimento di tali atti dal momento che gli erano attribuiti, fino alla nomina dei nuovi organi di amministrazione, gli stessi poteri del presidente e del consiglio di amministrazione; sicché la nomina del commissario straordinario, in quanto disposta in sostituzione degli ordinari organi istituzionali e con attribuzione di tutti i corrispondenti poteri, era da intendersi del tutto equiparata alla costituzione di un nuovo consiglio di amministrazione.
Riteneva ininfluente la circostanza per cui il commissario straordinario, poco dopo la sua nomina avvenuta il 31 luglio 2013, avesse confermato il Tedesco nell’incarico ‘almeno’ sino alla scadenza del suo (iniziale) mandato fissata al 30 settembre 2014: il commissario straordinario era stato, infatti, riconfermato nella carica il 1° ottobre 2014 dal presidente della Regione Lazio e dunque, per effetto della nuova nomina, aveva ritualmente proceduto, nel febbraio 2015, alla revoca dell’incarico del direttore generale. La cessazione dell’incarico, peraltro, si rivelava legittima anche perché ispirata ad esigenze di risparmio di spesa, mostrandosi funzionale ad assicurare una diversa organizzazione rispondente al principio costituzionale di tutela della finanza pubblica.
Quanto alla pretesa di pagamento della c.d. retribuzione variabile incentivante per gli anni 2013 e 2014, la Corte distrettuale evidenziava che non v’era possibilità di ipotizzare un inadempimento datoriale per mancata indicazione di ‘ obiettivi ‘ , e ciò perché durante la fase del commissariamento non si poteva che ‘gestire l’esistente’ , essendo inibite scelte programmatiche rimesse alle esclusive determinazioni politiche della Regione.
Infondate erano, parimenti, le ulteriori domande di pagamento dei compensi per «incarichi aggiuntivi», atteso che il trattamento economico dei dirigenti remunerava tutti i compiti attribuiti secondo il contratto individuale e collettivo nonché qualsiasi altro incarico
assegnato dall’Azienda; nel caso di specie, la retribuzione fissa del Tedesco, oltre che determinata dal contratto collettivo, era integrata da uno speciale assegno mensile ad personam di €. 6.500,00 correlato «alla posizione occupata, alla professionalità e al merito individuale», il quale valeva come ‘retribuzione di posizione’ ed era esaustivo di ogni ulteriore attribuzione di incarico affidata.
Ricorre in cassazione contro tale sentenza NOME COGNOME sulla base di cinque motivi, cui ATER si oppone con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memorie.
La Procura Generale ha rassegnato conclusioni scritte chiedendo accogliersi il secondo motivo di ricorso con assorbimento dei restanti.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con i motivi primo, secondo e terzo viene impugnato il capo di sentenza che ha ritenuto legittimo il recesso ante tempus dell’ATER della Provincia di Frosinone dal rapporto di lavoro dirigenziale a termine o comunque la cessazione ante tempus del rapporto stesso, contestando le plurime rationes decidendi enunciate dalla Corte territoriale.
In particolare, il primo motivo è rubricato violazione dell’art. 97 Cost. e degli artt. artt. 4, 11, 12 e 16 della legge reg. Lazio 3/9/2002 n. 30 in sé e in combinato disposto con l’art. 55, comma 5, della legge reg. Lazio 11/11/2004, n. 1, nonché violazione o falsa applicazione dell’art. 2119 c.c. e, quanto allo statuto dell’ATER della Provincia di Frosinone (artt. 6 e 12), dei criteri di ermeneutica negoziale di cui agli artt. 1362 ss. c.c.
Si censura la sentenza impugnata per avere statuito che i direttori generali delle Aziende Territoriali per l’Edilizia Residenziale pubblica della Regione Lazio – figure tecnico professionali cui sono demandati compiti gestionali non riconducibili a quelli di diretta
collaborazione con organi politici o all’elaborazione di indirizzi politici decadono dall’incarico in conseguenza della costituzione di nuovo organo di amministrazione dell’ATER, facendo automatica applicazione della normativa regionale in materia spoils system ritenuta non contrastante con l’art. 97 Cost.
