Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 17636 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 17636 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 30/06/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 3051/2022 R.G. proposto da COGNOME rappresentato e difeso dagli Avv. NOME COGNOME e NOME COGNOME che hanno indicato i seguenti indirizzi di posta elettronica certificata: e
;
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE MONTANA – ASSOCIAZIONE DEI RAGIONE_SOCIALE (già Comunità Montana Monti del Trasimeno) e RAGIONE_SOCIALE
– intimate –
avverso la sentenza della Corte d’appello di Perugia n. 369/21, depositata il 18 giugno 2021.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 19 febbraio 2025 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
Con atto pubblico del 31 maggio 1996, NOME COGNOME, in qualità di erede di NOME COGNOME, cedette volontariamente alla Comunità Montana Monti del Trasimeno, verso il corrispettivo di Euro 214.329,61, un fondo sito in Perugia, località SantINDIRIZZO, del quale il Sindaco aveva disposto l’occupazione d’urgenza, con decreto del 12 febbraio 1990, per la realizzazione di un vivaio forestale.
Successivamente, essendo venuto a conoscenza che con atto pubblico del 3 novembre 2005 la Comunità Montana aveva venduto il medesimo fondo alla RAGIONE_SOCIALE, verso un corrispettivo di Euro 824.659,20, il COGNOME propose ricorso al Tribunale amministrativo regionale per l’Umbria, chiedendo l’annullamento della delibera di autorizzazione della vendita e la dichiarazione di nullità dell’atto, con la condanna della Comunità Montana alla restituzione dell’immobile e al risarcimento dei danni.
Con sentenza del 10 maggio 2013, n. 283, il Tar dichiarò il ricorso inammissibile, in quanto tardivo rispetto alla pubblicazione degli atti impugnati, escludendo la necessità della notificazione degli stessi al ricorrente.
Il COGNOME impugnò la predetta sentenza dinanzi al Consiglio di Stato, e contemporaneamente convenne la Comunità Montana e la Milletti dinanzi al Tribunale ordinario di Perugia, per sentir dichiarare la nullità o l’inefficacia o pronunciare l’annullamento della cessione volontaria, previa disapplicazione degli atti amministrativi preordinati alla vendita del fondo, con l’accertamento della mancata realizzazione dell’opera pubblica e della decadenza della dichiarazione di pubblica utilità, e con la condanna della Comunità Montana alla retrocessione e alla restituzione dell’immobile.
2.1. Con sentenza del 6 settembre 2016, il Tribunale rigettò la domanda.
L’appello proposta dal COGNOME nei confronti della RAGIONE_SOCIALEgià RAGIONE_SOCIALE è stato rigettato dalla Corte d’appello di Perugia con sentenza del 18 giugno 2021.
Premesso che la sentenza di primo grado, rimasta incensurata sul punto, aveva ritenuto che la domanda spettasse alla giurisdizione del Giudice ordinario, qualificandola come domanda di retrocessione totale, mentre la giuri-
sprudenza successiva ne aveva affermato la devoluzione alla giurisdizione amministrativa, ai sensi dell’art. 133, comma primo, lett. g) , cod. proc. amm., in quanto avente ad oggetto un comportamento della Pubblica Amministrazione riconducibile all’esercizio di un pubblico potere, la Corte ha osservato che l’attore aveva riproposto, sotto la forma della richiesta di disapplicazione degli atti amministrativi, le medesime domande già avanzate dinanzi al Tar, escludendo la sussistenza di un rapporto di pregiudizialità tra il giudizio in esame e quello pendente dinanzi al Consiglio di Stato, e dichiarando quindi inammissibile l’istanza di sospensione proposta dall’attore ai sensi dell’art. 295 cod. proc. civ.
Rilevato inoltre che il Tribunale, pur essendosi interrogato in ordine alla natura dell’atto di cessione volontaria ed all’applicabilità alla stessa dell’istituto della retrocessione, non aveva preso esplicitamente posizione al riguardo, ma si era limitato a prendere in esame l’assunto dell’attore, secondo cui la Comunità Montana era obbligata a disporre la retrocessione, e ad escludere l’automaticità della stessa, ha ritenuto decisiva la circostanza che l’attore non avesse promosso la procedura di cui all’art. 63 della legge 25 giugno 1865, n. 2359 ed agli artt. 46 e 48 del d.P.R. 8 luglio 2001, n. 327, affermando che il diritto alla retrocessione sorge soltanto a seguito della dichiarazione d’inservibilità dei beni da parte dell’Amministrazione, avente efficacia costitutiva, con la conseguenza che, in mancanza della stessa, l’interessato può vantare soltanto una posizione d’interesse legittimo, che gli consente di agire per la dichiarazione dell’obbligo di provvedere.
