Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 9289 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 9289 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 08/04/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 7907/2022 R.G. proposto da
RAGIONE_SOCIALE ROMA CAPITALE, in persona del Sindaco p.t., rappresentato e difeso dall’Avv. NOME COGNOME con domicilio eletto in Roma, INDIRIZZO;
-ricorrente e controricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del procuratore speciale NOME COGNOME in proprio ed in qualità d’impresa capogruppo del RAGIONE_SOCIALE costituito con la RAGIONE_SOCIALE rappresentata e difesa dagli Avv. NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME con domicilio eletto in Roma, INDIRIZZO;
-controricorrente e ricorrente incidentale – avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma n. 6294/21, depositata il 28 settembre 2021.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 18 dicembre 2024 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
La Città Metropolitana di Roma Capitale convenne in giudizio l’RAGIONE_SOCIALEgià RAGIONE_SOCIALE, in proprio ed in qualità di mandataria del Raggruppamento Temporaneo d’RAGIONE_SOCIALE costituito con la RAGIONE_SOCIALE, proponendo opposizione al decreto ingiuntivo n. 1374/17, emesso il 19 gennaio 2017, con cui il Tribunale di Roma le aveva intimato il pagamento della somma di Euro 6.664.616,42, oltre interessi al tasso di cui al d.lgs. 9 ottobre 2002, n. 231, a titolo di revisione dei prezzi e svincolo delle ritenute a garanzia previste dal contratto di appalto stipulato tra le parti il 19 aprile 2002 ed avente ad oggetto il servizio energia per gl’istituti scolastici della Provincia di Roma.
A sostegno dell’opposizione, l’attrice contestò l’esigibilità del credito relativo alle ritenute a garanzia, per difetto delle relative condizioni, e l’applicabilità della revisione dei prezzi, relativamente al periodo successivo al 13 aprile 2013, per effetto dell’intervenuta rinegoziazione del contratto, deducendo inoltre il difetto di giurisdizione del Giudice ordinario, relativamente alla domanda di riconoscimento della revisione dei prezzi, nonché l’inapplicabilità ratione temporis della disciplina degl’interessi introdotta dal d.lgs. n. 231 del 2002.
Si costituì la convenuta, chiedendo il rigetto dell’opposizione.
1.1. Con sentenza del 3 marzo 2020, il Tribunale di Roma accolse parzialmente l’opposizione, revocando il decreto ingiuntivo e condannando la Città Metropolitana al pagamento della somma di Euro 6.664.616,42, oltre interessi al tasso di cui al d.P.R. 21 dicembre 1999, n. 554.
L’impugnazione proposta dalla Città Metropolitana è stata parzialmente accolta dalla Corte d’appello di Roma, che con sentenza del 28 settembre 2021 ha dichiarato dovuti gl’interessi al tasso legale, con la decorrenza già indicata nel decreto ingiuntivo.
A fondamento della decisione, la Corte ha richiamato le considerazioni svolte nella sentenza di primo grado, confermando che con l’atto d’obbligo le
parti non avevano rinegoziato il contratto originario, ma ne avevano concordato la proroga, limitandosi a recepire la disciplina legale in materia di contenimento della spesa pubblica, ribadendo l’applicabilità della revisione dei prezzi, così come prevista dal contratto, e ponendo a carico dell’RAGIONE_SOCIALE l’obbligo di uniformare i corrispettivi ai minori importi eventualmente previsti dai tariffari Consip, senza però modificare i prezzi contrattuali.
Ha richiamato inoltre l’orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui le controversie in tema di revisione dei prezzi dei contratti di appalto di servizi cui si applica l’art. 244 del d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163 sono devolute alla giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo, anche se aventi ad oggetto il quantum debeatur determinato dai soggetti incaricati dall’Amministrazione e sulla base di dati provenienti dalla stessa, fatta eccezione per il caso in cui, come nella specie, il meccanismo revisionale sia già stato contrattualizzato dalle parti.
