Sentenza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 30533 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 1 Num. 30533 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 20/11/2025
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 29261/2020 R.G. proposto da:
COGNOME NOME, COGNOME NOME, elettivamente domiciliati in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE) rappresentati e difesi dall’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE)
-ricorrente-
contro
COGNOME NOME, elettivamente domiciliato in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE) che lo rappresenta e difende unitamente
CZMIL
NOME
-controricorrente-
nonchè
contro
RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliato in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE) che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE)
-controricorrente-
avverso la SENTENZA di CORTE D’APPELLO BOLOGNA n. 2446/2020 depositata il 18/09/2020.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 23/10/2025 dal Consigliere NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
1. – Con sentenza n. 2446/2020 la Corte di appello di Bologna ha respinto l’impugnativa per nullità proposta ai sensi dell’articolo 829 c.p.c. da NOME e NOME COGNOME avverso il lodo arbitrale del 14.11.2018 che, per quanto rileva, su domanda di NOME COGNOME, aveva così deciso: « Visto l’art. 2475 -ter c.c. dispone l’annullamento della deliberazione del Consiglio di Amministrazione della società RAGIONE_SOCIALE del 29.03.2017; accertata la responsabilità dei signori NOME COGNOME e NOME COGNOME ai sensi dell’art. 2476 c.c, li condanna in solido tra loro al risarcimento del danno a favore di RAGIONE_SOCIALE in del ricorso misura pari a € 840.000,00 oltre interessi legali dal dovuto al saldo; revoca gli amministratori
NOME COGNOME e NOME COGNOME dalla carica di amministratori della società RAGIONE_SOCIALE; rigetta ogni altra domanda proposta dall’attore NOME COGNOME e dai convenuti signori NOME COGNOME e NOME COGNOME… ».
2. – Il Giudice di merito, per gli aspetti che qui rilevano, ha ritenuto sussistenti gli atti di mala gestio da parte degli amministratori NOME NOME COGNOME ai danni della società RAGIONE_SOCIALE; ha osservato, al riguardo, che costituiva mala gestio l’adozione di una delibera invalida per violazione della regola del consenso unanime ex art. 16, lett f , dello Statuto, e, inoltre, che sussisteva anche la violazione dell’art. 2475 ter c.c. in relazione all’adozione della delibera detta, assunta nonostante la situazione di conflitto di interesse in cui versavano gli amministratori della società e con il loro voto determinante, essendo conseguito un danno patrimoniale alla deliberata assegnazione in affitto dell’azienda a RAGIONE_SOCIALE
Con riguardo all’accertamento ed alla quantificazione del danno la Corte d’appello ha evidenziato che l’arbitro aveva operato una media tra i peggiori e i migliori risultati possibili della ipotetica gestione diretta, in luogo di quella indiretta attuata a mezzo dell’affitto dell’azienda, procedendo successivamente alla comparazione con l’importo del canone di affitto novennale, aggiungendo che la natura del danno derivante dall’esecuzione del contratto di affitto di azienda, della durata di 9 anni, quale danno proiettato al futuro, aveva carattere equitativo; ha quindi osservato che la natura rituale del lodo e l’applicazione delle norme di diritto precludevano l’impugnazione della statuizione contenente la liquidazione equitativa di un danno futuro.
La sentenza qui impugnata ha infine ritenuto ammissibile la domanda di revoca degli amministratori in sede di giudizio di merito, alla luce degli orientamenti espressi dalla giurisprudenza, evidenziando che l’adozione di una delibera in violazione della regola statutaria concernente il consenso degli amministratori, delibera resa in violazione delle regole in conflitto di interessi costituivano condotte di mala gestio di gravità tale da determinare la chiesta revoca.
– Avverso tale decisione NOME e NOME COGNOME hanno proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi cui hanno resistito con controricorso RAGIONE_SOCIALE e NOME COGNOME.
– Successivamente alla notifica del ricorso i ricorrenti hanno depositato memoria ex art. 380 bis c.p.c. sollevando eccezione di giudicato in ragione dell’assoluzione in sede penale intervenuta nelle more del giudizio di cassazione.
– NOME COGNOME ha depositato memoria in vista dell’udienza camerale.
