Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 23255 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 23255 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 14/08/2025
SENTENZA
sul ricorso n. 19402/2020 r.g. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, che ha incorporato per fusione la RAGIONE_SOCIALE rappresentata e difesa, in virtù di procura speciale, dall’Avv. NOME COGNOME e dall’Avv. NOME COGNOME i quali dichiarano di voler ricevere le comunicazioni e le notificazioni relative al presente procedimento agli indirizzi di posta elettronica certificata indicati
-ricorrente –
contro
Comune dell’Aquila , in persona del sindaco legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avv. NOME COGNOME e dall’Avv. NOME COGNOME i quali dichiarano di voler ricevere le comunicazioni
delle notificazioni relative al presente procedimento agli indirizzi di posta elettronica certificata indicati, elettivamente domiciliato in Roma, INDIRIZZO presso l’Avv. NOME COGNOME
-controricorrente e ricorrente incidentale-
avverso la sentenza della Corte di appello dell’Aquila n. 717/2020, depositata in data 20 maggio 2020;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 26/6/2025 dal Consigliere dott. NOME COGNOME
RILEVATO CHE
La RAGIONE_SOCIALE citava in giudizio il Comune dell’Aquila per la condanna al pagamento della somma di euro 19.437.555,81, in relazione a cinque riserve iscritte oltre ad euro 2.200.536,21, per il ritardato pagamento della quota di lire 36.978.000.000 pari al corrispettivo della concessione.
In particolare, la società allegava che il contratto originario era stato stipulato tra RAGIONE_SOCIALE ed il Comune dell’Aquila per la costruzione di un parcheggio pubblico sotterraneo e sottopassi di collegamento.
Successivamente RAGIONE_SOCIALE aveva ceduto il ramo d’azienda a RAGIONE_SOCIALE che, a sua volta, aveva ceduto il ramo d’azienda ad RAGIONE_SOCIALE con la successiva cessione a RAGIONE_SOCIALE, il 28/6/2002, con comunicazione al Comune dell’Aquila del 2/9/2002.
Venivano iscritte cinque riserve: la prima per protrazione dei lavori di 44 mesi, con danni subiti da RAGIONE_SOCIALE per lire 19.961.408.441, pari ad euro 10.309.207,10; la seconda riserva atteneva al ritardo nel rilascio della garanzia da parte del Comune, al fine di consentire alla società di ottenere il finanziamento richiesto;
la quarta riserva riguardava le variazioni di prezzo; la quinta riserva il ritardo nel collaudo.
La terza riserva non è oggetto del giudizio di legittimità.
1.1. RAGIONE_SOCIALE rilevava che, all’interno dell’ATI, le spettava solo il 51% della somma, mentre l’8% spettava alla RAGIONE_SOCIALE (prima RAGIONE_SOCIALE) ed il residuo 41% era ad appannaggio della RAGIONE_SOCIALE, dichiarata fallita, per la quale si era estinto il rapporto di mandato.
Si costituiva in giudizio il Comune dell’Aquila chiedendo, per quel che ancora qui rileva, il rigetto della domanda, in quanto la concessionaria avrebbe dovuto svolgere adeguate indagini geologiche e geognostiche, sicché il preteso danno da ritardo era imputabile proprio alla concessionaria.
Il tribunale dell’Aquila reputava fondata in parte la prima riserva, dovendosi imputare all’ATI quattro proroghe, in assenza di adeguati studi geologici, mentre una porzione della prima riserva, in ordine alle proroghe, era imputabile al Comune, e segnatamente la proroga di cui alla delibera del 16/7/1996 (la prima proroga era del 30/4/1992; la seconda proroga era del 18/3/1994; la terza proroga era del 18/10/1994; la quarta proroga era del 2/11/1995).
La quinta proroga era del 16/7/1997, della durata di 368 giorni. Per essa si riconosceva la somma di euro 1.442.502,73
3.1. Il tribunale riteneva fondata anche la seconda riserva per ritardo da parte dell’ente territoriale nel rilascio della garanzia, necessaria per consentire alla società di ottenere dalla banca il finanziamento per l’esecuzione dell’opera.
Per il periodo di ritardo dal 14/9/1996 al 24/2/1998, data di stipula del contratto previa garanzia del Comune dell’Aquila, la somma veniva calcolata in euro 1.462.035,09.
3.2. Quanto alla terza riserva, la stessa era reputata infondata, ma non veniva proposto appello incidentale da parte della società.
3.3. Il tribunale riteneva fondata la quarta riserva, relativa alla variazione dei prezzi tra l’aggiudicazione e l’esecuzione del contratto.
Il Comune dell’Aquila aveva riconosciuto la sussistenza della variazione dei prezzi, ma vi era un errore sui calcoli di quanto spettasse alla società.
La società chiedeva lire 10.851.000.275,107, mentre il Comune aveva riconosciuto la somma di lire 4.566.233.084, già versata.
Per il tribunale la giurisdizione spettava al giudice ordinario, in quanto c’era stato il riconoscimento della variazione dei prezzi con la delibera di giunta comunale dell’8/4/2003.
3.4. Veniva ritenuta non fondata la quinta riserva, in ordine al ritardo nel collaudo, essendo stati i lavori ultimati il 19/7/1996, mentre il collaudo era stato effettuato l’8/4/2003, con un ritardo di mesi 68,6.
La responsabilità del ritardo era però della società, che non aveva effettuato adeguate indagini geologiche e geognostiche.
Avverso tale sentenza proponeva appello principale il Comune.
4.1. In particolare, il Comune censurava la sentenza di prime cure con riferimento alla prima riserva, avente ad oggetto la proroga del 16/7/1996 per un tempo pari a 368 giorni, per danni quantificati in euro 1.442.502,73.
4.2. Con altro motivo di gravame il Comune contestava la decisione di primo grado in relazione alla seconda riserva, relativa al ritardo per il rilascio della garanzia da parte dell’ente territoriale, al fine di consentire il finanziamento bancario in favore della società concessionaria.
Deduceva che, ai sensi dell’art. 49 del d.lgs. n. 77 del 1995, quale disciplina sopravvenuta, era vietato da parte degli enti territoriali il rilascio della garanzia prevista nel contratto.
Mancava, peraltro, il nesso causale tra condotta e danno, oltre all’assenza della prova del danno. Inoltre, era stata applicata due volte la rivalutazione, sia in ordine al danno emergente che con riferimento al lucro cessante.
4.3. Il Comune sollevava poi questione di giurisdizione per la quarta riserva, relativa alla variazione dei prezzi.
Proponeva appello incidentale la società, sia con riferimento alla prima riserva, con la richiesta di danni per tutte le cinque proroghe, e non solo per la specifica proroga di cui alla delibera del 16/7/1996, sia in relazione alla quinta riserva, avente ad oggetto il ritardo nel collaudo; vi sarebbe stata responsabilità del Comune per il superamento del termine annuale fissato dal contratto (art. 12) e dall’art. 5 della legge n. 741 del 1981.
La Corte d’appello dell’Aquila con sentenza n. 717/2020, pubblicata il 20/5/2020, accoglieva parzialmente l’appello principale del Comune e l’appello incidentale della società.
6.1. Con riguardo alla prima riserva (danni da ritardi per proroghe), la Corte territoriale accoglieva l’appello principale del Comune, ponendo a carico della società anche la responsabilità per la proroga concessa con la delibera di giunta comunale del 16/7/1996.
Rigettava l’appello incidentale della società, in quanto era carente lo studio geologico del terreno. Non era peraltro stato stipulato il contratto scritto per la concessione della proroga, ai sensi dell’art. 31 del d.P.R. n. 1063 del 1962.
6.2. Con riferimento alla seconda riserva (mancata concessione della garanzia da parte del Comune), rigettava l’appello principale dell’ente territoriale.
Effettivamente il Comune non aveva rilasciato la dovuta garanzia, necessaria al fine dell’ottenimento del finanziamento bancario da parte della società.
Peraltro, l’art. 49 del d.lgs. n. 77 del 1995 era una norma sopravvenuta, sicché non poteva trovare applicazione.
