Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 20588 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 20588 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 22/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso 12770-2023 proposto da:
COGNOME rappresentato e difeso dagli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
AZIENDA RAGIONE_SOCIALE REGGIO CALABRIA, in persona del Direttore generale e legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 94/2023 della CORTE D’APPELLO di REGGIO CALABRIA, depositata il 06/03/2023 R.G.N. 267/2020; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 09/05/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME.
Fatti di causa :
Oggetto
PUBBLICO IMPIEGO
R.G.N. 12770/2023
Ud. 09/05/2025 CC
1. Con ricorso depositato in data 30.12.2014 innanzi al Tribunale di Locri, in funzione di giudice del lavoro, l’Avv. NOME COGNOME esponeva di essere dirigente amministrativo di ruolo, con rapporto di lavoro a tempo indeterminato presso l’ex Azienda sanitaria provin ciale di Locri (accorpata all’A zienda sanitaria provinciale di Reggio Calabria con deliberazione n. 1 del 2012) e di essere stato responsabile, dal marzo 2004, della struttura complessa Ufficio affari legali, esercitando funzioni di gestione del contenzioso e di consulenza. Il ricorrente aggiungeva che, con delibere n. 142 del 2005 e 554 del 2008, era stato investito, in via interinale, dell’incarico di direzione della medesima struttura complessa Ufficio affari legali, incarico da svolgere fino al rientro del titolare ovvero fino all’espletamento della relativa procedura per il conferimento dell’incarico. L’Avv. COGNOME rappresentava che, con ordine di servizio n. 109 del 2010, il commissario straordinario aveva cancellato le delibere n. 142 del 2005 e 554 del 2008, indirizzando il ricorrente a svolgere attività amministrative presso l’Ufficio legale dell’A zienda sanitaria provinciale di Reggio Calabria, così privandolo dell’incarico di direzione dell’ufficio legale e delle attività di patrocinio legale e di tutto il contenzioso civile, penale e amministrativo, affidato ad altro avvocato. Tali condotte, secondo il ricorrente, costituivano un illegittimo demansionamento e una palese dequalificazione professionale. Il ricorrente deduceva che in ragione di tale demansionamento aveva accusato uno stato depressivo e aveva subito un danno economico. Il ricorrente chiedeva, allora, dichiararsi l’illegittimità delle delibere che lo avevano privato dell’incarico di direzione di struttura complessa e condannarsi il datore di lavoro al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali cagionati nonché alla corresponsione delle differenze
retributive. L’Azienda sanitaria provinciale di Reggio Calabria si costituiva in giudizio chiedendo il rigetto della domanda. Con la sentenza n. 96/2020, depositata il 04/02/2020, il Tribunale di Locri, in funzione di giudice del lavoro, rigettava la domanda.
L’Avv. NOME COGNOME ha proposto appello avverso la decisione. L’Azienda sanitaria provinciale di Reggio Calabria si è costituita chiedendo il rigetto dell’impugnazione. Con la sentenza n. 94/2023 depositata il 06/03/2023, la Corte di Appello di Reggio Calabria, sezione lavoro, ha rigettato l’appello e ha condannato l’appellante alle spese.
Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’Avv. NOME COGNOME articolando sei motivi di ricorso. L’Azienda sanitaria provinciale di Reggio Calabria si è costituita con controricorso chiedendo il rigetto dell’impugnazione.
La parte ricorrente ha depositato memoria ex art. 380bis. 1, cod. proc. civ..
Il ricorso è stato trattato dal Collegio nella camera di consiglio del 9 maggio 2025.
Ragioni della decisione :
Con il primo motivo di ricorso la difesa della parte ricorrente deduce ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ. violazione ed errata applicazione degli artt. 342, 434 e 704-quater c.p.c. Secondo il ricorrente la sentenza della Corte di Appello avrebbe errato nel ritenere l’inammissibilità dell’appello per difetto di specificità dei motivi di impugnazione.
1.1. Il motivo è inammissibile perché la sentenza impugnata non ha dichiarato inammissibile l’appello ma lo ha esaminato e respinto nel merito e il passaggio censurato della sentenza non assume rilievo di autonomo e decisivo capo della decisione; si tratta di un inciso nel quale la Corte di Appello osserva come la
genericità del ricorso giustificherebbe una pronuncia di inammissibilità del gravame, ma detta pronuncia in rito non è adottata e la Corte prosegue nella valutazione del merito dei motivi di appello. Il motivo di ricorso per cassazione è, allora, inammissibile perché non attinge la reale ratio decidendi della sentenza impugnata. In proposito vale richiamare il principio secondo il quale le argomentazioni ultronee, che non hanno lo scopo di sorreggere la decisione già basata su altre decisive ragioni, sono improduttive di effetti giuridici e, come tali, non sono suscettibili di gravame, né di censura in sede di legittimità (Cass. 11/06/2004, n. 11160; Cass. 22/11/2010, n. 23635; Cass. 10/12/2019, n. 32257).