Avverso la predetta sentenza il COGNOME ha proposto ricorso per cassazione, articolato in due motivi. Gl’intimati non hanno svolto attività difensiva.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo d’impugnazione, il ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione degli artt. 112, 115 e 116 cod. proc. civ., degli artt. 45, 46, 47 e 48 del d.P.R. n. 327 del 2001, dell’art. 832 cod. civ., dell’art. 42 Cost., dell’art. 1 del Primo Protocollo addizionale alla CEDU e dell’art. 17 della CDFUE, rilevando che, nel confermare la tardività della domanda di retroces-
sione, in quanto proposta successivamente all’alienazione del fondo a un terzo, la sentenza impugnata non ha tenuto conto della strumentalità della richiesta di disapplicazione da lui formulata rispetto alla domanda di accertamento della nullità dell’atto di vendita, altrimenti condizionata all’esito del giudizio pendente dinanzi al Giudice amministrativo. Premesso che la Corte territoriale ha omesso di procedere all’accertamento delle condizioni necessarie per la retrocessione, da lui richiesto indipendentemente dalla concreta possibilità di attuazione della stessa, ai fini di un’eventuale successiva domanda di risarcimento, afferma di essersi attivato per ottenere la retrocessione non appena è venuto a conoscenza della vendita del fondo a terzi, aggiungendo che la Comunità Montana ha ostacolato l’esercizio del suo diritto, rigettando la sua istanza di accesso agli atti e costringendolo a ricorrere a tal fine al Giudice amministrativo. Sostiene che la dichiarazione d’inservibilità del fondo emerge dai provvedimenti con cui ne è stata autorizzata la vendita, trattandosi di un bene acquisito al patrimonio indisponibile dell’ente pubblico, la cui alienazione era subordinata all’adozione di un apposito provvedimento di declassamento, mentre l’omessa destinazione dell’immobile alla realizzazione dell’opera pubblica, oltre ad essere rimasta incontestata, emerge dal breve lasso di tempo intercorso tra la cessione volontaria e la vendita a terzi, a fronte del carattere durevole dell’opera progettata. Ribadisce infine che la mancata destinazione del fondo alla realizzazione dell’opera pubblica per cui era stato espropriato imponeva alla Comunità Montana di disporne la retrocessione in favore del proprietario, invece di procedere alla vendita a terzi a scopo speculativo.
Con il secondo motivo, il ricorrente deduce l’omesso esame di fatti controversi e decisivi per il giudizio, rilevando che, nel confermare la tardività della domanda di retrocessione, la sentenza impugnata non ha tenuto conto a) dell’immediata proposizione della richiesta di restituzione, a seguito della conoscenza dell’avvenuta vendita del fondo a terzi, b) dell’acquisizione di tale conoscenza soltanto a seguito dell’accoglimento da parte del Giudice amministrativo del ricorso per l’accesso agli atti, c) della mancata comunicazione della vendita ad esso ricorrente, d) della conseguente ignoranza, in epoca anteriore, dell’inutilizzabilità del bene, che gli aveva impedito di esercitare il
diritto alla retrocessione, e) dell’equiparabilità del provvedimento di autorizzazione della vendita alla dichiarazione d’inservibilità, f) dell’avvenuta acquisizione dei beni da parte della Comunità Montana mediante espropriazione per pubblica utilità, g) dell’inalienabilità dei beni del patrimonio indisponibile degli enti pubblici, in mancanza della rimozione del vincolo di destinazione, h) della conseguente inutilità della proposizione da parte di esso ricorrente di un’istanza volta ad ottenere la dichiarazione d’inservibilità del fondo.
I due motivi, da esaminarsi congiuntamente, in quanto aventi ad oggetto la medesima questione, prospettata sotto profili diversi, sono fondati.
Non merita infatti consenso la sentenza impugnata, nella parte in cui ha ritenuto condivisibile l’affermazione contenuta in quella di primo grado, secondo cui, indipendentemente dalla riconducibilità della cessione del fondo dell’istituto di cui all’art. 12 della legge 22 ottobre 1971, n. 865, anziché ad un comune contratto di compravendita, la retrocessione del fondo doveva ritenersi preclusa dalla mancata attivazione della procedura di cui all’art. 63 della legge 25 giugno 1865, n. 2359, essendosi il ricorrente limitato a proporre, soltanto a seguito dell’avvenuta vendita dell’area ad un terzo, dapprima un ricorso al Giudice amministrativo, respinto per ragioni di rito, e quindi la domanda in esame.