– Con ordinanza del 18.12.2024 questa Corte ha rimesso alla pubblica udienza il procedimento rilevando che la questione veicolata con l’ultimo profilo di censura, e cioè l’ammissibilità in sede di giudizio di merito della revoca di cui all’art. 2467 c.c., imponeva un approfondimento in pubblica udienza in assenza di precedenti di legittimità e dei contrasti insorti sul tema nell’ambito della giurisprudenza di merito, ove, per taluni, l’azione di merito di revoca ai sensi del terzo comma dell’art. 2476 c.c. è da considerarsi ammissibile anche al di fuori della fase cautelare, e per altri è da escludere per la mancanza di un nesso di strumentalità fra la domanda cautelare e la corrispondente azione di merito, oltre che per il profilo della tassatività delle azioni costitutive.
– L’ufficio di procura generale ha concluso per il rigetto del ricorso.
8. – La società RAGIONE_SOCIALE ha depositato memoria illustrativa in vista dell’udienza pubblica.
RAGIONI DELLA DECISIONE
9. – Il ricorso contiene tre motivi.
9.1. – Con il primo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 36 del D.lgs. n. 5 del 2003, 1223, 1225, 1226 e 2476 c.c. in relazione all’art. 360 primo comma n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’art. 1 del DCPM 8.3.2020 in combinato disposto con l’art 1 del D.C.P.M. del 9.3.2020 in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.
Si sostiene che la Corte di appello, nell’affermare la non sindacabilità della liquidazione arbitrale del danno avrebbe confuso la pronuncia secondo equità, che può essere richiesta dalle parti all’arbitro ai sensi dell’art. 822 c.p.c. con la liquidazione equitativa del danno che è atto di applicazione di una norma giuridica, ovvero dell’art. 1226 c.c..
Si afferma pertanto che il giudice di merito avrebbe dovuto porsi il problema del rispetto o meno delle condizioni per poter procedere alla liquidazione equitativa del danno in difetto delle quali la domanda risarcitoria avrebbe dovuto essere respinta.
Si aggiunge poi che la Corte avrebbe confuso il danno equitativo con il danno futuro.
Si lamenta altresì che nella decisione qui gravata sarebbe contenuta una valutazione relativa all’esistenza del pregiudizio subito dalla società sulla base di una parziale ed incompleta valutazione del quadro normativo vigente alla data di deposito del pronunciamento, la « cui ponderazione avrebbe scalfito la ratio legis
adottata dal lodo ai fini della valutazione della stessa esistenza del danno, tanto più in quanto prefigurato alla stregua di danno futuro ».
9.2. – Con un secondo motivo si denuncia la nullità della sentenza per omessa motivazione, la violazione dell’art. 132 c.p.c. in relazione all’art. 360 primo comma n. 4 c.p.c. per avere la Corte di appello omesso di considerare la relazione del CTP prodotta dall’impugnante con l’istanza di modifica dell’ordinanza di sospensione del 18.4.2019
9.3. – Con un terzo motivo si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 2476 c.c. in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c. per avere la Corte di appello ritenuto ammissibile la domanda di revoca al di fuori della fase cautelare e fondata nel merito la richiesta in relazione a comportamenti di mala gestio .
10. – In via preliminare va rigettata l’eccezione di giudicato penale di assoluzione per insussistenza del fatto sollevata dai ricorrenti con memoria ex art. 380 bis c.p.c. a seguito della sentenza emessa dal giudice penale nei confronti di NOME e NOME COGNOME per il reato di cui agli artt. 2634 c.c. e 110 c.p., sentenza divenuta ormai definitiva per mancata impugnativa.
Occorre muovere dalla considerazione che il nostro ordinamento non è ispirato al principio dell’unità della giurisdizione e della prevalenza del giudizio penale su quello civile, avendo il legislatore instaurato un sistema di completa autonomia e separazione fra i due giudizi, salvo limitate eccezioni, tra cui proprio quanto previsto dall’art. 652 c.p.p., ossia l’efficacia di giudicato della sentenza penale di assoluzione nel giudizio civile o amministrativo di danno, ove il danneggiato dal reato si sia costituito parte civile o sia stato
posto in condizione di farlo, e sempre che non abbia esercitato l’azione in sede civile a norma dell’art. 75, comma 2, c.p.p.