Ha escluso infine, ai sensi dell’art. 3, comma terzo, del d.lgs. 17 marzo 1995, n. 157, l’applicabilità del tasso d’interessi previsto dalla legge 11 febbraio 1994, n. 109, dal momento che l’appalto aveva ad oggetto il servizio integrato di manutenzione degl’impianti tecnologici degli istituti scolastici provinciali e la gestione degli impianti termici, e l’art. 3 del contratto richiamava la predetta legge soltanto per la parte relativa ai lavori.
Avverso la predetta sentenza la Città Metropolitana ha proposto ricorso per cassazione, articolato in due motivi, illustrati anche con memoria. L’RAGIONE_SOCIALE ha resistito con controricorso, proponendo ricorso incidentale, articolato in tre motivi, ed anch’esso illustrato con memoria, cui la Città Metropolitana ha resistito a sua volta con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo d’impugnazione, la ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 cod. civ., osservando che, nel qualificare l’atto d’obbligo come mera proroga del contratto originario, la sentenza impugnata ha conferito rilievo esclusivamente al senso letterale delle parole, ed in particolare al nomen juris utilizzato dall’Amministrazione, senza procedere ad una valutazione complessiva delle clausole contrattuali.
Premesso inoltre una delle parti era una Pubblica Amministrazione, tenuta al perseguimento dell’interesse pubblico nell’intera fase esecutiva dell’appalto, sostiene che la Corte territoriale avrebbe dovuto contemperare l’esigenza di assicurare il miglior uso del denaro pubblico con il rispetto dei principi della concorrenza e del mercato, in linea con gli obiettivi di contenimento della spesa pubblica perseguiti dal d.l. 6 luglio 2012, n. 95, richiamati nella determinazione dirigenziale di autorizzazione alla stipulazione. Ribadisce che il predetto accordo costituiva un nuovo contratto, avendo le parti modificato la disciplina del rapporto non solo nella parte riguardante la remunerazione delle prestazioni, ma anche in quella concernente le modalità di svolgimento del servizio, relativamente alle quali era previsto l’impegno ad utilizzare ogni strumento per il contenimento della spesa. Rileva che tale impegno trovava fondamento nel richiamo del contratto all’art. 1, commi primo, terzo, settimo e tredicesimo, del d.l. n. 95 cit., il quale attribuiva all’Amministrazione la facoltà di modificare gli accordi contrattuali, con il consenso dell’appaltatore, legittimandola, in assenza dello stesso, a recedere dal contratto. Afferma infine che una proroga del contratto è configurabile soltanto in caso di differimento del termine finale del rapporto, con integrale conferma delle precedenti condizioni, mentre nel caso di modifica delle stesse l’atto è qualificabile come rinnovo del contratto.
Con il secondo motivo, la ricorrente deduce la violazione dell’art. 133 cod. proc. amm., censurando la sentenza impugnata per aver ritenuto insussistente il difetto di giurisdizione del Giudice ordinario, senza considerare che l’opposizione non aveva ad oggetto l’applicazione del meccanismo previsto dalla clausola revisionale, ma la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della revisione dei prezzi.
Con il primo motivo del ricorso incidentale, la controricorrente lamenta la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 cod. civ., sostenendo che, nell’escludere l’applicabilità del tasso d’interessi di cui alla legge n. 109 del 1994 ed al d.P.R. n. 554 del 1999, la sentenza impugnata ha omesso di procedere ad un’interpretazione complessiva delle clausole contrattuali, non avendo considerato che il rinvio contenuto nell’art. 3 del contratto di appalto non era limitato alla sola disciplina dei lavori. Afferma infatti
che, trattandosi di appalto misto, la predetta disciplina, più dettagliata di quelle precedenti, era richiamata sia dal contratto che dal capitolato d’oneri come disciplina residuale di riferimento, applicabile per colmare eventuali lacune di quella contrattuale, come quella riguardante i ritardi nei pagamenti.