Essendo pacifica la qualificazione della pretesa avanzata dall’attore come domanda di retrocessione totale, confermata anche dalla sentenza impugnata, trova infatti applicazione il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui, a differenza di quanto accade in caso di retrocessione parziale, l’accertamento che l’area espropriata è rimasta completamente inutilizzata a causa della mancata realizzazione totale dell’opera pubblica per la quale ne era stata disposta l’espropriazione, o della sua sostituzione con un’opera totalmente differente e tale da stravolgere l’assetto del territorio originariamente previsto, è di per sé sufficiente a giustificarne la retrocessione in favore del proprietario espropriato, configurandosi la posizione soggettiva di quest’ultimo, in tal caso, come diritto soggettivo, la cui insorgenza non è subordinata alla dichiarazione d’inservibilità prevista dagli artt. 60 e 61 della legge n. 25 giugno 1865, n. 2359: la stessa risulta infatti necessaria soltanto quando l’opera pubblica abbia trovato esecuzione me-
diante l’impiego di beni espropriati per quello scopo, sebbene parte o taluni di essi non siano stati materialmente impegnati, giacché in quest’ultimo caso può esercitarsi, rispetto ai beni non ancora utilizzati e che l’espropriato avrebbe interesse a riacquistare, una valutazione discrezionale circa la convenienza di utilizzarli in funzione dell’opera realizzata, con la conseguenza che tali beni possono essere restituiti solo se la Pubblica Amministrazione abbia dichiarato che essi non servono più alla realizzazione dell’opera nel suo complesso (cfr. Cass., Sez. Un., 8/03/2006, n. 4894; 7/08/2001, n. 10894; 13/04/2000, n. 134).
Tale principio non risulta affatto smentito dalla pronuncia richiamata dalla sentenza impugnata, la quale vi si è invece conformata, ribadendo, in riferimento alla retrocessione parziale, che, ai fini dell’insorgenza del diritto soggettivo dell’espropriato, è necessaria, ai sensi degli artt. 60 e 61 citt., una manifestazione di volontà dell’Amministrazione (spontanea o sollecitata dagli interessati) in ordine all’inservibilità dei beni per l’esecuzione dell’opera pubblica (dichiarazione del Prefetto o, in alternativa, pubblicazione da parte dell’espropriante dell’avviso indicante i beni che non servono più all’opera pubblica), precisando che, in mancanza di tale dichiarazione formale, l’Autorità giudiziaria non può accertare l’inservibilità, stante la natura discrezionale della valutazione spettante alla Pubblica Amministrazione in ordine all’esistenza o meno di un rapporto di utilità tra il relitto e l’opera compiuta, ma può riconoscere valore equipollente ad un comportamento dell’Amministrazione dal quale possa desumersi la scelta di mettere in vendita dei beni, in quanto non più necessari alla realizzazione dell’opera pubblica (cfr. Cass., Sez. Un., 5/06/2008, n. 14826; in proposito, v. anche Cass., Sez. Un., 16/05/ 2014, n. 10824; nel medesimo senso, Cons. Stato, Sez. IV, 9/01/2019, n. 200; 21/01/2014, n. 269, anch’esse citate dalla sentenza impugnata).