Ne consegue, anzitutto, che soltanto la sentenza penale irrevocabile di assoluzione – per essere rimasto accertato che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto è stato compiuto nell’adempimento di un dovere o nell’esercizio di una facoltà legittima – pronunciata in seguito a dibattimento, nel giudizio in cui vi è stata la partecipazione del danneggiato come parte civile o nel quale questi sia stato messo in condizione di parteciparvi, ha efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni ed il risarcimento del danno (per tutte, Cass., S.U., 26 gennaio 2011, n. 1768).
La sentenza emessa ai sensi dell’art. 530 c.p.p., comma 2, ossia per insufficienza o contraddittorietà della prova che il fatto sussista, non fanno invece stato nell’odierno giudizio civile: e, nel caso in esame, la sentenza in questione è stata per l’appunto pronunciata ai sensi del secondo comma dell’art. 530 c.p.c. (v. pag. 15 di detta sentenza), sul rilievo dell’incertezza sussistente sia in ordine all’integrazione degli elementi oggettivi della fattispecie incriminatrice, sia in ordine all’elemento soggettivo.
Va ricordato infatti che il giudicato di assoluzione ha effetto preclusivo nel giudizio civile solo ove contenga un effettivo e specifico accertamento circa l’insussistenza o del fatto o della partecipazione dell’imputato e non anche nell’ipotesi in cui l’assoluzione sia determinata dall’accertamento dell’insussistenza di sufficienti elementi di prova circa la commissione del fatto o l’attribuibilità di esso all’imputato e cioè quando l’assoluzione sia stata pronunziata a norma dell’art. 530 c.p.p., comma secondo (tra
le varie, cfr. Cass. n. 3376/2011; Cass n. 25447/2015; Cass. n. 6593/2022).
Occorre aggiungere che, certo, gli accertamenti operati in sede penale, quantunque privi di autorità di giudicato, ben possono essere presi in considerazione in sede civile quali prove atipiche tali da fondare il convincimento del giudice: ma, ovviamente, ciò non può aver luogo in sede di legittimità.
11. – Il ricorso va respinto.
11.1. – Il primo mezzo, che assembla temi eterogenei, è inammissibile.
La Corte territoriale ha osservato quanto segue: « Il danno è stato allegato da NOME COGNOME e accertato e quantificato dall’arbitro nella misura corrispondente alla differenza tra i risultati della gestione diretta e di quella indiretta nel periodo (futuro) di durata del rapporto di affitto. In concreto, l’arbitro ha operato una media tra i peggiori e i migliori risultati possibili della ipotetica gestione diretta, procedendo successivamente alla comparazione con l’importo del canone di affitto novennale. Si tratta con ogni evidenza della liquidazione di un danno futuro che, come tale, ha certamente una natura equitativa… Anche nel caso di specie, la liquidazione di un danno futuro come quello derivante dall’esecuzione del contratto di affitto di azienda nell’arco della sua durata novennale, non può che fondarsi su criteri probabilistici e non può che avere dunque natura equitativa. Inoltre, nel caso di specie la clausola compromissoria prescrive la natura rituale del lodo e l’applicazione delle norme di diritto. Ne consegue la non impugnabilità della statuizione concernente la liquidazione equitativa del danno futuro … ».
Nel replicare all’argomento svolto dalla Corte territoriale, come si è già accennato, i ricorrenti, alle pagine 2242 del ricorso – non
conforme al principio di sinteticità introdotto dal legislatore nel numero 4 dell’articolo 366 c.p.c. -, dopo aver pedissequamente trascritto il quarto motivo di impugnazione per nullità del lodo (pagine 2331 del ricorso per cassazione) e l’ottavo motivo della medesima impugnazione (pagina 32-33 del ricorso), nonché, nuovamente, le pertinenti pagine della sentenza impugnata (pagine 34-35 del ricorso), hanno anzitutto compiuto un non pertinente richiamo alla pronuncia delle sezioni unite n. 3840 del 2007, la quale ha in buona sostanza affermato che il giudice di appello il quale abbia dichiarato inammissibile l’impugnazione consuma con ciò la propria potestas iudicandi , il che renderebbe tamquam non esset l’eventuale successiva motivazione di rigetto nel merito dei motivi di appello: non pertinente per la considerazione che l’assunto svolto a pagina 37, secondo cui la Corte bolognese, « a fronte della ritenuta insindacabilità della liquidazione del danno e dunque della pronuncia dell’arbitro sul punto, non poteva esprimere giudizi di merito sulla congruità del risarcimento liquidato », avrebbe potuto avere senso, per i fini della cassazione della sentenza impugnata, soltanto ove fosse stata previamente dimostrata – il che, come subito si vedrà, assolutamente non è l’erroneità « della ritenuta insindacabilità ».