Con il secondo motivo, la controricorrente lamenta, in via subordinata, la violazione dell’art. 12 disp. prel. cod. civ., sostenendo che la constatazione dell’esistenza di una lacuna normativa in tema di ritardi nei pagamenti negli appalti pubblici di servizi, in epoca anteriore all’entrata in vigore del d.lgs. 9 ottobre 2002, n. 231, avrebbe dovuto indurre la Corte territoriale ad applicare in via analogica la disciplina generale degli appalti pubblici, anziché quella di cui agli artt. 1224 e 1284 cod. civ.
Con il terzo motivo, la controricorrente solleva, in via ancor più gradata, questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma terzo, del d.lgs. n. 157 del 1995: premesso che prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 231 del 2002 gl’interessi per il ritardato pagamento nel settore dei lavori pubblici erano disciplinati dall’art. 26 della legge n. 109 del 1994 e dall’art. 116 del d.P.R. n. 554 del 1999, osserva che, ove interpretato nel senso dell’applicabilità di tali disposizioni esclusivamente agli appalti di lavori e a quelli di servizi nei quali i lavori abbiano un’incidenza pari o superiore al 50% dell’importo dell’appalto, l’art. 3, comma terzo, cit. si pone in contrasto con l’art. 3 Cost., determinando un’ingiustificata disparità di trattamento tra gli appaltatori di lavori e quelli di servizi, in assenza di condizioni economiche idonee a legittimare l’operatività di una disciplina differenziata.
Così riassunte le censure proposte dalle parti, occorre procedere innanzitutto all’esame del secondo motivo del ricorso principale, avente carattere prioritario rispetto sia al primo motivo che al ricorso incidentale, in quanto riflettente il difetto di giurisdizione del Giudice ordinario in ordine alla domanda proposta dall’RAGIONE_SOCIALE con il ricorso per decreto ingiuntivo.
E’ pacifico che tale domanda ha ad oggetto il riconoscimento dell’adeguamento dei prezzi unitari previsti dal contratto di appalto stipulato tra le parti per il servizio energia, relativamente alla quota afferente al combustibile, nonché della revisione dei prezzi relativa agli anni 2013 e 2014, in applicazione dell’artt. 23 del contratto e dell’art. 26 del capitolato speciale. Come si
evince dalla lettura degli atti, cui questa Corte può procedere direttamente, avuto riguardo alla natura processuale del vizio lamentato, il primo di tali articoli disciplinava la procedura per il riconoscimento del compenso revisionale, subordinandolo ad un’apposita richiesta da parte dell’appaltatrice, avente efficacia limitata all’esercizio finanziario in cui era presentata, mentre il secondo ne limitava l’ammissibilità ai prezzi unitari relativi al servizio energia, per la quota afferente al combustibile, individuando quale parametro di riferimento i prezzi del combustibile fissati dalla CCIA di Roma per il gasolio ed il metano, e consentendo l’adeguamento annuale degli altri prezzi a partire dal terzo anno del rapporto, a condizione che l’indice Istat dei prezzi al consumo per le famiglie di impiegati ed operai avesse subìto un aumento pari o superiore al 5% rispetto alla data di presentazione dell’offerta.
La puntualità di tali disposizioni, volte a circoscrivere rigorosamente l’ambito di applicazione della revisione dei prezzi e ad individuarne i presupposti e le modalità di calcolo, consentendo di escludere la sussistenza di qualsiasi margine di discrezionalità dell’Amministrazione in ordine sia al riconoscimento del relativo diritto che alla quantificazione del relativo importo, fa apparire giustificata l’affermazione della spettanza della controversia alla giurisdizione del Giudice ordinario, conformemente al principio, enunciato dalla giurisprudenza di legittimità in tema di appalti pubblici, secondo cui la giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo in materia di riconoscimento del compenso revisionale, ai sensi dell’art. 133, comma primo, lett. e) , n. 2 cod. proc. amm., sussiste nell’ipotesi in cui il contenuto della relativa clausola implichi la permanenza di una posizione di potere in capo all’Amministrazione committente, attribuendo a quest’ultima uno spettro di valutazione discrezionale nel disporre la revisione, laddove, nella contraria ipotesi in cui la clausola individui puntualmente e compiutamente un obbligo della parte pubblica del contratto, deve riconoscersi la corrispondenza di tale obbligo ad un diritto soggettivo dell’appaltatore, il quale fa valere una mera pretesa di adempimento contrattuale, come tale ricadente nell’ambito della giurisdizione ordinaria (cfr. Cass., Sez. Un. 22/11/2021, n. 35952; 12/10/2020, n. 21990; 1/ 02/2019, n. 3160).
