Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 19609 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 19609 Anno 2025
Presidente: RAGIONE_SOCIALE
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data pubblicazione: 16/07/2025
Il Tribunale di Bari ha condannato NOME COGNOME già Segretario comunale del Comune di Altamura, a restituire a detto Comune la somma di € 56.463,44 a titolo di maggiorazione della retribuzione di posizione per lo svolgimento di incarichi aggiuntivi.
Il Comune di Altamura aveva agito in giudizio affinché fosse accertato che la lavoratrice aveva indebitamente percepito dall’ente per il periodo 15 novembre 2005 al 12 luglio 2009, la somma netta di euro 54.463, 44 con condanna della medesima alla restituzione.
Ed infatti con relazione del 6 agosto 2010 l’ispettore generale di finanza servizi ispettivi di finanza pubblica – aveva rilevato che il Comune di Altamura aveva indebitamente maggiorato la retribuzione di posizione della dottoressa NOME COGNOME già segretario comunale del Comune di Altamura fino al 12 luglio 2009.
In particolare l’Ispettorato generale aveva addebitato al Comune che sulla scorta di una errata interpretazione del combinato normativo riveniente dall’articolo 41, commi 4 e 5, del contratto collettivo di settore del 16 maggio 2001, erano state conferite funzioni aggiuntive al segretario generale con l’attribuzione della maggiorazione fino al 50 % della retribuzione di posizione di godimento, e che aveva rideterminato il trattamento economico riconoscendo che la maggiorazione del 50 % fosse applicata dopo l’allineamento della propria indennità di posizione contrattuale all’indennità di posizione dirigenziale più elevata dell’ente. Secondo l’ispettorato la maggiorazione applicata alla retribuzione di posizione della COGNOME doveva essere calcolata all’incontrario ovvero precedentemente all’allineamento della posizione retributiva del segretario generale a quella statuita per le funzioni dirigenziali più elevata dell’Ente. Pertanto, l’Ente si era attivato per il recupero.
La Corte di Appello di Bari ha rigettato il gravame proposto avverso tale sentenza da NOME COGNOME
La Corte territoriale ha ritenuto tardiva l’allegazione relativa allo svolgimento di mansioni superiori, in quanto svolta solo nel giudizio di appello
ed ha rilevato che dal decreto 135/2005 gli incarichi aggiuntivi risultavano conferiti alla COGNOME ai sensi dell’art. 41, comma 4, del CCNL di settore.
Richiamati i commi 4, 5 e 6 dell’art. 41 del CCNL di settore e l’art. 97 del TUEL, nonché l’art. 108, comma 4, del TUEL, ha evidenziato che alla COGNOME erano stati conferiti gli incarichi di cui all’art. 97 TUEL lett. da a) a d) ed ha invece escluso che alla medesima fossero state conferite mansioni proprie del Direttore Generale.
Ha aggiunto che la COGNOME non aveva allegato né provato di avere svolto tali mansioni; ha dunque ricordato che per le amministrazioni pubbliche è doveroso recuperare le somme indebitamente erogate e che ai fini del decorso degli interessi l’espressione ‘dal giorno della domanda’ non va intesa come riferita esclusivamente la domanda giudiziale, ma comprende anche gli atti stragiudiziali con valore di costituzione in mora ai sensi dell’articolo 1219 cod. civ.
Avverso tale sentenza NOME COGNOME ha proposto ricorso per cassazione sulla base di tre motivi.
Il Comune di Altamura, oltre a resistere con controricorso, ha proposto ricorso incidentale condizionato sulla base di un unico motivo, illustrato da memoria.
DIRITTO
1.Con il primo motivo il ricorso denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3 cod. proc. civ., falsa applicazione dell’art. 2033 cod. civ., in relazione all’art. 1429 cod. civ.
Addebita alla Corte territoriale di avere erroneamente sussunto la fattispecie nell’art. 2033 cod. civ. , essendo invece applicabile l’art. 1429 cod. civ.
Critica la sentenza impugnata per avere ritenuto la sussistenza di un pagamento sine titulo .
Evidenzia che il Comune aveva dedotto di avere effettuato il pagamento delle maggiorazioni nei confronti della COGNOME, sulla base di un’erronea interpretazione del CCNL.
Con il secondo motivo il ricorso denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3 cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 2033 cod. civ. e dell’art. 2126 cod. civ.
Deduce che la tutela del legittimo affidamento costituisce un limite alla possibilità di caducare gli effetti di un contratto; richiama la sentenza della Corte costituzionale n. 108/2016 in tema di mansioni superiori.
Sostiene che la sopravvenuta interpretazione di una norma contrattuale non possa avere effetti retroattivi e che l’eventuale caducazione del titolo contrattuale non produce effetto per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione.