A tale considerazione i ricorrenti hanno fatto poi seguire l’affermazione secondo cui il giudice dell’impugnazione avrebbe « confuso la pronuncia secondo equità che può rendere l’arbitro su richiesta delle parti, ai sensi dell’art. 822 c.p.c., con la liquidazione equitativa del danno che è invece atto di applicazione di una norma giuridica ovvero l’art. 1226 c.c. » senza esporre le ragioni che rendano sostenibile la tesi della denunciata confusione.
Tesi che, sulla base del testo della decisione impugnata, come poc’anzi trascritto, non possiede fondamento.
Ed invero, la corte d’appello ha detto in modo chiaro ed inequivocabile che l’arbitro aveva proceduto alla liquidazione equitativa del danno ai sensi dell’art. 1226 c.c., espressamente richiamato a pagina 38 della sentenza impugnata, con relative citazioni di giurisprudenza, per l’appunto tutte riferite alla norma in questione, aggiungendo, dunque, che siffatta liquidazione equitativa non era sindacabile in sede di impugnazione per nullità del lodo arbitrale, quantunque estesa, l’impugnazione, al sindacato delle regole di diritto applicabili al merito della controversia.
Ed in effetti, mentre rimane incomprensibile ciò che ha indotto i ricorrenti a sostenere la tesi della confusione prima rammentata, occorre ricordare che l’impugnazione per nullità del lodo arbitrale ha carattere di impugnazione a critica vincolata, carattere il quale esclude che contro il lodo, in fase rescindente, si possa svolgere un qualche sindacato di merito: ricorre cioè la violazione delle regole di diritto attinenti al merito della controversia quando l’arbitro sia incorso in un errore di diritto, vale a dire ove sia stato erroneo il canone di diritto applicato dall’arbitro rispetto agli elementi di fatto accertati, sui quali la corte d’appello non può punto intervenire, esattamente come accade in Cassazione secondo il disposto di cui all’articolo 360, n. 3, c.p.c.. Gli errores in iudicando in iure , dall’uno e dall’altro versante, hanno cioè le medesime identiche caratteristiche.
Insomma, il sindacato esercitabile dalla corte d’appello, in sede di impugnazione per nullità del lodo arbitrale per violazione delle regole di diritto applicabili al merito della controversia, ove sia denunciata la violazione della disciplina della liquidazione equitativa
dettata dall’art. 1226 c.c. è esattamente lo stesso sindacato che spetta alla Corte di cassazione ove la medesima censura sia rivolta contro la statuizione in proposito adottata, all’esito del giudizio ordinario, dal giudice di appello. E allora è agevole rammentare che il ricorso alla liquidazione equitativa è in linea generale affare del giudice di merito, sottoposto al controllo di legittimità entro limiti ristrettissimi e nel caso di specie totalmente irrilevanti poiché senza meno rispettati.
L’esercizio in concreto, in senso positivo o negativo, del potere discrezionale, conferito al giudice dall’art. 1226 c.c., di liquidare il danno in via equitativa non è pertanto suscettibile di sindacato in sede di legittimità, e così pure dal giudice dell’impugnazione per nullità del lodo, se la decisione in merito risulti sorretta da motivazione immune da vizi logici e da errori di diritto (a mero titolo di esempio tra le innumerevoli Cass. 26 giugno 1995, n. 7235, con l’ovvia precisazione che il controllo motivazionale ivi menzionato era quello all’epoca previsto dall’art. 360, n. 5, c.p.c., controllo motivazionale fin dal 2012 ridotto al « minimo costituzionale » in sede di ricorso per cassazione, e che è sempre stato contenuto entro detto limite in sede di impugnazione per nullità del lodo arbitrale).