E’ invece fondato il primo motivo del ricorso principale, avente ad og-
getto l’interpretazione dell’atto d’obbligo sottoscritto dalle parti il 14 aprile 2013.
Ai fini della qualificazione del predetto atto come proroga, anziché come rinnovazione dell’originario contratto di appalto, la sentenza impugnata ha richiamato quella di primo grado, la quale, dopo aver riportato la premessa dell’accordo, in cui si dava atto dell’obbligo, imposto dall’art. 1 del d.l. n. 95 del 2012 alle Pubbliche Amministrazioni, di uniformarsi alle condizioni previste dalle convenzioni Consip e dalle Centrali di committenza regionali, anche per i contratti conclusi in epoca anteriore all’entrata in vigore della nuova disciplina, e della volontà delle parti di assumere iniziative volte alla rimodulazione degli accordi contrattuali, aveva posto in risalto il tenore letterale dell’art. 1, con cui le parti avevano convenuto la «proroga annuale del contratto di appalto con gli stessi patti, prezzi e condizioni, fatte salve le integrazioni di cui al presente accordo, le quali sono da ritenersi automaticamente recepite ” ope legis ” e, per ciò stesso, da considerarsi tassativamente vincolanti per i contraenti», e aveva concluso che le parti avevano inteso esclusivamente prorogare la durata del contratto, rispetto alla quale l’accettazione dei nuovi importi eventualmente previsti in base ai tariffari Consip costituiva «un mero adeguamento alla nuova disciplina, pena l’adozione, in difetto di consenso alle modifiche sul corrispettivo, di misure incidenti sulla stessa proroga del rapporto». A conforto di tale interpretazione, era stata citata anche la successiva determinazione dirigenziale n. 1752 del 15 aprile 2013, nella quale si parlava esclusivamente di proroga del contratto, alle nuove condizioni pattuite, ritenute dalle parti configurabili come «doverosi adeguamenti consensualmente disposti in ottemperanza alle vigenti disposizioni»: ritenendo condivisibili tali considerazioni, la Corte d’appello ha confermato che il recepimento della nuova disciplina in tema di contenimento della spesa per la Pubblica Amministrazione comportava per l’RAGIONE_SOCIALE un mero impegno ad uniformare i corrispettivi dell’appalto ai minori importi eventualmente previsti dai tariffari Consip, che non si era tradotto in alcuna modifica dei prezzi contrattuali, come confermato anche dal certificato di collaudo provvisorio.
In quanto imperniato sulla ricostruzione del significato letterale delle
espressioni utilizzate dalle parti, considerate sia isolatamente che nella loro concatenazione, rispetto alla cui valutazione anche il richiamo alla determinazione dirigenziale riveste una portata piuttosto marginale, il procedimento ermeneutico seguito dalla sentenza impugnata può considerarsi sostanzialmente in linea con l’orientamento della giurisprudenza di legittimità in tema d’interpretazione dei contratti degli enti pubblici, il quale muove dalla sottolineatura dell’essenzialità della forma scritta, prescritta a pena di nullità per la stipulazione di tali contratti, per affermare la prevalenza assoluta del criterio letterale rispetto agli altri previsti dagli artt. 1362 e ss. cod. civ., escludendo quindi la possibilità di desumere la volontà delle parti da elementi extratestuali, siano essi costituiti dal comportamento tenuto dalle parti successivamente alla conclusione del contratto, ritenuto inidoneo ad evidenziare la formazione di un consenso al di fuori del documento scritto (cfr. Cass., Sez. II, 15/05/2018, n. 11828; 7/06/2011, n. 12297; Cass., Sez. I, 9/05/2018, n. 11190), oppure dalla deliberazione di autorizzazione a contrarre, ritenuta configurabile come un mero atto interno, attinente alla fase preparatoria del negozio (cfr. Cass., Sez. I, 14/02/2019, n. 4509; 28/05/2018, n. 13301; Cass., Sez. III, 24/07/2013, n. 17946).