Aggiungeva la Corte di merito che la garanzia, seppure in ritardo, era stata però prestata, a conferma della piena possibilità per il Comune di rilasciarla.
Vi era prova del nesso causale, come del danno, in base alle risultanze della CTU espletata.
Non vi era stata doppia rivalutazione, del danno emergente e del lucro cessante, dovendosi considerare, per la quantificazione del lucro cessante, la perdita di utile del 10%, ex art. 32, comma 2, lettera c), del d.P.R. n. 207 del 2010.
6.3. In relazione alla quarta riserva, la Corte territoriale reputava sussistere la giurisdizione del giudice amministrativo, in accoglimento dell’appello principale del Comune.
Per la Corte d’appello il riconoscimento della variazione dei prezzi vi era stato solo per un periodo limitato, dall’1/1/1991 in poi, ma non per il periodo anteriore, a decorrere dal 1/9/1986, data dell’aggiudicazione del contratto.
Ciò imponeva, per il periodo antecedente al 1/1/1991, la giurisdizione del giudice amministrativo, stante la discrezionalità del potere amministrativo in ordine al riconoscimento della variazione dei prezzi.
6.4. Con riguardo alla quinta riserva, il giudice di secondo grado rigettava l’appello incidentale dell’impresa, confermando, in ordine
alla responsabilità per il ritardo nell’effettuazione del collaudo, il deliberato di prima istanza, mancando le indagini geologiche, che dovevano essere effettuate dalla società concessionaria.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso principale per cassazione la RAGIONE_SOCIALE poi RAGIONE_SOCIALE
Ha resistito con controricorso il Comune dell’Aquila, proponendo anche ricorso incidentale.
Ha resistito al ricorso incidentale da RAGIONE_SOCIALE che ha incorporato per fusione la RAGIONE_SOCIALE, con efficacia dal 1° settembre 2020.
CONSIDERATO CHE
Con il primo motivo di ricorso principale la società deduce «sul capo della sentenza che ha erroneamente ritenuto che l’appaltatore non avesse diritto, con riguardo alla riserva n. 1, al pagamento dei maggiori oneri: violazione e falsa applicazione dell’art. 31 del d.P .R. 1063/1962, dell’art. 17 del regio decreto n. 350/1985 e dell’art. 16 del regio decreto n. 2440/1923, con riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.».
In particolare, la Corte territoriale ha escluso del tutto la sussistenza del diritto della società ai danni per i ritardi provocati dalle proroghe concesse (5 proroghe), avendo accolto anche l’appello principale del Comune in ordine alla quinta proroga, concessa con delibera del 16/7/1996.
La Corte d’appello ha ritenuto mancante idoneo contratto scritto per la concessione della proroga.
Per la Corte di merito la delibera della giunta comunale, in quanto atto di natura endoprocedimentale di carattere non negoziale, non sarebbe stato idoneo a modificare il termine di ultimazione delle opere previsto nel contratto e, conseguentemente, a fondare la richiesta di maggiori oneri.
In realtà, ad avviso della ricorrente, non si trattava della «novazione del termine», ma esclusivamente di un «termine suppletivo», che si verifica quando il prolungamento del termine di ultimazione dei lavori si rende necessario per il verificarsi di fatti che rendono impossibile il rispetto del termine originariamente previsto da parte dell’appaltatore.
In tal caso, è pacifico che i maggiori oneri che l’impresa ha sopportato in ragione del protrarsi dei lavori devono essere equamente compensati.
Nella specie, si sarebbe trattato di fatti imputabili alla p.a., per cui l’organo competente era proprio la giunta comunale.
Il motivo è inammissibile.
In realtà, la motivazione della sentenza della Corte d’appello poggiava su due distinte rationes decidendi .
Da un lato, la Corte territoriale ha ritenuto la necessità della forma scritta ad substantiam , propria dei contratti pubblici, ai fini della concessione della proroga, ai sensi dell’art. 16 del regio decreto n. 2440 del 1923, mentre, nella specie «la modificazione dei termini di esecuzione, peraltro richiesta anche questa, come negli altri quattro casi, dal concessionario, non è mai avvenuta mediante il prescritto strumento della modifica contrattuale».
Dall’altro, però, la Corte di merito ha evidenziato la sussistenza della responsabilità della concessionaria per non aver svolto idonee indagini geologiche sul terreno (pag. 11 della sentenza «quanto sopra osservato vale vieppiù per le altre proroghe, già ritenute in prime cure imputabili alla RAGIONE_SOCIALE che, in proposito, ha nuovamente rilevato che le cause del ritardo rientravano in tre principali tipologie l’imprevisto geologico sopravvenuto sia nel parcheggio che nella galleria pedonale»).
Ha chiarito, infatti, il giudice di secondo grado che «in realtà ed a prescindere dal sopra indicato rilievo del difetto di forma, senz’altro dirimente, il giudice è andato al di là del testo delle delibere autorizzative, posto che ha considerato anche le cause che hanno determinato la richiesta di proroga, peraltro tutte effettuate dall’ATI e concesse sempre per periodi più brevi di quello di volta in volta richiesto, ritenute imputabili alla richiedente, e quindi non foriere di risarcimento, per essere state determinate in maniera incisiva dal dissesto del collettore fognario sottostante il parcheggio ed alla geologia del terreno sul quale costruire, che dovevano essere accertati dalla concessionaria con i necessari rilievi geognostiche e studi sul terreno ».
Tale seconda ratio decidendi non è stata in alcun modo censurata da parte della ricorrente, con conseguente inammissibilità del motivo.
Per questa Corte, dunque, nel caso in cui venga impugnata con ricorso per cassazione una sentenza (o un capo di questa) che si fondi su più ragioni, tutte autonomamente idonee a sorreggerla, è necessario, per giungere alla cassazione della pronuncia, non solo che ciascuna di esse abbia formato oggetto di specifica censura, ma anche che il ricorso abbia esito positivo nella sua interezza con l’accoglimento di tutte le censure, affinché si realizzi lo scopo proprio di tale mezzo di impugnazione, il quale deve mirare alla cassazione della sentenza, “in toto” o nel suo singolo capo, per tutte le ragioni che autonomamente l’una o l’altro sorreggano.
Ne consegue che è sufficiente che anche una sola delle dette ragioni non abbia formato oggetto di censura, ovvero, pur essendo stata impugnata, sia respinta, perché il ricorso o il motivo di impugnazione avverso il singolo capo di essa, debba essere respinto nella sua interezza, divenendo inammissibili, per difetto di interesse,
le censure avverso le altre ragioni poste a base della sentenza o del capo impugnato (Cass., sez. 1, 27/7/2017, n. 18641; Cass., sez. 1, 18/4/1998, n. 3951; Cass., sez. 1, 18/9/2006, n. 20118; Cass., Sez.Un., 8/8/2005, n. 16602).
4. Con il secondo motivo di ricorso principale si deduce «sul capo della sentenza che ha rigettato l’appello incidentale promosso dall’odierna ricorrente che, per l’effetto, ha ritenuto assorbito anche quello dalla stessa formulato in via subordinata, aventi entrambi ad oggetto, ai fini del risarcimento del danno, l’entità temporale delle proroghe oggetto della riserva n. 1. Violazione e falsa applicazione dell’art. 31 del d.P.R. n. 1063/1962, dell’art. 1664, secondo comma, c.c., e degli articoli 132,115 e 116 del codice di procedura civile, con riferimento all’art. 360, primo comma, numeri 3 e 5, c.p.c.».
Per la ricorrente principale la Corte d’appello si è limitata ad affermare la non fondatezza della prima riserva, che poggiava sui ritardi connessi alle proroghe concesse, esclusivamente perché le proroghe erano «state determinate in maniera incisiva dal dissesto del collettore fognario sottostante il parcheggio ed alla geologia del terreno sul quale costruire, che dovevano essere accertati dalla concessionaria con i necessari rilievi geognostici e studi sul terreno».