Nessun rilievo può assumere, in contrario, neppure la sopravvenienza, tra la data di proposizione del ricorso al Giudice amministrativo (19 maggio 2008) e quella della domanda dinanzi al Giudice ordinario (25 marzo 2014), dell’art. 133, comma primo, lett. g) , del d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, che, attribuendo alla giurisdizione del Giudice amministrativo «le controversie aventi ad oggetto gli atti, i provvedimenti, gli accordi e i comportamenti, ri-
conducibili, anche mediatamente, all’esercizio di un pubblico potere, delle pubbliche amministrazioni in materia di espropriazione per pubblica utilità, ferma restando la giurisdizione del giudice ordinario per quelle riguardanti la determinazione e la corresponsione delle indennità in conseguenza dell’adozione di atti di natura espropriativa o ablativa», ha indotto le Sezioni Unite di questa Corte ad affermare che la giurisdizione in ordine alla domanda di retrocessione di un bene acquisito mediante decreto di esproprio, nonostante la sopravvenuta decadenza della dichiarazione di pubblica utilità, è devoluta alla giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo, indipendentemente dal carattere totale o parziale della retrocessione, in virtù dell’osservazione che tale domanda è ricollegabile in parte direttamente ad un provvedimento amministrativo, venendo in rilievo il concreto esercizio di un potere ablatorio culminato nel decreto di espropriazione, e per il resto ad un comportamento della Pubblica Amministrazione ad esso collegato, consistito nell’omessa retrocessione del bene malgrado il verificarsi della suddetta decadenza (cfr. Cass., Sez. Un., 18/01/2017, n. 1092; nel medesimo senso, Cons. Stato, Sez. IV, 12/01/2024, n. 411): tale principio, richiamato dalla sentenza impugnata a sostegno di un asserito mutamento dell’orientamento giurisprudenziale in materia di riparto della giurisdizione (ritenuto irrilevante nel caso di specie, in quanto successivo alla pronuncia della sentenza di primo grado, rimasta incensurata nella parte in cui aveva affermato la giurisdizione del Giudice ordinario), non risulta infatti pertinente alla fattispecie in esame, astenendosi dal prendere posizione in ordine ai presupposti della retrocessione, anche perché avente ad oggetto un’ipotesi di «retrocessione» intesa in senso in senso meramente improprio, cioè la domanda di restituzione di un immobile del quale era stata disposta l’espropriazione con un decreto emesso in carenza di potere, in quanto successivo alla scadenza del termine fissato dalla dichiarazione di pubblica utilità.
In proposito, d’altronde, occorre rilevare che, nonostante l’innovazione introdotta dall’art. 133, comma primo, lett. g) , cod. proc. amm., la giurisprudenza amministrativa successiva alla sua entrata in vigore ha continuato ad attenersi al medesimo principio enunciato dalle Sezioni Unite di questa Corte, confermando che la posizione soggettiva dell’espropriato con riguardo alla
retrocessione parziale è qualificabile come interesse legittimo, a meno che non sia già intervenuta la dichiarazione d’inservibilità, la quale non è invece necessaria in caso di mancata utilizzazione totale del bene, che determina automaticamente l’insorgenza in favore del proprietario di un diritto soggettivo alla retrocessione (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 20/11/2024, n. 9327; 30/ 08/2024, n. 7317; 6/06/2023, n. 5555).
In quest’ottica, riveste invece una portata centrale, ai fini dell’operatività dell’istituto in esame, la verifica, ritenuta irrilevante dalla sentenza di primo grado, confermata sul punto anche da quella impugnata, in ordine alla configurabilità dell’atto di trasferimento del fondo in favore della Comunità Montana come cessione volontaria stipulata ai sensi dell’art. 12 della legge n. 865 del 1971, anziché come compravendita di diritto comune: accertamento, questo, da compiersi in relazione alle concrete modalità di svolgimento della vicenda negoziale ed alla stregua del principio enunciato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui la cessione volontaria è un contratto ad oggetto pubblico che, inserito nell’ambito di un procedimento espropriativo, lo conclude eliminando la necessità di un provvedimento amministrativo di acquisizione coatta della proprietà privata, ma non esclude che il bene immobile possa essere trasferito all’ente pubblico con un contratto di compravendita, del tutto assoggettato alla disciplina privatistica, sicché, per individuare lo strumento contrattuale utilizzato, anche ai fini dell’applicabilità di istituti connessi alla procedura pubblicistica dell’espropriazione, quali la determinazione dell’indennizzo secondo i canoni legali e la retrocessione del bene ove l’opera pubblica non sia stata realizzata, assume un rilievo decisivo la pendenza del procedimento espropriativo, ai fini della quale non è sufficiente la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera, ma occorre anche l’avvio del subprocedimento di determinazione indennitaria, nonché la formulazione dell’offerta amministrativa dell’indennità, in presenza della quale soltanto il proprietario può valutare la convenienza della cessione (cfr. Cass., Sez. II, 22/01/2018, n. 1534; 22/05/2009, n. 11955; Cass., I, 11/03/2006, n. 5390).
4. La sentenza impugnata va pertanto cassata, con il conseguente rinvio della causa alla Corte d’appello di Perugia, che provvederà, in diversa composizione, anche al regolamento delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di appello di Perugia, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma il 19/02/2025