L’ iter logico-giuridico seguito dalla sentenza impugnata non può tuttavia essere condiviso nella parte in cui, pur avendo dato atto dell’automatico recepimento ope legis della disciplina introdotta dal d.l. n. 95 del 2012, ed avendone espressamente riconosciuto la vincolatività per i contraenti, ha negato alla stessa qualsiasi concreta rilevanza, quanto meno sotto il profilo economico, affermando che al differimento della scadenza originariamente prevista non aveva fatto riscontro alcuna modifica del rapporto, ed in particolare dei prezzi contrattuali, avendo le parti richiamato i patti, i prezzi e le condizioni precedentemente concordati, ed essendosi l’appaltatrice limitata ad assumere un mero impegno ad uniformarsi ai minori importi eventualmente previsti dai tariffari Consip, e comunque ad utilizzare ogni strumento tecnico ed ogni accortezza per il contenimento della spesa entro i limiti previsti dalle vigenti disposizioni di legge. Tale affermazione non tiene conto del carattere inderogabile delle disposizioni dettate dal d.l. n. 95 del 2012, ed in particolare dell’art. 1, comma tredicesimo, applicabile ai contratti già stipulati dalle Am-
ministrazioni pubbliche, la cui disciplina, destinata ad inserirsi automaticamente nei contratti in corso, ai sensi dell’art. 1339 cod. civ., anche in deroga alle clausole difformi eventualmente apposte dalle parti, consentiva all’Amministrazione d’intervenire direttamente sulle condizioni contrattuali, provocando la modifica delle stesse, ai fini dell’adeguamento agli obiettivi di contenimento della spesa pubblica previsti dalla legge, o lo scioglimento del rapporto, in caso di rifiuto da parte dell’appaltatore di consentirvi. La norma in esame attribuiva infatti alle Amministrazioni pubbliche che avessero validamente stipulato un autonomo contratto di fornitura o di servizi il diritto di recedere in qualsiasi tempo (previa formale comunicazione all’appaltatore con preavviso non inferiore a quindici giorni e previo pagamento delle prestazioni già eseguite, oltre al decimo delle prestazioni non ancora eseguite) nel caso in cui, tenuto conto anche dell’importo dovuto per le prestazioni non ancora eseguite, le condizioni pattuite fossero risultate peggiori di quelle delle convenzioni stipulate dalla Consip ai sensi dell’art. 26, comma primo, della legge 23 dicembre 1999, n. 488, e l’appaltatore non avesse acconsentito ad una modifica. L’espresso richiamo di tale disciplina, nella premessa dell’atto d’obbligo stipulato il 14 aprile 2013, posto anche in relazione con l’assunzione del predetto impegno da parte dell’appaltatrice, in occasione del differimento della scadenza del rapporto, avrebbe dovuto indurre la Corte territoriale ad interrogarsi in ordine alla compatibilità dell’integrazione apportata al testo negoziale con la sopravvivenza dell’accordo originariamente intervenuto in ordine all’ammissibilità della revisione dei prezzi, il quale, rendendo possibile l’adeguamento delle condizioni economiche pattuite, sia pure nei limiti specificamente convenuti, sarebbe potuto risultare inconciliabile con gli obiettivi di contenimento della spesa perseguiti dalla normativa richiamata, potendo ben condurre al superamento degl’importi eventualmente previsti dai tariffari Consip.
8. La sentenza impugnata va pertanto cassata, in accoglimento del primo motivo del ricorso principale, restando assorbite le censure proposte con il ricorso incidentale, riguardanti l’individuazione del tasso d’interesse applicabile al credito fatto valere dall’attrice.
La causa va conseguentemente rinviata alla Corte d’appello di Roma, che