Tuttavia, ad avviso della ricorrente principale, nel giudizio di primo grado, il tribunale non aveva svolto alcun accertamento al riguardo, essendosi limitato a ritenere che «come sottolineato anche dal CTU, le proroghe erano imputabile all’ATI, essendo determinate in maniera incisiva dal dissesto del collettore fognario sottostante il parcheggio ed alla geologia del terreno sul quale costruire l’opera».
La Corte d’appello ha, in sostanza, aderito acriticamente alla pronuncia di prime cure.
La Corte territoriale non avrebbe accertato se le cause geologiche erano o meno prevedibili dalle parti, con l’ausilio di strumenti, conoscenze e procedure normali (si cita Cass. n. 28812 del 2013).
La motivazione della sentenza della Corte d’appello sarebbe solo apparente.
Il giudice di secondo grado non si è soffermato sul carattere prevedibile o imprevedibile degli eventi che hanno determinato il dissesto del collettore fognario.
Mancherebbe nella sentenza qualunque valutazione in ordine al grado di diligenza impiegato da RAGIONE_SOCIALE nell’esecuzione delle opere.
Peraltro, il direttore dei lavori, dopo aver analizzato le principali cause del protrarsi dei lavori, avrebbe concluso nel senso che le riserve «in discorso hanno, in effetti, una certa ragione e che alcune delle relative domande appaiono meritevoli di accoglimento, sia pure nei limiti che appresso si diranno».
5. Il motivo è infondato.
In realtà, la Corte territoriale ha fatto esatta applicazione dei principi giurisprudenziali in materia, con riferimento alla responsabilità dell’appaltatore per la sorpresa geologica.
Si è, infatti, ritenuto che nell’appalto, sia pubblico che privato, rientra tra gli obblighi dell’appaltatore, senza necessità di una specifica pattuizione, il controllo della validità tecnica del progetto fornito dal committente, anche in relazione alle caratteristiche del suolo su cui l’opera deve sorgere, posto che dalla corretta progettazione, oltre che dall’esecuzione dell’opera, dipende il risultato promesso, sicché la scoperta in corso d’opera di peculiarità geologiche del terreno tali da impedire l’esecuzione dei lavori, non può essere invocata dall’appaltatore per esimersi dall’obbligo di accertare le caratteristiche idrogeologiche del terreno sul quale
l’opera deve essere realizzata e per pretendere una dilazione o un indennizzo, essendo egli tenuto a sopportare i maggiori oneri derivanti dalla ulteriore durata dei lavori, restando la sua responsabilità esclusa solo se le condizioni geologiche non siano accertabili con l’ausilio di strumenti, conoscenze e procedure normali (Cass., sez. 1, 26/2/2020, n. 5144).
Si è anche osservato che, in tema di lavori pubblici, la l. n. 109 del 1994 e il d.P.R. n. 554 del 1999, applicabili ” ratione temporis “, prevedono l’obbligatoria acquisizione da parte della stazione appaltante della relazione geologica tra gli atti progettuali della gara; in assenza di essa, tuttavia, ove venga ugualmente stipulato il contratto di appalto, l’impresa appaltatrice non può agire per la risoluzione ex art. 1453 c.c. facendo valere l’inadempimento della committenza nella precedente fase di gara, poiché rientra tra i suoi obblighi di diligenza controllare la validità tecnica del progetto e, nella fase successiva, la stessa impresa è tenuta a segnalare le omissioni progettuali, ai fini dell’adozione di varianti in corso d’opera, in adempimento del dovere di collaborazione che presiede allo svolgimento del rapporto (Cass., sez. 1, 15/2/2021, n. 3839).
L’appaltatore può andare esente da responsabilità solamente ove le condizioni geologiche non risultino in concreto accertabili con l’ausilio di strumenti, conoscenze e procedure ‘normali’ avuto riguardo alla specifica natura e alle peculiarità dell’attività esercitata (Cass., sez. 2, 12/6/2018, n. 15321; Cass., sez. 2, 21/11/2016, n. 23665).
Con l’ulteriore corollario per cui in materia di appalto, rientra tra gli obblighi di diligenza dell’appaltatore esercitare il controllo della validità tecnica del progetto fornito dal committente, di cui costituisce parte integrante – ai sensi del d.m. 11 marzo 1988, che disciplina i progetti relativi a gallerie e manufatti sotterranei – la
relazione contenente i risultati delle indagini geologiche fondanti la scelta dell’ubicazione e del tracciato dell’opera e la previsione dei metodi di scavo, sicché permane in sede esecutiva l’obbligo dell’appaltatore di segnalare al committente le inesattezze delle informazioni risultanti dalla relazione geologica, al fine di promuovere le modifiche progettuali necessarie per la buona riuscita dell’opera (Cass., sez. 1, 31/12/2013, n. 28812).
Pertanto, in caso di appalto pubblico, poiché la validità di un progetto di una costruzione edilizia è condizionata dalla sua rispondenza alle caratteristiche geologiche del suolo su cui essa deve sorgere, il controllo dell’appaltatore deve essere esteso a tale aspetto del progetto, ove questo gli fosse stato fornito dal committente, dovendo egli rispondere dei vizi e delle deficienze dell’opera, pur se ascrivibili alla imperfetta od erronea progettazione. I limiti a tale responsabilità sono quelli generali in tema di responsabilità contrattuale, rilevando il difetto dell’ordinaria diligenza (Cass., sez. 1, 18/2/2008, n. 3932).
Per tale ragione, solo se le condizioni geologiche non fossero state accertabili con l’ausilio di strumenti e conoscenze normali l’appaltatore poteva andare esente da responsabilità. Di qui, la conclusione per cui la ‘sorpresa geologica’ quale sarebbe stata la scoperta in corso d’opera di peculiarità geologiche del terreno, non può essere invocata dall’appaltatore per esimersi dall’obbligo, che gli è propria, di accertare le caratteristiche idrogeologiche del terreno (Cass., sez. 1, 18/2/2008, n. 3932).
La Corte d’appello, come osservato in precedenza, ha affermato che le proroghe erano state «determinate in maniera incisiva dal dissesto del collettore fognario sottostante il parcheggio e dalla geologia del terreno sul quale costruire, che dovevano essere accertati dalla concessionaria con i necessari rilievi diagnostici e studi
sul terreno e, del resto, la RAGIONE_SOCIALE si era attivata per evitare che l’inconveniente relativo al manufatto fognario comunale potesse avere ripercussioni negative sulle opere realizzate».
Peraltro, come riportato nel motivo di ricorso per cassazione, anche il tribunale, pur se riconoscendo soltanto quattro riserve su cinque, aveva riscontrato che «come sottolineato anche dal CTU, le proroghe erano imputabile all’ATI, essendo determinate in maniera incisiva dal dissesto del collettore fognario sottostante il parcheggio e dalla geologia del terreno sul quale costruire l’opera», quindi con riferimento ad eventi in relazione ai quali «vi erano stati rilievi geognostici e studi sul terreno, di talché non è possibile riconoscere il predetto ristoro alla RAGIONE_SOCIALE».
Va, peraltro, aggiunto che sarebbe stato onere della ricorrente indicare, a fronte della decisione del tribunale, la imprevedibilità delle difficoltà di natura geologica riscontrate.
Senza contare che il dissesto del collettore fognario sottostante il parcheggio è stato evidentemente ritenuto dalla Corte d’appello come evento prevedibile.
In questo contesto si colloca allora l’art. 31 del d.P.R. n. 1063 del 1962, con riferimento all’istituto della proroga, ove si sancisce che «l’appaltatore, qualora per causa ad esso non imputabile non sia in grado di ultimare i lavori nel termine fissato, può chiedere con la domanda motivata proroghe che, se riconosciute giustificate, sono concesse dall’Amministrazione purché le domande pervengano prima della scadenza del termine anzidetto. La concessione della proroga non pregiudica i diritti che possono competere all’appaltatore per il fatto che la maggior durata dei lavori sia imputabile all’Amministrazione».