Il secondo motivo, la cui rubrica reca «violazione o falsa applicazione dell’art. 11, comma 2, L.R. 3/9/2002 n. 30, in sé ed in combinato disposto con l’art. 55, comma 5, L.R. Lazio 11/11/2004, n. 1, anche tenuto conto del divieto di applicazione analogica ex art. 14 Preleggi c.c. e dei principi in tema di interpretazione costituzionalmente orientata delle norme sullo spoils system» , critica la sentenza della Corte territoriale per avere ritenuto che il commissariamento dell’ATER di Frosinone – durante il quale il commissario straordinario comunicava al ricorrente, con missiva del 10/2/2015, la decadenza ex lege -equivarrebbe a nomina di nuovo consiglio di amministrazione, in tal modo falsamente applicando l’art. 11, comma 2, legge reg. 30/2002 e violando il divieto di applicazione analogica ex art. 14 Preleggi c.c. e le norme in materia di decadenza nonché i principi in tema di interpretazione costituzionalmente orientata delle norme sullo spoils system .
4. Il terzo mezzo, titolato «violazione o falsa applicazione delle leggi della Regione Lazio n. 7/2014 e n. 4/2013, del D.L. n. 78/2010 e del D.L. n. 95/2012, anche in riferimento all’art. 2119 c.c. ed all’art. 97 Cost.», censura la sentenza impugnata nella parte in cui dichiara legittima la disposta cessazione del ricorrente dall’incarico di direttore generale, ritenendola giustificata «nell’ambito di una complessiva manovra che trae origine da disposizioni statali di contenimento della spesa pubblica ed è volta alla razionalizzazione di tutti gli enti dipendenti dalla Regione mediante la riforma dell’organizzazione aziendale in funzione della necessaria riduzione dei costi».
Gli ulteriori motivi concernono invece questioni non dipendenti né connesse a quella della cessazione ante tempus del rapporto di lavoro.
Il quarto, rubricato «violazione e falsa applicazione degli artt. 1218 e 1223 c.c., anche in relazione agli artt. 1175 e 1375 c.c., nonché dell’art. 1359 c.c. e dell’art. 132 co. 2 n. 4 c.p.c. per motivazione meramente apparente o manifestamente contraddittoria (in relazione all’art. 360 comma 1 n. 4 c.p.c.)», si censura il capo della sentenza impugnata che ha rigettato la domanda di pagamento del saldo delle ‘retribuzioni variabili incentivanti’ per gli anni 2013 e 2014, se del caso dovute a titolo risarcitorio (‘…occorrendo a titolo risarcitorio’), stante l’omessa fissazione da parte dell’ATER di Frosinone degli obiettivi per gli anni de quibus .
Infine, il quinto motivo, la cui rubrica reca «violazione o falsa applicazione degli artt. 1 e 24 D. Lgs. 30/3/2001 n. 165, dell’art. 409 n. 4 c.p.c. nonché degli artt. 1 comma 2 e 16 L.R. 30/2002 e dell’art. 2099 c.c., nonché violazione dell’art. 112 c.p.c. per omesso esame di motivo di appello o per vizio di motivazione meramente apparente (in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.)», ha ad oggetto il capo della sentenza che ha rigettato la domanda di pagamento dei compensi per incarichi aggiuntivi, erroneamente richiamando il principio di onnicomprensività della retribuzione tipico del pubblico impiego privatizzato, mentre il rapporto di lavoro de quo ha natura privatistica.