I primi due motivi, che per ragioni di connessione logica vanno trattati congiuntamente, sono infondati.
Nel prospettare l’applicabilità dell’art. 1429 cod. civ. e nel sostenere l’erronea sussunzione della fattispecie nell’art. 2033 cod. civ., la censura richiama precedenti di questa Corte che non sono conferenti, in quanto riguardanti ipotesi di lavoro privato e non di impiego alle dipendenze della P.A. (Cass. 818 del 2007; Cass. n. 5552 del 2011; Cass. n. 19923 del 2014).
Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte ( ex multis Cass. 8136/2025), nel pubblico impiego privatizzato trova applicazione il diverso principio secondo cui non è configurabile un diritto quesito del dipendente a percepire -o a trattenere se già corrisposto- un trattamento economico che non trova titolo nel contratto collettivo, nemmeno se di miglior favore, e secondo cui l’affidamento ingenerato dalla sua corresponsione non vale a consolidare tale diritto, poiché, secondo Corte cost. n. 8 del 2023, in tal caso è ammissibile la sola tutela risarcitoria, eventualmente attraverso le regole di buona fede, ove ne sussistano i presupposti.
Nel caso di specie non sono in discussione le tutele sulla modalità di recupero, né la domanda è stata impostata sul piano della tutela risarcitoria, ma su quello della giustificatezza del pagamento eseguito, nel caso di specie insussistente; la sussistenza dell’indebito e l’assenza di ragioni ostative al suo recupero sono dunque sufficienti al fine di disattendere la domanda.
Si è in proposito chiarito che gli aspetti retributivi sono rimessi alla contrattazione collettiva, sicché, a differenza di quanto accade nel lavoro privato, resta del tutto irrilevante ad escludere l’indebito che la corresponsione da parte del datore pubblico sia avvenuta consapevolmente e volontariamente (tra le molte Cass. 9 maggio 2022, n. 14672).
Nel caso di specie l’indebito è conseguito all’erronea applicazione del CCNL, come interpretato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui ‘In tema di rapporto di impiego dei segretari comunali e provinciali, ai fini dell’applicazione della regola – ex art. 41, comma 5, del c.c.n.l. del 16 maggio 2001 – del c.d. “riallineamento” della retribuzione di posizione del segretario a quella stabilita per la funzione dirigenziale più elevata dell’ente, si deve tener conto dell’importo minimo, di cui al comma 3, della predetta retribuzione, comprensivo della maggiorazione eventualmente riconosciuta ai sensi del successivo comma 4, avuto riguardo, da un lato, all’interpretazione letterale del comma in questione, che, nell’attribuire alle parti la facoltà di maggiorare i compensi del segretario, richiama quelli di cui al precedente comma 3 e non quelli del comma 5; nonché, dall’altro, alla funzione non corrispettiva bensì perequativa del “riallineamento”, sicchè è aderente alla “ratio” della disposizione pattizia – da individuarsi nella particolarità delle funzioni che il segretario espleta presso l’ente locale – che alla perequazione si pervenga con riferimento alla retribuzione di posizione complessiva. (Cass. n. 5284 del 2018; Cass. n. 1606 del 2021).
Vi è dunque un’inesistenza originaria del titolo, con conseguente diritto/dovere dell’Amministrazione di recuperare quanto pagato, come prescrive anche l’art. 7, c. 5, d.lgs. n. 165/2001, che vieta alle amministrazioni pubbliche di «erogare trattamenti economici accessori che non corrispondano alle prestazioni effettivamente rese».
Non si verte nell’ipotesi in cui la legge o il contratto collettivo stabiliscono le condizioni alle quali possono essere erogati ma rimettono a un’ulteriore valutazione da parte dell’amministrazione e a un’ulteriore attività negoziale l’individuazione del soggetto beneficiario e/o la determinazione del quantum , che potrebbe essere ricondotta all’ipotesi normativa dell’errore di fatto su di una
qualità dell’altro contrente, che sia stata determinante per il consenso (art. 1429, n. 3, cod. civ.) .
In ordine all’invocata applicazione dell’art. 2126 cod. civ., la Corte territoriale ha comunque accertato che le funzioni svolte dalla COGNOME rientravano in quelle del Segretario ex art. 97 del TUEL lettere da a) a d), e non in quelle previste dall’art. 108 del TUEL.
Deve peraltro rammentarsi che questa Corte, dopo avere ribadito l’obbligo per le amministrazioni pubbliche di applicare la contrattazione collettiva del comparto di appartenenza, ha precisato che «risulta inapplicabile a tale ipotesi la norma di cui all’art. 2126 cod. civ., in quanto quest’ultima previsione è riferita all’ipotesi di prestazione lavorativa resa sulla base di un contratto nullo e non all’ipotesi – che nella specie ricorre – in cui il vizio di nullità non concerna il rapporto lavorativo in sé bensì la sua irregolare regolamentazione tramite un atto dispositivo viziato adottato dall’Amministrazione datrice di lavoro, la quale venga ad applicare un trattamento economico diverso da quello previsto dalla fonte legale vincolante, e cioè la contrattazione collettiva di settore ( Cass. n. 16150/2024).