Nella specie, però, come detto, la responsabilità delle cinque proroghe era imputabile proprio alla società concessionaria, che non aveva effettuato idonei studi geologici del territorio.
6. Con il terzo motivo di ricorso principale si deduce «sul capo della sentenza che ha riformato la decisione di primo grado in punto di quantificazione dell’importo dovuto all’appaltatore a titolo di revisione prezzi e su quello ad esso connesso avente ad oggetto la corresponsione degli interessi moratori ex art. 35 del Cap. Gen.OO.PP., dichiarando il difetto di giurisdizione del giudice ordinario. Violazione degli articoli 132 e 115 del codice di procedura civile, dell’art. 4 del d.lgs. 1501 del 1947, dell’art. 2 della legge n. 37 del 1973 e dell’art. 33 della legge 41 del 1986, con riferimento all’art. 360, primo comma, numeri 1 e 3, c.p.c.».
Per la ricorrente principale ha errato la Corte territoriale nell’affermare il difetto di giurisdizione del giudice ordinario in favore del giudice amministrativo. In realtà, trattandosi di revisione dei prezzi, da un lato, v’è stato il riconoscimento espresso della revisione, come risulta dal certificato di collaudo – riguardante l’intera opera – di cui alla delibera della giunta comunale n. 266 dell’8/6/2006 (vedi pagina 36 nota 31 del ricorso per cassazione, doc. 14 e 15), ove la commissione tecnica ha dato atto che era stata corrisposta all’appaltatore la somma di lire 4.566.233.084, a titolo di revisione dei prezzi, e, dall’altro, vi è stato anche il riconoscimento implicito della revisione dei prezzi da parte della pubblica amministrazione, con il pagamento degli acconti di cui ai SAL n. 33,35,36,37,40,51,55,61 e 62 (pag. 36 nota 31, doc. 18).
L’unico errore commesso dal giudice di prime cure atteneva alla decorrenza della revisione dei prezzi, che doveva essere individuata nella data dell’1/9/1986, data di aggiudicazione del contratto, e non in quella – «del tutto arbitraria» – dell’1/1/1991.
La delibera di giunta comunale n. 266 dell’8/6/2006 ha riguardato l’intera opera, dovendosi considerare che la stessa proviene dall’organo deliberativo competente ed ha ad oggetto l’approvazione del certificato di collaudo il quale, a sua volta, «riguarda il complesso delle opere appaltate non una parte di esse».
La Corte territoriale, erroneamente, ha ritenuto sussistere la giurisdizione del giudice amministrativo, «in quanto mancava agli atti un provvedimento della Giunta Comunale volto a riconoscere a IMPREPAR il diritto alla revisione dei prezzi con riguardo all’intera opera».
In realtà, con la delibera di giunta comunale n. 266 del 2006 si è approvato il certificato di collaudo, riconoscendo all’impresa il diritto al compenso revisionale con riguardo all’intera opera non ad una sola parte di essa.
L’ulteriore errore in cui sarebbe incorsa la Corte d’appello sarebbe consistito nell’aver ritenuto che nel caso di specie non si era formato neppure il riconoscimento implicito del diritto di IMPREPAR alla revisione dei prezzi con riguardo all’intera opera.
Nella sentenza della Corte d’appello non vi sarebbe «alcuna motivazione volta a spiegare le ragioni per le quali sarebbe stato possibile ipotizzare, da parte dell’amministratore comunale, un riconoscimento solo parziale del diritto di IMPREPAR alla revisione dei prezzi».
La Corte d’appello omette di spiegare l’errore in cui sarebbe incorso il giudice di prime cure, laddove ha ritenuto, sulla base dei documenti prodotti, e segnatamente alla stregua della delibera della giunta comunale n. 266 dell’8 giugno 2006, ed in base ai risultati della CTU espletata, che la revisione dei prezzi era stata accordata «dall’amministrazione comunale con riferimento all’intera opera».
La Corte d’appello, in realtà, avrebbe desunto la giurisdizione del giudice amministrativo esclusivamente sulla base del contenuto della domanda di RAGIONE_SOCIALE
Per la ricorrente principale, invece, dal contenuto della domanda di RAGIONE_SOCIALE emergerebbe l’esatto contrario, in quanto l’impresa si sarebbe limitata a chiedere che fosse operato un diverso conteggio del compenso revisionale «pacificamente riconosciutogli assumendo come termine iniziale di calcolo quello previsto inderogabilmente dal combinato disposto di cui agli articoli 2 della legge n. 37 del 1973 e 33, della legge n. 41 del 1986».
La Corte d’appello, dunque, non ha motivato o ha solo apparentemente motivato il proprio convincimento «in ordine al carattere parziale del riconoscimento espresso dal Comune di L’Aquila in ordine alla revisione dei prezzi».
La Corte territoriale non ha spiegato le ragioni per cui il pagamento incondizionato dei compensi revisionali in corso d’opera, unitamente alla menzione del riconoscimento del diritto alla revisione dei prezzi nei documenti contabili, non fossero sufficienti a dimostrare il diritto alla revisione «con riguardo all’intera opera».
Sarebbe stato travisato il petitum sostanziale della domanda formulata da RAGIONE_SOCIALE, che non era volta ad ottenere la revisione dei prezzi diversi da quelli approvati, almeno implicitamente dal Comune dell’Aquila, ma solo «ad ottenere il semplice ricalcolo dei compensi a tale titolo accordati e liquidati, con decorrenza dalla data di aggiudicazione delle opere e non dalla diversa data impiegata dalla Direzione Lavori».
All’esito delle operazioni peritali svolte, in primo grado, sia il CTU che il CTP di parte RAGIONE_SOCIALE hanno convenuto sul fatto che i calcoli eseguiti dall’impresa divergevano da quelli operati dalla direzione
lavori sotto due soli profili, i quali però attenevano al quantum della pretesa revisionale e non all’ an .
Le divergenze riguardavano le seguenti circostanze: l’impresa aveva calcolato le variazioni percentuali dei prezzi con riferimento alla data di aggiudicazione delle opere, ovvero il 1° settembre 1986, mentre il Direttore Lavori aveva considerato una data diversa e del tutto arbitraria, ovvero il 1° gennaio 1991; il secondo aspetto, invece, riguardava i lavori considerati ai fini del calcolo revisionale, avendo l’impresa considerato il reale andamento dei lavori, risultante dai SAL, mentre il direttore dei lavori aveva eseguito il conteggio basandosi sul programma redatto ai sensi della legge n. 741 del 1998.
7. Il motivo è fondato.
7.1. Deve premettersi che l’art. 374 c.p.c. va interpretato nel senso che, tranne nei casi di impugnazione delle decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti, i ricorsi che pongono questioni di giurisdizione possono essere trattati dalle sezioni semplici allorché sulla regola finale di riparto della giurisdizione «si sono già pronunciate le sezioni unite», ovvero sussistono ragioni di inammissibilità inerenti alla modalità di formulazione del motivo (ad esempio, per inosservanza dei requisiti di cui all’art. 366 c.p.c., difetto di specificità, di interesse etc.) ed all’esistenza di un giudicato sulla giurisdizione (esterno o interno, esplicito o implicito), costituendo questione di giurisdizione anche la verifica in ordine alla formazione del giudicato (Cass., Sez.U., 19/1/2022, n. 1599).
Nella specie, in realtà, si è dinanzi ad una motivazione solo apparente, in quanto la Corte d’appello, con riferimento alla riserva n. 4, ed alla relativa questione di giurisdizione in materia di revisione dei prezzi, si è limitata ad affermare – senza specificare in alcun modo la natura e la consistenza dei lavori posti al di fuori della
revisione prezzi – che la decorrenza per il computo della revisione andava individuata alla data dell’1/1/1991, e non alla data di aggiudicazione del contratto dell’1/9/1986, come chiesto invece dalla società concessionaria.
Ciò, appunto, senza in alcun modo motivare sulle ragioni della operata scissione temporale fra le varie prestazioni svolte.