I primi tre motivi sono da disattendere alla luce dei precedenti di questa Corte (Cass. Sez. L, 03/02/2021, n. 2485 e da ultimo Cass., Sez. L, n. 18248 del 3/7/2024) secondo cui la nomina e la revoca degli organi di un ente pubblico economico (qual è l’ATER di Frosinone, che è definita dall’art. 2 comma 3 della legge
reg. Lazio n. 30/2002, come «ente pubblico di natura economica, strumentale della Regione, dotata di personalità giuridica, di autonomia imprenditoriale, patrimoniale, finanziaria e contabile») costituisce espressione di un potere pubblicistico.
Secondo una consolidata giurisprudenza di legittimità (Cass. SU. 6 marzo 2018 nr. 5304; Cass. SU 10 ottobre 2002, nr. 14475; Cass. SU 01 dicembre 2000, n. 1243; Cass. SU 22 dicembre 1999 nr. 929; Cass. SU 01 dicembre 1994 nr. 10239) gli enti pubblici economici, pur operando in aree prevalentemente sottoposte al regime privatistico, sfuggono a detto regime, per rientrare in quello di diritto pubblico, con riguardo alle attività che discendono dalla potestà autoritativa dell’ente di disporre la propria organizzazione, quale espressione di un potere di supremazia inerente alla organizzazione e, cioè, allo svolgimento di una funzione pubblica. Non sussiste, dunque, la possibilità di applicare la disciplina di cui all’articolo 2377 c.c. mediante l’articolo 2093 c.c., limitandosi quest’ultima norma ad estendere le disposizioni del libro quinto del codice civile all’espletamento delle attività imprenditoriali dell’ente pubblico economico di produzione di beni o servizi e di intermediazione negli scambi.
In applicazione di tale principio si è ritenuto essere espressione di un potere pubblicistico la nomina e la revoca degli organi di un ente pubblico economico (Cass. SU n. 5304/2018; n. 14475/2002; n. 929/199; n. 10239/1994), così come la nomina da parte del Consiglio di Amministrazione di un ente pubblico economico dei membri del Consiglio di Amministrazione e del Collegio sindacale di una società controllata (Cass. SU n.10239/1994).
Nella fattispecie di causa si controverte in particolare della nomina del direttore generale di RAGIONE_SOCIALE di Frosinone e della successiva revoca ante tempus della nomina stessa.
Sebbene il direttore generale non sia a rigore un organo delle ATER (tali essendo, ai sensi dell’articolo 4 L.R. 30/2002 il presidente, il consiglio di amministrazione, il collegio dei revisori) la sua nomina, disciplinata dall’articolo 11 della medesima legge regionale, appare esercizio della potestà di auto-organizzazione attribuita agli organi dell’ente.
Cass. Sez. L, 03/02/2021, n. 2485 ha affermato, infatti, che la nomina del direttore generale di un’Azienda Territoriale di edilizia residenziale (in quel caso ATER di Roma la cui disciplina si rinviene sempre nella legge Regione Lazio n. 30 del 2002) ha natura di provvedimento amministrativo, in quanto costituisce espressione della potestà autoritativa di autorganizzazione dell’ente, sicché è suscettibile di annullamento d’ufficio ai sensi dell’art. 21-novies della legge n. 241 del 1990, annullamento che l’interessato ha l’onere di impugnare dinanzi al giudice amministrativo, dovendosene escludere la configurabilità alla stregua di un recesso ante tempus dal contratto di lavoro.
Nel caso esaminato nel precedente citato, la legge regionale del Lazio n. 30/2002 aveva (come detto) definito le ATER come enti pubblici di natura economica strumentali della Regione; nondimeno, si è ritenuto in quel caso che la riconosciuta natura di ente pubblico economico non implicasse di per sé la sua totale soggezione alla disciplina privatistica, come già affermato dal consolidato indirizzo sopra richiamato, secondo cui gli enti pubblici economici, pur operando in aree prevalentemente sottoposte al regime privatistico, sfuggono a detto regime, per rientrare in quello di diritto pubblico, con riguardo alle attività che discendono dalla potestà autoritativa dell’ente di disporre la propria organizzazione, quale espressione di un potere di supremazia inerente allo svolgimento di una funzione pubblica.