Si è inoltre chiarito che nei rapporti di pubblico impiego privatizzato, il trattamento economico del dipendente scaturisce dalla combinazione delle regole della contrattazione collettiva sulla misura della retribuzione con quelle sull’inquadramento del personale, senza possibilità di riconoscere trattamenti e inquadramenti non previsti dalla stessa contrattazione collettiva o dalla legge, nemmeno se di miglior favore; di conseguenza, non è configurabile un diritto quesito del dipendente a continuare a percepire somme erogate in contrasto con tali previsioni, principio che vale anche per le retribuzione spettanti ex art. 2126 c.c. e per le somme percepite a titolo di T.F.R., il quale può essere riconosciuto solo nella misura derivante dalle retribuzioni dovute in base alla piena e corretta applicazione della contrattazione collettiva. (Cass. Sez. L., 27/03/2025, n. 8134).
Con il terzo motivo, il ricorso denuncia violazione e falsa applicazione degli art. 437 cod. proc. civ. e dell ‘art. 115 cod. proc. civ., anche in relazione all’art. 2375 cod. civ., in relazione all’art. 360, comma primo, n. 3, cod. proc. civ.
Critica la sentenza impugnata per avere ritenuto tardivamente introdotta la questione relativa allo svolgimento di mansioni superiori; evidenzia che l’atto di appello si era limitato a qualificare come mansioni superiori le mansioni aggiuntive, lasciando immutati i fatti costitutivi della domanda.
Evidenzia che la maggiorazione retributiva aveva costituito il corrispettivo per lo svolgimento di mansioni dirigenziali.
Aggiunge che lo svolgimento delle mansioni di Direttore Generale aveva costituito oggetto di una dichiarazione confessoria ed era incontestato tra le parti.
6. Il motivo è inammissibile.
L a censura riguardante l’erroneità della statuizione sulla tardività della questione relativa allo svolgimento di mansioni superiori è priva di rilevanza, in quanto l a Corte d’Appello ha accertato l’insussistenza di allegazione e prova dello svolgimento, da parte della COGNOME, delle funzioni previste dall’art. 108 TUEL.
Nella restante parte, il motivo prospetta in modo del tutto generico la sussistenza di una confessione, con un generico riferimento alle mansioni che il Comune avrebbe ammesso di avere affidato alla COGNOME (‘nuovi ed ulteriori compiti di cui la gran parte tipici del Direttore Generale’ e ‘compiti macrogestionali tipici del ‘Direttore Generale’).
La censura non precisa dunque il fatto a sé sfavorevole che il Comune avrebbe ammesso, ma contiene piuttosto valutazioni e qualificazioni.
Inoltre, il motivo, nel sollecitare la valorizzazione del principio di non contestazione e la disamina di documenti allegati al ricorso di primo grado non menzionati dalla sentenza impugnata, non indica gli atti dei gradi di merito in cui sarebbe stata dedotta la questione della confessione e non localizza in modo preciso tali documenti.
Deve in proposito rammentarsi che spetta al giudice del merito apprezzare, nell’ambito del giudizio di fatto al medesimo riservato, l’esistenza ed il valore di una condotta di non contestazione dei fatti rilevanti, allegati dalla controparte (Cass. n. 3680/2019 e negli stessi termini Cass. n. 27490/2019).
In ragione del rigetto del ricorso principale, il ricorso incidentale condizionato, che denuncia l’omessa pronuncia, in relazione all’art. 360, comma
primo, n. 4 cod. proc. civ. sulla questione dell’applicabilità della regola del riallineamento di cui all’art. 41, comma 5, del CCNL , deve pertanto ritenersi assorbito.
Il ricorso principale va pertanto rigettato, assorbito il ricorso incidentale condizionato.
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
Sussistono le condizioni per dare atto, ai sensi dell’art.13, comma 1 quater, del d.P.R. n.115 del 2002, dell’obbligo, per il ricorrente principale, di versare l’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l’impugnazione integralmente rigettata, se dovuto.
PQM
La Corte rigetta il ricorso principale, assorbito il ricorso incidentale condizionato e condanna la ricorrente principale al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 200,00 per esborsi ed in € 4.000,00 per compensi professionali, oltre al rimborso spese generali nella misura del 15% e accessori di legge;
dà atto della sussistenza dell’obbligo per la ricorrente principale, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n.115 del 2002, di versare l’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l’impugnazione integralmente rigettata, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Lavoro della