Si è, invero, affermato che l’istituto della revisione dei prezzi, oltre ad avere la finalità di salvaguardare l’interesse pubblico a che le prestazioni di beni e servizi alle P .A. non siano esposte con il tempo – a causa degli aumenti dei prezzi dei fattori della produzione – al rischio di una diminuzione qualitativa dell’attività oggetto del contratto, è al contempo posto a tutela dell’interesse dell’impresa non subire l’alterazione dell’equilibrio contrattuale conseguente alle modifiche dei costi sopraggiunte durante l’arco del rapporto.
9.1. Costituisce principio generale di legittimità quello per cui, in tema di appalto di opere pubbliche, l’accettazione, da parte dell’ente appaltante, della revisione dei prezzi, alla stregua di valutazioni discrezionali correlate a preminenti interessi di ordine pubblicistico, può avvenire anche in modo implicito, attraverso atti che postulano l’esercizio del potere in ordine all'” an ” della revisione, ovvero attraverso il pagamento di acconti sul futuro compenso revisionale fattispecie in cui la S.C ha ritenuto sussistere l’accettazione implicita nel caso di certificato di pagamento della prima rata di acconto del compenso revisionale, sottoscritto dal direttore dei lavori e recante il visto dell’ente appaltante, ma privo di data – (Cass., sez. 1, 25/9/2007, n. 19921; Cass., Sez.U., n. 6993 del 2005; Cass., Sez.U., n. 1996 del 2003).
Ci si sofferma, dunque, sulle basi normative con le quali dovevano confrontarsi i contraenti nella disciplina delle clausole di revisione dei prezzi.
Si chiarisce che, come evidenziato dalla dottrina, l’esigenza di una rivisitazione dei prezzi così da adeguarli al mercato e, al contempo, di evitarne la lievitazione incontrollata con pregiudizio per l’Erario, è stata avvertita dal legislatore in epoca risalente, essendo già previsto dal regio decreto-legge 13 giugno 1940, n. 901, convertito con legge 26 ottobre 1940, n. 1676, che le amministrazioni potessero prevedere clausole in caso di aumenti superiori all’aliquota del 10%.
10.1. L’art. 2 della legge 22/2/1973 n. 37, applicabile ratione temporis , in quanto il contratto di aggiudicazione è stato stipulato l’1/9/1986, stabilisce che «per tutti i lavori appaltati, o affidati dalle amministrazioni o aziende di Stato, anche con ordinamento autonomo, dagli enti locali ed agli altri enti pubblici, comprese le amministrazioni indicate nel secondo comma dell’art. 1 della legge 23 ottobre 1963, n. 1481, la facoltà di procedere alla revisione dei prezzi è ammessa, secondo le norme che la regolano, con esclusione di qualsiasi patto in contrario o in deroga».
Trattasi, dunque, di norme imperative, che possono comportare anche la sostituzione automatica di clausole nulle in quanto tese ad escludere (o a rendere obbligatoria) la revisione, in difformità del regime legale (Cass., sez. 1, 11/8/2016, n 17038; Cass., sez. 1, 31/12/2020, n. 29988).
10.2. Tale ultima norma va letta unitamente all’art. 33, comma 3, della legge 28/2/1986, n. 41 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato), a mente del quale «per i lavori di cui al precedente comma 2 aventi durata superiore all’anno, la facoltà di procedere alla revisione dei prezzi è ammessa, a decorrere dal secondo anno successivo all’aggiudicazione e con esclusione dei lavori già eseguiti nel primo anno e dell’intera anticipazione ricevuta, quando l’Amministrazione riconosca che
l’importo complessivo della prestazione è aumentato o diminuito in misura superiore al 10 per cento per effetto di variazioni dei prezzi correnti intervenute successivamente alla aggiudicazione stessa. Le variazioni dei prezzi da prendere a base per la suddetta revisione per ogni semestre dell’anno sono quelle rilevate, rispettivamente, con decorrenza 1° gennaio e 1° luglio di ciascun anno».
10.3. Ai sensi dell’art. 26 della legge n. 109 del 1994, comma 3, poi, «per i lavori pubblici affidati dalle amministrazioni aggiudicatrici e dagli altri enti aggiudicatori o realizzatori non è ammesso procedere alla revisione dei prezzi e non si applica il primo comma dell’art. 1664 del codice civile».
10.4. Nel caso dell’art. 115 del d.lgs. n. 163 del 2006 la caratteristica principale è quella della obbligatorietà della revisione dei prezzi e, quindi, della previsione della relativa clausola pattizia che, qualora difetti, non esclude, secondo la prevalente giurisprudenza amministrativa, l’applicazione degli aumenti su istanza dell’appaltatore, in virtù di un meccanismo di sostituzione automatica ai sensi degli articoli 1339 e 1419 c.c. (Cons. Stato., 22 dicembre 2014, n. 6275; Cons. Stato, 1 febbraio 2012, n. 504; Cons. Stato, 16 giugno 2003, n. 3373).
10.5. Tale obbligo è venuto meno con l’art. 106 del d.lgs. n. 50 del 2016 (Revisione prezzi), ove si prevede che «i contratti di appalto nei settori ordinari e nei settori speciali possono essere modificati senza una nuova procedura di affidamento nei casi seguenti: a) se le modifiche, a prescindere dal loro valore monetario, sono state previste nei documenti di gara iniziali in clausole chiare, precise e inequivocabili, che possono comprendere clausole di revisione dei prezzi».
Tale obbligo è stato poi ripristinato con l’art. 60 del d.lgs. n. 36 del 2023, per cui «nei documenti di gara iniziali delle procedure di
affidamento è obbligatorio l’inserimento delle clausole di revisione prezzi».
11. Per questa Corte, a sezioni unite, sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo laddove venga in considerazione un provvedimento autoritativo, caratterizzato dalla sua discrezionalità, mentre sussiste la giurisdizione del giudice ordinario nell’ipotesi in cui vi sia stato riconoscimento espresso o implicito della sussistenza del diritto alla revisione dei prezzi, restando controversa esclusivamente l’individuazione della data di decorrenza.
Si è affermato che dopo il riconoscimento della revisione dei prezzi in favore dell’appaltatore di opera pubblica, la controversia che insorga sull’ individuazione del criterio liquidatorio da adottare (nella specie, quello dell’andamento effettivo dei lavori – che tiene conto, per stabilirne la complessiva durata, dei periodi di sospensione, ove essa non sia addebitabile a fatto e colpa dell’appaltatore – o quello dell’ andamento lineare, che non considera detti periodi), rientra nella giurisdizione del giudice ordinario perché attiene esclusivamente al quantum di un credito già riconosciuto, a differenza delle controversie in ordine alla sussistenza del riconoscimento suddetto, che, implicando la cognizione in ordine a poteri discrezionali della P.A., sono devolute alla giurisdizione amministrativa (Cass., Sez.U., 2/6/1992, n. 6669).
Pertanto, vi è la giurisdizione del giudice amministrativo soltanto nella fase in cui l’amministrazione è chiamata a decidere se ricorrano o meno le condizioni per procedere alla revisione, poiché tale determinazione implica valutazioni discrezionali ed unilaterali che attengono alla cura di preminenti interessi pubblici; ma, una volta che la decisione di accordare la revisione sia stata adottata, il potere autoritativo della PA deve ritenersi consumato perché la posizione dell’appaltatore acquista consistenza diritto soggettivo, a nulla
rilevando che possa insorgere tra le parti controversia sull’ammontare del compenso revisionale, poiché la liquidazione di tale compenso involge solo la liquidazione dei criteri e parametri da applicare, ma non comporta una scelta tra interessi pubblici concorrenti (Cass., Sez.U., n. 6669 del 1992).
11.1. Si è chiarito che sussiste la giurisdizione del giudice ordinario se il diritto al compenso revisionale viene riconosciuto «in relazione all’intera opera», mentre sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo se il diritto al compenso revisionale viene riconosciuto «limitatamente a lavori specifici o a categorie di lavori ben individuate con riferimento alla loro natura o al tempo della loro esecuzione», con esplicita o implicita esclusione di altri, avuto riguardo alla loro natura oggettiva ovvero al tempo in cui la relativa esecuzione avvenuta (Cass., Sez.U., n. 6669 del 1992; Cass., Sez.U., n. 7623 del 1987).