Alla stregua di tali considerazioni, è stato dunque concluso, nella richiamata pronuncia, che la nomina e la revoca degli organi di un ente pubblico economico costituisce anch’essa espressione di un potere pubblicistico.
Sulla stessa lunghezza d’onda si colloca Cass., Sez. L, n. 18248 del 3/7/2024, la quale ha osservato, in fattispecie di risoluzione anticipata del contratto di lavoro come direttore dell’ATER di Chieti e di impugnativa dei provvedimenti di annullamento in autotutela di atti attributivi di emolumenti ritenuti non dovuti, eppure corrisposti nel corso del rapporto, che, sebbene il direttore generale non fosse a rigore un organo delle ATER, la sua nomina, disciplinata dalla legge regionale, era esercizio della potestà di auto-organizzazione attribuita agli organi dell’ente, quale nomina che è (invero) riservata al consiglio di amministrazione con scelta prettamente discrezionale, al di fuori di ogni procedura comparativa.
La conseguente riconosciuta natura di provvedimento amministrativo della nomina del direttore generale comportava, per l’interessato, l’onere di impugnare davanti al giudice amministrativo il provvedimento di annullamento, facendone valere eventuali vizi di legittimità, laddove è pacifico che l’atto di annullamento, se non impugnato, diviene definitivo.
Viene anche evidenziato in tale pronuncia, che all’esito dell’annullamento dell’atto di nomina, l’interessato non poteva quindi vantare alcuna posizione di diritto soggettivo allo svolgimento dell’incarico di direttore generale, non potendo tale diritto derivargli dalla stipula del contratto individuale di lavoro; infatti, tale contratto ha la sola funzione di disciplinare l’incarico conferito con l’atto di nomina e, dunque, i suoi effetti cessano automaticamente con il venir meno della nomina stessa.
La cessazione degli effetti del contratto dirigenziale dipende, or dunque, dal venir meno del provvedimento che costituisce il presupposto del contratto stesso, secondo il principio per cui gli effetti di un contratto cessano quando ne venga meno la causa.
Pertanto, anche nel caso in esame, si ritiene di dover dare continuità ai citati precedenti, condivisi dal Collegio, sicché può affermarsi che la nomina, come la revoca, degli organi dell’ente costituisce espressione di un potere pubblicistico, con valenza provvedimentale, da impugnare innanzi al giudice amministrativo.
Segue pertanto la reiezione dei primi tre motivi di ricorso, seppure con un percorso motivazionale che, in parte qua , integra ex art. 384 c.p.c. quello adottato dalla Corte distrettuale nella pronuncia gravata.
9. Il quarto motivo è inammissibile per carenza di specificità; l’onere di specificità dei motivi, sancito dall’art. 366, comma 1, n. 4, cod. proc. civ., impone al ricorrente che denunci il vizio di cui all’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., a pena d’inammissibilità della censura”, non solo “di indicare le norme di legge di cui intende lamentare la violazione”, ma anche “di esaminarne il contenuto precettivo e di raffrontarlo con le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata, che è tenuto espressamente a richiamare, al fine di dimostrare che queste ultime contrastano col precetto normativo” (cfr. Cass. Sez. Un., sent. 28 ottobre 2020, n. 23745, Rv. 659448-01).
Ebbene, si legge testualmente nella sentenza impugnata (cfr. a p. 10) che «nel ricorso introduttivo di primo grado non era stato definito il tipo di danno richiesto ma il ricorrente si era limitato alla generica asserzione che il risarcimento poteva essere liquidato in misura pari alle retribuzioni variabili non percepite; solo nell’odierno grado d’appello il Tedesco ha precisato che il danno
dedotto si configurerebbe come perdita di chance »; a tale passaggio argomentativo la sentenza impugnata aggiunge, poi, che sarebbe comunque da escludere l’esistenza «dell’inadempimento datoriale, perché il commissario straordinario si è trovato a gestire una fase meramente transitoria, di passaggio verso i nuovi assetti», sicché «la sua attività … non poteva che consistere nella gestione dell’esistente né (era) ipotizzabile che potesse individuare specifici programmi ed obiettivi – in relazione ai quali parametrare gli obiettivi di rendimento del direttore generale – che avrebbero potuto compromettere le future scelte politiche effettuate dalla Regione».
Orbene, il motivo di censura, nel concentrarsi esclusivamente sulla seconda argomentazione del giudice d’appello, non censura specificamente – e adeguatamente – anche la prima in ordine alla novità della domanda di risarcimento del danno da perdita di chance in quanto formulata solo in sede di gravame .
Trattasi di passaggio del giudice d’appello che si mostra, peraltro, in sintonia con l’indirizzo di legittimità che non ha mancato di precisare come «la chance , ovvero la concreta ed effettiva possibilità di conseguire un determinato bene o risultato (che non è mera aspettativa di fatto, ma “bene” giuridicamente ed economicamente suscettibile d’autonoma valutazione, onde la sua perdita configura un danno concreto ed attuale: Cass. civ. sez. III n. 5641/2018) è oggetto di una domanda ontologicamente diversa dalla domanda di risarcimento del danno da mancato raggiungimento del risultato sperato, sostanziandosi, per converso, nella mancata possibilità di realizzarlo, caratterizzata da incertezza (non causale ma) eventistica (ancora Cass. n. 5641/2018), in guisa da ritenere «inammissibile la domanda tesa al risarcimento del danno da perdita di chance , in quanto domanda nuova, non proponibile per la prima volta in appello» (Cass. Sez. 3-, Sentenza n. 25886 del 02/09/2022).
Nel caso di specie il ricorrente – che, per come si legge in sentenza, si era limitato (invero) a richiedere nel ricorso introduttivo di primo grado, «in via principale, il saldo della retribuzione variabile per gli anni 2013-2014 e solo in via residuale, anche ‘occorrendo a titolo risarcitorio’ (così a p. 25 del ricorso di primo grado, punto richiamato a p. 10 della sentenza impugnata) – avrebbe dovuto dimostrare, in sede di legittimità, di aver tempestivamente allegato, e chiesto di provare, anche il danno da perdita di chance .
Infatti, «il danno in questione non coincide con le retribuzioni perse, ma va commisurato alla probabilità di ottenere il risultato utile sperato, con onere della prova – anche tramite presunzioni a carico dell’interessato e liquidazione da compiersi in via equitativa» (Cass. Sez. L, Sentenza n. 13483 del 29/05/2018).
E’ chiaro, infatti, che una cosa è la determinazione di un nesso causale tra un comportamento e un danno certo (nel quale caso in ambito civilistico vale appunto la c.d. regola del “più probabile che non”: Cass., S.U., 11 gennaio 2008, n. 576) ed altro è stabilire i criteri di valutazione della rilevanza di un pregiudizio che, pur essendo cagionato anch’esso dal comportamento altrui, è addirittura incerto nella sua reale verificazione in senso giuridico (ovverosia quale perdita di un’utilità che si avrebbe diritto ad avere), quale è il danno da perdita di chance (Cass. n. 11165/2018) in cui possono interferire ragionati parametri di riduzione, espressivi del grado probabilistico in modo da attestarsi su un minus rispetto all’ utilitas considerata (Cass., Sez. L, 1913/2025). In particolare, non si è mancato di precisare che, a fronte di una domanda di risarcimento del danno da perdita di chance, il giudice del merito è chiamato ad effettuare una valutazione che si svolge su due diversi piani (così Cass. Sez. L, n. 25442/2024) in quanto
occorre innanzitutto che, sulla base di elementi offerti dal lavoratore, venga ritenuta sussistente una concreta e non meramente ipotetica probabilità di raggiungimento del risultato sperato e solo qualora detto accertamento si concluda in termini positivi vi potrà essere spazio per la valutazione equitativa del danno, da effettuare in relazione al canone probabilistico riferito al risultato utile perseguito (Cass. n. 26694/2017); rispetto alla prova del nesso causale tra comportamento illegittimo e danno risarcibile per perdita di chance, la giurisprudenza di questa Corte è, d’altronde, attestata da tempo su parametri valutativi che richiedono l’apprezzamento del probabile trasformarsi della chance in reale conseguimento del beneficio in termini di «elevata probabilità, prossima alla certezza» (così, testualmente, Cass. 9 maggio 2018, n. 11165; conf. Cass. 12 maggio 2017, n. 11906; Cass. 30 settembre 2016, n. 19604; Cass. 11 maggio 2010, n. 11353; Cass. 19 febbraio 2009, n. 4052; v. altresì Cass. 1° marzo 2016, n. 4014, ove il danno è stato riconosciuto sul presupposto che fosse stimabile un novanta per cento di probabilità di promozione).
Ciò premesso, ben s’intende che la censura non prende affatto posizione – e quindi non supera il vaglio di specificità – sul profilo di novità della domanda di risarcimento del danno da perdita di chance come rilevato dal giudice d’appello con affermazione, peraltro, corroborata dalla giurisprudenza di legittimità nei termini sopra richiamati.
10. Il quinto motivo è inammissibile, avendo il giudice d’appello adoperato a pag. 11 della sentenza impugnata una doppia ratio decidendi : la prima, sull’applicabilità dell’art. 24 d.lgs. n. 165/2001 (errata, come giustamente sottolinea il ricorrente stante l’inapplicabilità del d.lgs. n. 165 del 2001 alla fattispecie), la seconda (‘nel caso di specie, poi, dal contratto individuale di lavoro emerge…’) sulla pattuizione del contratto individuale di lavoro che compensa –
accertamento di fatto del giudice del merito, qui insindacabile – con un assegno mensile ad personam di €. 6.500,00 ogni altra attribuzione d’incarico.
Trattasi di seconda ratio che fa leva, dunque, sull’art. 11 co. 2 della legge reg. Lazio n. 30/2002 cit. che, per il trattamento economico, rinvia, appunto, al contratto individuale e alla disciplina collettiva.
Nella giurisprudenza di questa Corte è invero consolidato l’orientamento secondo cui qualora la decisione impugnata si fondi su una pluralità di ragioni, ciascuna idonea a sorreggere il decisum , i motivi di ricorso devono essere specificamente riferibili, a pena di inammissibilità, a ciascuna di dette ragioni (cfr. fra le tante Cass. n. 17182/2020; Cass. n. 10815/2019) ed inoltre l’inammissibilità o l’infondatezza della censura attinente ad una di esse rende irrilevante l’esame dei motivi riferiti all’altra, i quali non risulterebbero in nessun caso idonei a determinare l’annullamento della sentenza impugnata, risultando comunque consolidata l’autonoma motivazione oggetto della censura dichiarata inammissibile o rigettata (cfr. fra le più recenti Cass. n. 15399/2018).
Ebbene, siccome su tale seconda ratio , idonea ex se a sorreggere il decisum , nulla dice il ricorrente, il motivo va dichiarato inammissibile.
In conclusione, il ricorso deve essere nel suo complesso rigettato, con addebito delle spese di legittimità – liquidate in dispositivo – alla parte soccombente.
P.Q.M.
La Corte: rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di legittimità che liquida in €. 5.000,00 per compensi
ed €. 200,00 per esborsi, oltre rimborso spese forfettario al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi del d.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto, per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Corte di