Si specifica sovente, allora, che l’esercizio in concreto del potere discrezionale conferito al giudice di liquidare il danno in via equitativa non è suscettibile di sindacato in sede di legittimità quando la motivazione della decisione dia adeguatamente conto delle ragioni sia del ricorso al criterio equitativo, sia dell’uso di tale facoltà discrezionale, indicando il processo logico e valutativo seguito (Cass. 10 aprile 1996, n. 3341; Cass. 15 gennaio 2000, n. 409; Cass. 27 giugno 2001, n. 13077). Per evitare cioè che la
decisione relativa alla liquidazione equitativa del danno – ancorché fondata su valutazioni discrezionali – sia arbitraria e sottratta a qualsiasi controllo, è necessario che il giudice indichi, almeno sommariamente e sia pure con l’elasticità propria dell’istituto e nell’ambito dell’ampio potere discrezionale che lo caratterizza, i criteri che egli ha seguito per determinare l’entità del danno (Cass. 10271/2002; Cass. 7896/2002; Cass. 6426/2001; Cass. 14166/1999; Cass. 9734/1998; Cass. 9588/1998).
Da detto angolo visuale, però, la sentenza della corte di merito è inappuntabile, giacché essa ha convenientemente posto l’accento: a) sul rilievo che, nel caso considerato, ricorreva senz’altro il presupposto oggettivo di applicazione dell’articolo 1226 c.c., versandosi in ipotesi di liquidazione di un danno futuro, che è come tale caso emblematico di danno insuscettibile di essere provato nel suo preciso ammontare; b) sul rilievo che il criterio utilizzato dall’arbitro, mutuato dalla consulenza tecnica espletata nel giudizio arbitrale, resisteva a censura, avendo l’arbitro messo a paragone i risultati ottenibili mediante la concessione in affitto dell’azienda ed i risultati ottenibili mediante la gestione diretta di essa, sulla base di un ammontare individuato in riferimento ad un individuato range minimo-massimo.
Va da sé che la decisione della corte d’appello è in fin dei conti perfettamente conforme all’insegnamento di questa Corte secondo cui: « In tema di responsabilità degli organi sociali, l’esercizio in concreto del potere discrezionale del giudice di liquidare il danno in via equitativa, nonché l’accertamento del relativo presupposto, costituito dall’impossibilità o dalla rilevante difficoltà di precisare il danno nel suo esatto ammontare, sono il frutto un giudizio di fatto, non sindacabile in sede di legittimità se correttamente motivato »
(Cass. 14 ottobre 2013, n. 23233, fermo restante quanto già detto in punto esigenza motivazionale).
Proseguendo nell’esame del motivo di ricorso per cassazione, esso si sposta su un argomento svolto contro l’evidenza, quello secondo cui « la corte bolognese ha confuso il danno equitativo con il danno futuro, che non può essere qualificato come danno equitativo ».
Ora, è agevole osservare che l’espressione « danno equitativo » non vuol dir nulla: equitativa è la liquidazione del danno, quando esso non può essere provato nel suo preciso ammontare o, secondo la giurisprudenza consolidata di questa Corte, quando la prova è per così dire particolarmente ostica. Ciò detto, il Collegio non ritiene di doversi soffermare ulteriormente ad evidenziare che il danno futuro ben può essere ricompreso nell’ambito del danno suscettibile di liquidazione equitativa, ai sensi dell’articolo 1226 c.c.: è il caso, tanto per fare uno dei numerosi esempi possibili, delle spese che la vittima di un incidente stradale dovrà sostenere per cure ed assistenza, comprese quelle occorrenti per la collaborazione di terzi nelle faccende domestiche e personali, spese che si collocano dal versante appunto del danno emergente futuro, la cui liquidazione – come ricorda Cass. 23 gennaio 2002, n. 752 – « non può che avvenire in via equitativa ».
Ciò detto, costituisce un errore, secondo quanto osservato prima, l’affermazione dei ricorrenti, a pagina 40 del ricorso, alla stregua della quale « era questa l’indagine che avrebbe dovuto compiere la Corte d’appello » -i.e. l’indagine in ordine alla sussistenza di una rilevante probabilità del verificarsi del danno futuro – « e che non ha invece condotto, verificando la correttezza delle censure sollevate con il motivo di impugnazione a proposito della inconfigurabilità nella fattispecie di tale tipo di danno »: errore
perché si risolve nella sollecitazione alla Corte di cassazione a censurare la sentenza d’appello per non aver svolto un’indagine meritale che la corte d’appello non poteva svolgere, non aveva il benché minimo potere di svolgere, nei limiti dell’impugnazione a critica vincolata ad essa corte d’appello devoluta, secondo quanto poc’anzi ricordato.