Si è più volte chiarito che non basta una qualsiasi contestazione sul profilo cronologico del rapporto contrattuale per ritenere limitato o parziale il riconoscimento del diritto alla revisione, a tal fine richiedendosi che la revisione stessa sia stata accordata soltanto «per determinati lavori compiuti in determinati periodi di tempo, proprio in base a certe variazioni di costo intervenute per quel tipo di lavori durante quel periodo di tempo» (Cass., Sez.U., n. 6669 del 1992; Cass., Sez.U., n. 1366 del 1963).
Solo, dunque, ove si possa ritenere che il riconoscimento della revisione dei prezzi sia avvenuto per certe specifiche prestazioni relative a determinati lavori, in uno specifico periodo di tempo, vi è giurisdizione del giudice amministrativo, con riferimento al periodo mancante, nel quale si espande il potere autoritativo e discrezionale della PA.
Il riconoscimento parziale, ossia limitato a particolari lavori o categorie di lavori (con esplicita o implicita esclusione di altri) circoscrive la sussistenza del diritto e la giurisdizione del giudice ordinario alle sole pretese ad esso riconducibili (Cass., Sez.U., 2/6/1997, n. 4/9/07; Cass., sez. 1, 18/1/2017, n 1164).
Questa Corte, infatti, ha ritenuto sussistere la giurisdizione del giudice amministrativo nell’ipotesi in cui l’amministrazione aveva ritenuto che l’istituto della revisione dei prezzi non si applicasse per talune specifiche categorie di lavori eseguiti in un determinato lasso temporale.
Per tale lasso temporale, mancante di riconoscimento espresso o implicito, vi era il potere discrezionale della PA e, dunque, la giurisdizione del giudice amministrativo.
Si è dunque ribadito che la posizione dell’appaltatore assume natura di diritto soggettivo, tutelabile dinanzi al giudice ordinario, quando l’appaltante ha esercitato positivamente il potere discrezionale di accordare la revisione, come si verifica nel caso in cui l’ha riconosciuta in favore dell’appaltatore, esplicitamente o implicitamente, mediante la corresponsione di acconti, «a meno che tale riconoscimento non sia parziale, perché limitato ad un determinato periodo di tempo o riferito solo ad una determinata partita di lavori» (Cass., Sez.U., 12/7/2010, n. 16285).
Ed infatti, in tema di appalto di opere pubbliche, qualora non si discuta della debenza del compenso revisionale (riconosciuta dalla P.A.), ma del termine iniziale della sua decorrenza, la controversia rientra nella giurisdizione ordinaria, atteso che, non essendoci più un potere discrezionale della P.A. da esercitare, potere già espresso con l’avvenuto riconoscimento dell’incremento dei costi dell’appalto, l’oggetto del contendere, riguardando unicamente il ” quantum ” e non l'” an debeatur “, attiene ad un diritto soggettivo dell’appaltatore
fattispecie anteriore al d.l. n. 333 del 1992, convertito dalla legge n. 359 del 1992 – (Cass., Sez.U., 28/12/2007, n. 27186).
11.2. Tra l’altro, anche dopo l’avvento del codice del processo amministrativo e dunque, dell’art. 133, comma 1, lettera e) c.p.a., resta la distinzione tra giurisdizioni fondata sul potere autoritativo della PA.
Si è chiarito, infatti, che nelle controversie relative alla clausola di revisione del prezzo negli appalti di opere e servizi pubblici, la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, in conformità alla previsione di cui all’art. 133, comma 1, lett. e), n. 2), del d.lgs. 104 del 2010, non applicabile ratione temporis , sussiste nell’ipotesi in cui il contenuto della clausola implichi la permanenza di una posizione di potere in capo alla P.A. committente, attribuendo a quest’ultima uno spettro di valutazione discrezionale nel disporre la revisione, mentre, nella contraria ipotesi in cui la clausola individui puntualmente e compiutamente un obbligo della parte pubblica del contratto, deve riconoscersi la corrispondenza di tale obbligo ad un diritto soggettivo dell’appaltatore, il quale fa valere una mera pretesa di adempimento contrattuale, come tale ricadente nell’ambito della giurisdizione ordinaria (Cass., Sez.U., 12/10/2020, n. 21990).
11.3. Se dunque la clausola di revisione dei prezzi, contenuta nel contratto, non include alcuna discrezionalità determinativa della parte pubblica, ai fini del riparto giurisdizionale vale la situazione paritetica che ne discende (Cass., Sez.U., n. 21990 del 2020; Cass., Sez.U., 1/2/2019, n. 3160).
11.4. In presenza di delibera della giunta comunale che esprime la scelta di accordare la revisione, rileva esclusivamente che tale potere sia stato esercitato dall’organo dell’ente che aveva il potere di esercitarlo (Cass., Sez.U., 26/3/2014, n 7176; Cass., Sez.U., 17/4/2009, n. 9152).
Nella specie, la Corte d’appello ha reso una motivazione contraddittoria, che la rende solo apparente sul punto.
Muove dalla considerazione che il Comune dell’Aquila aveva riconosciuto la variazione dei prezzi («il primo giudice all’uopo rileva come essa fosse stata riconosciuta dal Comune di L’Aquila»).
Tuttavia, vi era stato un errore di computo, in quanto il dies a quo per la revisione dei prezzi era stato individuato dall’attrice all’1/9/1986. Era stata chiesta la maggior somma di lire 10.851.275.107, rispetto a quella riconosciuta di lire 4.566.233.084, già versata dal Comune. È stata riconosciuta dal Comune a tale titolo l’ulteriore somma di lire 5.087.022.491, pari ad euro 2.627.277,86.
La contraddizione emerge in quanto, da un lato, ha ritenuto insussistente il riconoscimento espresso, non essendo all’uopo sufficiente il certificato di collaudo, ma dall’altro, ha fatto riferimento alla circostanza che il primo giudice avesse riconosciuto la revisione dei prezzi in base ad una decisione del «Comune di L’Aquila», e quindi attraverso la delibera della giunta comunale n. 266 dell’8/6/2006, sulla revisione dei prezzi.
Inoltre, dopo aver accertato l’esistenza del riconoscimento implicito della revisione dei prezzi, attraverso il pagamento degli acconti sul compenso revisionale, ha però ritenuto sussistere la giurisdizione del giudice amministrativo in quanto il riconoscimento, sia espresso che implicito, non avrebbe riguardato il periodo anteriore all’1/1/1991, a decorrere dalla data dell’aggiudicazione dell’1/9/86, senza però individuare le specifiche lavorazioni che sarebbero state sottratte al meccanismo di revisione dei prezzi, nel periodo dal 1/9/1986 al 1/1/1991.
Ha infatti evidenziato la Corte territoriale che «nella fattispecie in esame non vi è un valido provvedimento relativo alla revisione, non potendo ritenersi idoneo all’uopo il certificato di collaudo, avendo
la Suprema Corte, con orientamento consolidato, sottolineato come una siffatta decisione debba promanare dall’organo deliberativo competente ad esprimere la volontà dell’ente».
Con l’aggiunta per cui «a prescindere dall’autorità legittimata ad un siffatto riconoscimento, è pacifico che vi sono stati pagamenti di somme elargite a titolo di revisione prezzi. Questa è stata evidentemente (validamente o meno) riconosciuta e in ogni caso corrisposta, però solo con riferimento ad un periodo limitato, tanto che la domanda dell’attrice è relativa al riconoscimento della revisione da una decorrenza diversa e anteriore a quella riconosciuta».
Ha proseguito la Corte d’appello rilevando che «come evidenziato dal CTU il Direttore dei lavori, nell’allegata relazione sulla revisione dei prezzi, l’ha fatta decorrere a partire dall’11/1/1991, mentre l’art. 7 della convenzione la prevede dal 1/8/1989 e la concessionaria con la riserva la chiede dalla data di aggiudicazione della concessione, ossia dal 1/9/1986».