Con il secondo motivo di ricorso la difesa della parte ricorrente deduce ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ. violazione ed errata applicazione degli artt. 156, 429, 437 c.p.c. La sentenza impugnata avrebbe errato nel respingere l’eccezione di nullità della sentenza di primo grado per omessa lettura del dispositivo.
2.1. Il motivo è infondato. La Corte di Appello ha, esattamente, rilevato come la sentenza del Tribunale sia stata depositata con motivazione contestuale lo stesso giorno della sua adozione e nella medesima udienza fissata per la sua discussione, sicchè il deposito integrale della sentenza equivale a lettura della sentenza in ogni sua parte e soddisfa le prescrizioni dell’art. 429 c.c. . In proposito si consideri che la sentenza con motivazione contestuale, pronunciata ai sensi dell’art. 281sexies cod. proc. civ., non è nulla nel caso in cui il giudice non provveda alla lettura del dispositivo in udienza, quando sia comunque avvenuto il deposito immediato ed integrale del dispositivo e della motivazione (Cass. 12/02/2015, n. 2736).
3. Con il terzo motivo di ricorso si deduce la nullità della sentenza impugnata per omessa pronuncia sull’eccezione di nullità della memoria di costituzione dell’Azienda Sanitaria , ai sensi dell’ art. art.360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., invocando il disposto degli artt. 24 Cost., 112, 156 comma secondo e 436 c.p.c., con il d.l. n.179/12, convertito dalla legge n.221/2012 e con il d.m. 55/2014. La sentenza della Corte di Appello di Reggio Calabria sarebbe affetta da un vizio di nullità ai sensi dell’ art.360, primo comma, n. 4, c.p.c. nella parte in cui avrebbe omesso di pronunciare sull’eccezione di nullità della memoria di costituzione dell’Azienda Sanitaria nel giudizio di appello , eccezione che l’odierna parte ricorrente aveva sollevato nei propri scritti difensivi lamentando che la memoria della controparte fosse incompleta e sprovvista delle pagine con numero pari.
3.1. Il terzo motivo è inammissibile. Il ricorrente non deduce in quale modo l’omesso esame della eccezione si sia tradotto in una omessa valutazione delle ragioni di merito poste dal ricorrente stesso a fondamento della impugnazione spiegata con l’ appello. Si consideri, poi, che: il vizio di omessa pronunzia è configurabile solo nel caso di mancato esame di questioni di merito, e non anche di eccezioni pregiudiziali di rito (Cass. 11/10/2018, n. 25154); il vizio di omissione di pronuncia non è configurabile su questioni processuali (Cass. 25/01/2018, n. 1876) e, infine, che in tema di errores in procedendo non è consentito alla parte interessata di formulare, in sede di legittimità, la censura di omessa motivazione, spettando alla Corte di cassazione accertare se vi sia stato, o meno, il denunciato vizio di attività, attraverso l’esame diretto degli atti, indipendentemente dall’esistenza o dalla sufficienza e logicità dell’eventuale motivazione del giudice di merito sul punto. Né il
mancato esame, da parte di quel giudice, di una questione puramente processuale può dar luogo ad omissione di pronuncia, configurandosi quest’ultima nella sola ipotesi di mancato esame di domande o eccezioni di merito (Cass. 10/11/2015 n. 22952).
Con il quarto motivo di ricorso la difesa della parte ricorrente deduce il vizio di omessa valutazione di un fatto decisivo per il giudizio ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ.. La sentenza impugnata sarebbe censurabile nella parte in cui omette di tener conto della circostanza della natura di struttura com plessa dell’Ufficio affari legali, quale fatto storico decisivo al fine dell’accoglimento della richiesta di risarcimento spiegata dal ricorrente per il danno da mancata percezion e dell’indennità di direzione di struttura complessa.