Passando nuovamente ad altro, a pagina 40 del ricorso si denuncia l’inammissibilità e comunque l’erroneità della liquidazione risarcitoria sotto forma di danno da perdita di chance in assenza di specifica domanda, la qual cosa non ha nulla a che vedere con la concreta vicenda processuale, giacché la corte d’appello non ha fatto il benché minimo riferimento ad un danno da perdita di chance , e cioè non ha risarcito la perdita dell’opportunità in capo al danneggiato di conseguire un determinato risultato, ossia una chance , ma ha risarcito il danno parametrato al differenziale tra l’importo del canone ritraibile dalla concessione dell’azienda in affitto e l’utile prognosticamente realizzabile, danno futuro, appunto, secondo quanto ritenuto dall’arbitro sulla base dell’espletata consulenza tecnica, se l’azienda non fosse stata affittata ma fosse stata gestita direttamente.
Ulteriore argomento è svolto a pagina 41 del ricorso, laddove si lamenta che la sentenza impugnata non abbia tenuto conto della normativa covid concernente la limitazione dell’attività di impresa nel periodo del lock-down : trattasi di questione nuova completamente inammissibile in sede di legittimità.
Infine, a pagina 42 del ricorso, si lamenta che la corte d’appello abbia condiviso la quantificazione del danno ritenuta dall’arbitro « omettendo di valorizzare i fatturati effettivamente conseguiti da
hotel fiera negli anni 2017 e 2018 »: censura questa inammissibile perché meritale.
Alla stregua delle considerazioni sin qui esposte, il collegio è stato posto dinanzi ad un motivo composito, contenente argomentazioni nel complesso totalmente inidonee, perché non pertinenti, o perché meritali, ad intaccare la ratio decidendi che sostiene la decisione impugnata: motivo, come tale, palesemente confinato, come si diceva in apertura, nell’ambito della inammissibilità.
11.2. – Anche il secondo mezzo è inammissibile.
Si tratta di una censura motivazionale che si disinteressa dell’assetto giurisprudenziale concernente il vizio di motivazione, nonché i limiti in cui esso è deducibile in sede di legittimità.
Ciò detto, è sufficiente rammentare che la riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, è stata interpretata da questa Corte, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al « minimo costituzionale » del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella « mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico », nella « motivazione apparente », nel « contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili » e nella « motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile », esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto
di « sufficienza » della motivazione (Cass., Sez. Un., 7 aprile 2014, n. 8053).
Nel caso di specie la motivazione c’è, e non ricorre affatto alcuna delle quattro ipotesi sopra menzionate.
11.3. – Il terzo motivo con cui si rimprovera alla Corte distrettuale di aver ritenuto ammissibile la domanda di revoca al di fuori della fase cautelare in relazione a comportamenti di mala gestio va disatteso.
In proposito la controricorrente ha sollevato una duplice eccezione di carenza di interesse, e per avere i ricorrenti prestato acquiescenza ad un provvedimento di revoca giudiziale non impugnato (ulteriore rispetto a quello qui denunziato), e per essere stato nominato un nuovo organo amministrativo in conseguenza alla revoca.
Sotto il primo profilo va però osservato che il provvedimento di revoca del Tribunale delle imprese di Venezia è stato adottato nell’ambito del ricorso promosso ai sensi dell’art. 2476 terzo comma c.c. all’esito di un giudizio cautelare che può dar luogo unicamente ad un giudicato cautelare « allo stato degli atti » non caratterizzata dai profili di un giudicato sostanziale.
È invece fondata l’eccezione quanto al secondo profilo. Va cioè rilevato che l’avvenuta sostituzione degli amministratore ha inevitabilmente comportato la cessazione della materia del contendere sulla questione dell’ammissibilità della revoca fuori dalla fase cautelare, neppure risultando che detta sostituzione sia stata meramente necessitata dall’esecuzione del provvedimento cautelare.
12. – Di qui l’ineluttabile esigenza di esaminare la questione enucleata nell’ordinanza interlocutoria in ordine all’interpretazione
dell’art. 2476 c.c. in vista dell’applicazione del principio della soccombenza virtuale, soccombenza che deve essere individuata in base ad una ricognizione della « normale » probabilità di accoglimento della pretesa della parte su criteri di verosimiglianza o su indagine sommaria di delibazione del merito. Tale è la prospettiva nell’ambito della quale occorre esaminare la questione posta dal terzo motivo, concernente l’interpretazione del terzo comma dell’art. 2476 c.c.