Rimarca la Corte d’appello che «per il periodo anteriore – è proprio quello oggetto della domanda – non vi è né provvedimento né riconoscimento della revisione ascrivibile ad un comportamento concludente e quindi ricorre senz’altro la giurisdizione del giudice amministrativo con riferimento alla domanda relativa alla quarta riserva».
Non si riesce a comprendere, dunque, la ratio giustificatrice della decisione della Corte d’appello, che risulta peraltro carente proprio sulla individuazione delle residue lavorazioni che sarebbero estranee al riconoscimento della revisione dei prezzi (nel periodo dal 1/9/1986 all’1/1/1991), e dunque ricadrebbero sotto la giurisdizione del giudice amministrativo, avendo la PA, per tale porzione dei lavori, potere unilaterale e discrezionale sul riconoscimento della revisione.
Ciò considerando anche che dagli scritti difensivi emerge che l’approvazione della prima variante v’è stata solo il 5/6/1991, a distanza di quattro anni dall’aggiudicazione dell’1/9/1986 (l’inizio lavori del I stralcio risulta in data 27/9/1989).
Con il primo motivo di ricorso incidentale il Comune deduce la «violazione dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., in relazione agli articoli 1218, 2043 e 2697 c.c. ed agli articoli 61 e 115 c.p.c.».
Per il ricorrente incidentale manca la prova dei danni subiti dalla società, in quanto le risultanze della CTU non possono fornire la prova degli stessi, essendo la consulenza tecnica d’ufficio solo un mezzo istruttorio.
Ad avviso del ricorrente, poi, la quantificazione dei danni poteva avvenire esclusivamente sottraendo agli interessi concordati dalla società con l’istituto di credito per far fronte alla mancata garanzia fornita dal Comune, il computo degli interessi che sarebbero stati comunque pagati dalla società, anche nel caso in cui il Comune avesse tempestivamente fornito la garanzia.
Il motivo è inammissibile.
14.1. In realtà, sulla dimostrazione dei danni subiti dalla società per il ritardo con cui l’ente territoriale ha fornito la garanzia, che doveva presidiare il finanziamento bancario in favore della società, si sono pronunciati sia il giudice di primo grado che la Corte d’appello, esprimendo un giudizio rispetto al quale il motivo formula solo un’istanza rivalutativa.
Ed infatti, il tribunale, proprio in ordine alla seconda riserva, relativa alla garanzia dell’ente territoriale, ha ritenuto sussistere il danno, evidenziando come «il consulente tecnico d’ufficio, con ragionamento logico ed immune da censure e, pertanto, pienamente condivisibile, riconosceva come fondata la riserva per la quota capitale di lire 9.585.000.000, somma che doveva essere coperta
con garanzia dell’ente locale. Riconosceva che i predetti importi erano stati reperiti dalla concessionaria con l’erogazione di finanziamenti da parte della CARISPAQ».
Per il tribunale, dunque, il CTU aveva correttamente quantificato il danno, in quanto «la quantificazione dei predetti oneri veniva svolta per il periodo dal 14 settembre 1996, data di apposizione della riserva, fino al 24 febbraio 1998, data di stipula del contratto di mutuo garantito. Il CTU riteneva che l’interesse da applicare è stato determinato in base a quello praticato sul conto corrente aperto presso la Cassa di Risparmio dell’Aquila con decorrenza dal 1 ottobre 1994, pari al 13,75% annuo, e a quello dell’art. 3 del contratto di mutuo chirografario del 13 luglio 1995 pari al 12% annuo; considerando la media delle due percentuali di interessi».
La Corte d’appello, sul punto, ha confermato la valutazione degli elementi istruttori già compiutamente effettuata dal giudice di primo grado.
Quanto alla prova del danno ritenuto che «è agevolmente evincibile dalla CTU e dalla documentazione prodotta, posto che l’ATI ha depositato il contratto di finanziamento, diverso da quello garantito, che è stata costretta a stipulare, nonché la documentazione e corrispondenza relativi (docc. da 90 a 99) e su questi documenti CTU ha basato le sue valutazioni e calcoli».
La Corte di merito ha anche precisato che «vi è poi anche la prova, vanamente contrastata dal Comune, dell’utilizzo del denaro ottenuto dall’ATI a credito per pagare i lavori che stava eseguendo nella quota non corrisposta dal Comune, visto che il destinatario della provvista, come risulta dai documenti sopra citati, è la società consortile di scopo tra le imprese dell’ATI costituita ad hoc con l’unico oggetto sociale di eseguire la concessione di cui si tratta».
In sostanza, a prescindere dalle norme riportate nella rubrica del motivo, il ricorrente incidentale chiede, in realtà, una nuova rivalutazione degli elementi istruttori, già compiutamente eseguita da parte della Corte d’appello, non consentita in questa sede.
15. Con il secondo motivo di ricorso incidentale si deduce la «violazione dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., in relazione agli articoli 2043, 2697 e 1226 c.c. e all’art. 115 c.p.c. – Violazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c.».
Sia il giudice di primo grado che la Corte d’appello avrebbero determinato le conseguenze risarcitorie dell’inadempimento comunale, in ordine alla prestazione della garanzia, solo «sulla mera base di congetture e considerazioni del Consulente Tecnico d’Ufficio».
Avrebbe errato la Corte d’appello nel determinare il lucro cessante della società in via equitativa in misura pari al 10% delle somme che «in via di mera congettura, l’attore avrebbe destinato al pagamento di interessi su somme che non vi è prova che abbia preso a mutuo».
La Corte territoriale si sarebbe basata esclusivamente sulle considerazioni svolte dal CTU, senza corredo probatorio.
Il giudice d’appello non si sarebbe posta la questione che «anche il mutuo assistito dalla garanzia del Comune avrebbe avuto il carattere feneratizio ed avrebbe comunque comportato per il Concessionario l’esborso di una quota a titolo di interessi passivi».
La congettura del giudice di merito si sarebbe fondata sulla «usuale applicazione dell’art. 345 della legge 2248/1865, all. F».
La Corte territoriale avrebbe dimenticato che «il Concessionario era comunque obbligato a conferire il 20% del costo dell’opera pubblica, alla qual fine era già ab initio prevista una operazione di finanziamento bancario – assistito dalla garanzia comunale – con
oneri comunque e sempre a carico del Concessionario, il quale era tenuto al rimborso del capitale dal pagamento degli interessi».
16. Il motivo è inammissibile.
Infatti, va inizialmente rilevata la presenza di una doppia decisione conforme di merito (ex art. 348ter c.p.c.), che osta alla possibilità di articolare il motivo di ricorso per cassazione per vizio di motivazione ex art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c.
Di nuovo, poi, il ricorrente incidentale chiede a questa Corte una diversa rivalutazione degli elementi istruttori, già compiutamente effettuata dalla Corte territoriale, senza che possa essere ripercorsa in questa sede.
Con il terzo motivo di impugnazione il ricorrente incidentale si lamenta «dell’illegittimo cumulo di rivalutazione monetaria di interessi. Violazione dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., in relazione all’art. 1224 c.c. ed all’art. 2697 c.c. – Violazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c.».
Per il ricorrente incidentale la Corte d’appello avrebbe errato nell’operare distinti calcoli per il danno emergente e per il lucro cessante, calcolando poi la rivalutazione monetaria e gli interessi per ognuna di tali voci di danno.
Ad avviso del ricorrente incidentale, la Corte d’appello avrebbe riconosciuto «una doppia rivalutazione sulla medesima somma, una volta sulla ‘sorte capitale’ (danno emergente) ed una volta sul mancato utile (c.d. lucro cessante) che sarebbe conseguito dall’investimento di tale ‘sorte’».
Non può sommarsi all’importo spettante per il danno emergente, già rivalutato, l’ulteriore importo da determinarsi in via equitativa, calcolato dalla Corte d’appello nel 10% degli utili.