4.1. Il motivo è inammissibile. La Corte di Appello, con accertamento in fatto, assume che non vi era in atti alcuna prova che l’Ufficio affari legali fosse una struttura complessa e che l’accertamento circa la natura di struttura semplice dell’Ufficio, condotto in via specifica dalla sentenza di primo grado, nemmeno era stato oggetto di impugnazione da parte della difesa del Tringali. Per questa via, la sentenza impugnata pone a fondamento della decisione il medesimo fatto storico accertato dal giudice di primo grado. Ricorre una ipotesi di doppia conforme. A fronte di ciò il ricorrente avrebbe dovuto specificare se e in quale misura gli accertamenti in fatto dei due giudici di merito differissero. Mentre non si misura con tale necessità, di qui l’inammissibilità del motivo. Si consideri, in proposito, che «nell’ipotesi di doppia conforme, prevista dall’art. 348-ter, comma 5, c.p.c., il ricorso per cassazione proposto per il motivo di cui al n. 5) dell’art. 360 c.p.c. è inammissibile se non indica le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della
decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse» (Cass. 28/02/2023, n. 5947). Ed ancora: Nell’ipotesi di doppia conforme, prevista dall’art. 348 -ter, comma 5, c.p.c., il ricorrente in cassazione per evitare l’inammissibilità del motivo di cui all’art. 360, n. 5, c.p.c. deve indicare le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. 22/12/2016, n. 26774).
Con il quinto motivo di ricorso la difesa della parte ricorrente deduce ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ. violazione ed errata applicazione degli artt. l’art. 19 del d.lgs. n.165/2001, del l’art. 15 -ter del d.lgs. n.502/1992 e degli artt.28 e 29 del CCNL dirigenza sanitaria. Secondo il ricorrente la sentenza della Corte di Appello avrebbe errato nel ritenere decisivo, per giustificare la revoca dell’incarico già conferito al ricorrente, la natura fiduciaria di esso e la circostanza che si trattasse di un incarico in sostituzione. In particolare, la Corte di Appello avrebbe errato nel non ritenere applicabile il termine triennale di durata dell’incarico previsto ai sensi dell’art. 19 del d.lgs. n.165/2001 e, più nello specifico, dagli artt. 15 e ss. del d.lgs. n. 502/1992 applicabile alla dirigenza sanitaria.
5.1. Il motivo è infondato. La sentenza della Corte di Appello ha affermato che quello attribuito al ricorrente non era un incarico formale, contrattualizzato, all’esito della prescritta procedura di selezione e di affidamento della posizione dirigenziale. Si trattava di una sostituzione di un incarico vacante disposta fino all’espletamento della procedura formale per la riassegnazione. Per questa sostituzione il ricorrente ha percepito l’indennità prevista dalla legge per l’esercizio di fatto
delle mansioni dirigenziali ed è, secondo la sentenza impugnata, quanto aveva diritto a percepire non potendo vantare un diritto né alla prosecuzione dell’incarico né alla sua formalizzazione al di fuori delle procedure concorsuali. Nella specie mancava un incarico formalmente attribuito e non trovava applicazione la d isposizione dell’art. 15 legge 502/1992 invocata dal ricorrente.
5.2. La motivazione della sentenza impugnata deve andare esente da censure perché è conforme ai principi di diritto affermati in materia da questa Corte. Si consideri che: in tema di dirigenza medica, il conferimento di incarico di direzione di struttura semplice, di alta professionalità, studio, ricerca, ispettivo, di verifica e controllo ai dirigenti che abbiano superato il quinquennio di attività con valutazione positiva da parte del collegio tecnico è condizionato all’esistenza di posti disponibili (secondo l’assetto organizzativo dell’ente fissato dall’atto aziendale), alla copertura finanziaria, oltre che al superamento delle forme di selezione regolate dalla contrattazione collettiva (Cass. 03/05/2023, n. 11574). In tema di dirigenza medica, gli incarichi di direttore di struttura complessa devono essere rinnovati per iscritto, a pena di nullità, all’esito della valutazione professionale richiesta, allo scadere dei medesimi, dall’art. 15 d.lgs. n. 502 del 1992 (Cass. 03/04/2023, n. 9207). E infine: in materia di pubblico impiego contrattualizzato, la sostituzione nell’incarico di dirigente medico del RAGIONE_SOCIALE, ai sensi dell’art. 18 del c.c.n.l. dirigenza medica e veterinaria dell’8 giugno 2000, non si configura come svolgimento di mansioni superiori poiché avviene nell’ambito del ruolo e livello unico della dirigenza sanitaria, sicché non trova applicazione l’art. 2103 c.c. e al sostituto non spetta il trattamento accessorio del sostituito, ma solo la prevista indennità cd. sostitutiva, senza che rilevi, in senso contrario, la prosecuzione dell’incarico oltre
il termine di sei mesi (o di dodici, se prorogato) per l’espletamento della procedura per la copertura del posto vacante, dovendosi considerare adeguatamente remunerativa l’indennità sostitutiva specificamente prevista dalla disciplina collettiva e, quindi, inapplicabile l’art. 36 Cost. (Cass. 31/01/2024, n. 2875).