In proposito la giurisprudenza di merito è giunta a risultati divergenti in ordine alla domanda se l’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori e la richiesta di provvedimenti siano legati fra loro da una interdipendenza, e da strumentale accessorietà, o se invece l’azione cautelare sia autonoma e svincolata dall’azione c.d. di merito e quindi condizionata da questo presupposto specifico.
Le diversi tesi hanno evidenziato ed esplicitando le conseguenze pratiche che discendono dall’adottare l’una o l’altra delle soluzione (cfr. Trib. Milano sez. spec. impresa 21/04/2017, n. 2476 e Trib. Venezia 31/07/2024, n. 2756). Occorre chiedersi, in altre parole, se il ricorso per ottenere la revoca dell’amministratore possa essere proposto dal socio soltanto nell’ottica dell’esercizio dell’azione sociale di responsabilità, che egli è legittimato individualmente a promuovere, al fine di evitare che si protraggano o che possano essere portate ad ulteriori conseguenze le gravi irregolarità di gestione della cui dannosità si dovrà discutere nel giudizio di merito, o se invece l’accostamento tra l’azione di responsabilità e la revoca dell’amministratore non sia indispensabile.
Ritiene il Collegio, pur consapevole dell’opinabilità della questione, determinata dall’ambiguità della lettera della legge, che debba
essere preferita la soluzione più ampia, cui non varrebbe opporre né il labile rilievo, di per sé neutro, che la revoca cautelare dell’amministratore sia collocata nella disposizione concernente l’azione sociale di responsabilità, né l’altrettanto labile elemento costituito dall’impiego dell’avverbio « altresì », né, infine, il principio di tassatività delle sentenze dotate di effetti costitutivi di cui all’art. 2908 c.c.: a quest’ultimo riguardo occorre difatti evidenziare che non viene qui in questione la creazione, sia pure per via di analogia, di un’ipotesi di sentenza costitutiva ulteriore rispetto alla previsione normativa, bensì la semplice lettura del dato normativo considerato nel contesto sistematico, tenendo cioè in debita considerazione l’anomalia di un’interpretazione che volesse circoscrivere la misura cautelare tipica della rimozione dell’amministratore responsabile di gravi irregolarità entro i confini dell’esercizio dell’azione sociale di responsabilità, connotata non soltanto da presupposti ulteriori, ma anche da finalità tutt’affatto distinte.
È invece da credere che, nell’attribuire al socio la facoltà di agire in via cautelare per la rimozione dell’amministratore, il legislatore abbia inteso riconoscergli anche la facoltà – implicitamente ma ineluttabilmente ricollegata, tanto da renderne superflua la menzione -di introdurre l’ordinaria azione di cognizione corrispondente, ossia di domandare la revoca, con sentenza, dell’amministratore, in presenza delle gravi irregolarità contemplate dal disposto normativo.
Rimarrebbe altrimenti inspiegabile il perché la revoca per giusta causa dell’amministratore possa sempre essere chiesta da ciascun socio anche nelle società di persone, indipendentemente dall’azione di danno (art. 2259, comma 3 c.c.): e cioè l’opposta lettura della
norma condurrebbe a reputare, inspiegabilmente, che solo nelle società a responsabilità detta revoca possa essere conseguita esclusivamente per via mediata dall’esercizio dell’azione di responsabilità.
13. – Le spese seguono la soccombenza, virtuale, come si è visto, quanto al terzo mezzo. Sussistono i presupposti processuali per il raddoppio del contributo unificato se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna i ricorrenti al pagamento delle spese di legittimità in favore di ciascun controricorrente, spese che si liquidano in complessive € 11000,00 oltre € 200,00 per esborsi ed il 15% per spese generali per ciascuno dei controricorrenti. Ai sensi dell’art. 13, comma 1quater , del D.P.R. n.115/02, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, a norma del comma 1bis dello stesso articolo 13, ove dovuto.
Così deciso in Roma 23.10.2025
Il Consigliere Il Presidente (NOME COGNOME) (NOME COGNOME)