Per il ricorrente incidentale «la sentenza omette totalmente di esaminare la censura che il Comune aveva specificamente rivolto alla
determinazione del quantum risarcitorio e, più specificamente, alla cumulabilità tra rivalutazione monetaria ed interessi».
Sarebbe stata anche violata la regola di riparto dell’onere della prova.
18. Il motivo è inammissibile.
18.1. In primo luogo, viene erroneamente invocato l’art. 2697 c.c., che invece presidia il rispetto delle regole di riparto dell’onere della prova.
18.2. In secondo luogo sia il Tribunale in primo grado che la Corte d’appello hanno riconosciuto la sussistenza della lucro cessante, sicché non è ammissibile il motivo di ricorso per cassazione per vizio della motivazione ex art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c. per le ragioni evidenziate dal controricorrente al ricorso incidentale (vedi controricorso società pagina 6 «sennonché, avendo entrambi i giudici del merito accordato alla HCE il risarcimento del danno da mancato utile sulla base di identiche ragioni in punto di fatto e di diritto doppia conforme – per evitare una pronuncia di inammissibilità il Comune di L’Aquila avrebbe dovuto dimostrare che le ragioni addotte a sostegno della decisione di primo grado erano diverse da quelle poste a fondamento della sentenza qui impugnata»).
18.3. In terzo luogo, la Corte d’appello ha espressamente pronunciato sul motivo d’appello del Comune relativo alla presunta doppia rivalutazione che sarebbe stata riconosciuta erroneamente in favore della società.
Ed infatti, la Corte territoriale, ha riferito sul punto che «uanto, infine, alla contestazione del ricorso sul ristoro da mancato utile sommato a quello del costo del danaro, che costituirebbe, nell’insieme, una sorta di ‘doppia rivalutazione della medesima somma basta osservare che l’ATI, oltre al danno emergente, costituito dalla spesa accollatasi per ottenere il prestito,
ha perso un utile (lucro cessante), posto che la somma all’uopo utilizzata avrebbe potuto essere invece impiegata nell’attività di impresa. A titolo di lucro cessante, correttamente il CTU ha riconosciuto un ulteriore 10% posto che l’utile dell’impresa di costruzioni è calcolato in percentuale sui ricavi, costituiti dal corrispettivo dei lavori che esegue, e tale percentuale, proprio in base alle componenti del prezzo corrispettivo, viene individuata nel 10%, con riferimento e secondo le disposizioni in materia di formazione del prezzo per le opere pubbliche (art. 32, comma 2, lettera c) d.P.R. n. 207/2010)».
Pertanto, per la Corte di merito, «a titolo di lucro cessante CTU ha così determinato nella somma, pari al 10% del capitale non è disponibile per essere reinvestito, di lire 615.741.177, sulla quale il giudice ha riconosciuto interessi e rivalutazione, avendo un autonomo titolo, sicché non vi è alcuna duplicazione risarcitoria».
19. Con il quarto motivo di impugnazione incidentale si deduce la «violazione dell’art. 112 e dell’art. 342 c.p.c. per mancata corrispondenza tra quanto devoluto e chiesto in appello e la pronuncia. Violazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c. e motivazione illogica e contraddittoria. Violazione dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., in relazione all’art. 1194 c.c. ed all’art. 35 del capitolato generale delle opere pubbliche (d.P.R. 1063/1962)».
Il ricorrente incidentale ricorda che con apposito motivo d’appello aveva dedotto l’illegittimità dell’applicazione degli interessi moratori di cui all’art. 35 del d.lgs. n. 1063 del 1962, ai ritardi in cui era incorso il Comune nel pagamento dei contributi concessori.
Il tribunale, sulla questione, ha rimarcato che la concessionaria aveva chiesto l’applicazione dell’art. 1194 c.c., in forza del quale il debitore non può imputare il pagamento al capitale piuttosto che agli interessi e alle spese senza il consenso del creditore.
Su tale premessa la società aveva affermato che erano ancora dovute somme a credito dell’impresa, sulle quali erano anche maturati gli interessi di mora.
L’art. 1194 c.c. era applicabile anche negli appalti pubblici.
Il pagamento parziale doveva essere imputato prima agli interessi e poi al capitale, a meno che non vi fosse prova del consenso del creditore ad una diversa imputazione.
Con l’appello il Comune riteneva che la peculiare disciplina di cui all’art. 35 del d.lgs. n. 1063 del 1962 potesse trovare applicazione rispetto al pagamento del contributo.
Con l’atto d’appello il Comune ha quindi chiesto in sede di conclusioni che «ai sensi del disposto dell’art. 342 c.p.c. il punto 4 (relativo agli interessi ex art. 35 cap. gen.oo. pp.) – pagg. 23-25 e 31 – della motivazione va sostituito nel senso che, in punto di diritto, non è applicabile al pagamento dei contributi concessori la disciplina relativa al pagamento del prezzo dell’appalto, di quell’art. 35 Cap. Gen. OO.PP. allegato al d.P.R. 1963/1962».
Rispetto a tale domanda la Corte d’appello non ha risposto affatto, «nè motivando sul punto, né menzionando la specifica domanda nel dispositivo».
20. Il motivo è infondato.
L’art. 35 del d.P .R. n. 1063 del 1962 (Approvazione del capitolato generale d’appalto per le opere di competenza del ministero dei Lavori Pubblici) dispone, con riferimento ai ritardi nei pagamenti degli acconti, che «qualora il certificato di pagamento delle rate in acconto non sia emesso, per mancata tempestiva contabilizzazione dei lavori o per qualsiasi altro motivo attribuibile all’amministrazione, entro i termini di cui al secondo comma del precedente art. 33, spettano all’appaltatore gli interessi legali sulle somme dovute fino alla data di emissione di detto certificato ».
Ai sensi, poi, dell’art. 4 della legge 10/12/1981, n. 741 (Ulteriori norme per l’accelerazione delle procedure per l’esecuzione di opere pubbliche) «l’importo degli interessi per ritardato pagamento dovuti in base a norme di legge, di capitolato generale speciale o di contratto viene computato e corrisposto in occasione del pagamento, in acconto o a saldo, immediatamente successivo, senza necessità di apposite domande e riserve. Il termine di 90 giorni previsto negli articoli 35, primo e secondo comma, e 36, terzo comma, del capitolato generale d’appalto per le opere di competenza del Ministero dei Lavori Pubblici approvato con decreto del presidente della Repubblica 16 luglio 1962, n. 1063, è ridotto a 60 giorni. Sono nulli i patti in contrario o in deroga».
21.1. Dalla trascrizione della motivazione della sentenza del tribunale e dell’atto d’appello emerge che effettivamente la società aveva espressamente chiesto di computare gli acconti che il Comune avrebbe dovuto versare a cadenza mensile, ai sensi dell’art. 1194 c.c., quindi prima agli interessi e alle spese e dopo al capitale.
A fronte di tale richiesta, riconosciuta dal tribunale, vi era stato specifico motivo d’appello da parte del Comune, che ha reputato non applicarsi la peculiare disciplina di cui all’art. 35 del d.lgs. n. 1062 del 1963 al pagamento del contributo, trattandosi di norma speciale.
La Corte d’appello ha espressamente pronunciato su tale domanda, rigettandola.
Ed infatti, per la Corte territoriale l’art. 35 del capitolato generale del 1962 «deve ritenersi applicabile al rapporto dedotto in giudizio, che in occasione di altre censure il Comune stesso ha qualificato come di appalto di opere pubbliche» (cfr. pag. 23 della motivazione della sentenza di appello).
La sentenza impugnata deve, dunque, essere cassata in relazione al motivo accolto, con rinvio alla Corte d’appello dell’Aquila,
in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
accoglie il terzo motivo di ricorso principale; dichiara inammissibile il primo motivo di ricorso principale ed infondato il secondo motivo di ricorso principale; dichiara inammissibile il ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata in ordine al motivo accolto, con rinvio alla Corte d’appello dell’Aquila, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-q uater del d.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis , dello stesso art. 1, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della I Sezione