Con il sesto motivo di ricorso la difesa della parte ricorrente deduce ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ. violazione ed errata applicazione degli artt.1218, 2103, 2059, 2087 e 2697 c.c. Si censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso la sussistenza del demansionamento professionale e del danno da mobbing. Secondo il ricorrente la decisione avrebbe del tutto ignorato la circostanza che, dopo ben sette mesi dalla revoca dell’incarico in questione, al ricorrente non sarebbe stata assegnata alcuna mansione/funzione corrispondente alla sua qualifica dirigenziale di inquadramento.
6.1. Il motivo è infondato nella parte in cui denuncia violazione di legge e falsa applicazione dell’art. 2103 c.c. perché la sentenza ha fatto buon governo dei principi di diritto applicabili alla fattispecie. Si consideri, infatti, che «in tema di lavoro pubblico negli enti locali, il conferimento di una posizione organizzativa non comporta l’inquadramento in una nuova categoria contrattuale ma unicamente l’attribuzione di una posizione di responsabilità, con correlato beneficio economico. Ne consegue che la revoca di tale posizione non costituisce demansionamento e non rientra nell’ambito di applicazione dell’art. 2103 cod. civ. e dell’art. 52, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, trovando applicazione il principio di turnazione degli incarichi, in forza del quale alla scadenza il dipendente
resta inquadrato nella categoria di appartenenza, con il relativo trattamento economico (Cass. 30/03/2015, n. 6367).
6.2. Il sesto motivo è, poi, inammissibile nella parte in cui ripropone una ricostruzione dei fatti antitetica a quella posta a fondamento delle sentenze di entrambi i giudici di merito. Con accertamento in fatto riservato al giudice di merito la Corte di Appello -dopo aver escluso l’applicabilità dell’art. 2103 c.c. ha afferma, infatti, che: «non è neanche rilevante se il ricorrente una volta ricoperto l’incarico di responsabile dell’Ufficio affari legali, si sia sentito successivamente demansionato, in quanto l’unico diritto tutelabile è quello di essere adibito alle mansioni per le quali si è stati assunti o a quelle equivalenti nell’ambito dell’area di inquadramento. Non è possibile compiere la comparazione tra le mansioni svolte in forza dell’incaric o suddetto e quelle svolte successivamente, atteso che come accertato in primo grado la cessazione dell’incarico è legittima. Fatte queste affermazioni, già ampiamente illustrate nella sentenza appellata il cui accertamento in fatto è pienamente condivisib ile, l’asserito demansionamente andava vagliato rispetto al profilo di appartenenza del COGNOME, quale dirigente e non a quello svolto in forza dell’incarico temporaneo di responsabile della UOC affari legali, comparazione comunque fatta dal Tribunale che ha accertato l’assenza di ogni profilo di demansionamento e la compatibilità delle mansioni al profilo di appartenenza. Basta rilevare che l’attribuzione di funzioni di responsabilità, come quella conferita con la determina n.142/2005, non determina un mutamento del profilo professionale, ma soltanto un mutamento di funzioni, che cessano allo scadere dell’incarico; sicchè il ricorrente non può sentirsiuna volta terminato l’incarico -solo per questo demansionato. Rispetto al suo profilo di appartenenza non si
riscontrano profili di demansionamento, né di mobbing, atteso che dalle deposizioni- già dettagliatamente esaminate dal Tribunale- non emerge alcuna discriminazione».
6.3. Per questa via, la Corte di Appello ha escluso la sussistenza di un intento persecutorio ovvero di altre eventuali violazioni dell’art. 2087 cod. civ. non avendo, secondo l’accertamento di fatto condotto dai giudici di merito, l’Avv. COGNOME rispettato l’onere probatorio a suo carico . Si consideri, in proposito, che «l’accertata insussistenza degli estremi del mobbing in ambito lavorativo non esime il giudice di merito dal verificare se, sulla base dei medesimi fatti allegati a sostegno della domanda, si configuri comunque un’ipotesi di responsabilità del datore di lavoro per non avere adottato tutte le misure possibili e necessarie, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore, fermo restando che grava su quest’ultimo l’onere della prova della sussistenza del danno e del nesso causale tra l’ambiente di lavoro e il danno, mentre grava sul datore di lavoro l’onere di provare di aver adottato tutte le misure necessarie a prevenirlo» (Cass. 26/02/2024, n. 5061).
Il ricorso deve, allora, essere integralmente respinto.
Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
rigetta il ricorso, condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in euro 5.000,00 (cinquemila) per compensi, euro 200,00 per esborsi, rimborso forfettario nella misura del 15% e accessori come per legge;
ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. n. 115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell ‘ ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1bis del citato art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione