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Retribuzione dirigenziale: quando va restituita?

La Cassazione chiarisce che la retribuzione dirigenziale accessoria, se erogata da un ente pubblico senza rispettare i presupposti di legge (come l’istituzione di un apposito fondo), deve essere restituita. Tuttavia, ha accolto i motivi procedurali di un dirigente, annullando la sentenza d’appello per omessa pronuncia su questioni cruciali come il minimo contrattuale e un precedente giudicato.

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Pubblicato il 19 novembre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile, Procedura Civile

Retribuzione dirigenziale: la Cassazione stabilisce i limiti per la restituzione

L’erogazione della retribuzione dirigenziale nel settore pubblico è un tema complesso, vincolato a rigide normative. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ha affrontato il caso di un dirigente a tempo determinato a cui un Comune chiedeva la restituzione delle somme percepite a titolo di retribuzione di posizione e di risultato. La decisione finale, pur confermando alcuni principi cardine, ha cassato la sentenza di merito per vizi procedurali, aprendo a un nuovo esame della vicenda.

I Fatti di Causa

Un architetto, dirigente a tempo determinato presso un ente locale, si vedeva notificare un decreto ingiuntivo con cui l’amministrazione chiedeva la restituzione di somme percepite come retribuzione accessoria (di posizione e di risultato) tra il 2005 e il 2007. L’ente sosteneva che tali emolumenti fossero stati erogati indebitamente, in assenza dei presupposti richiesti dalla legge e dalla contrattazione collettiva.

Nei primi due gradi di giudizio, le corti davano sostanzialmente ragione all’ente. La Corte d’Appello, in particolare, aveva rigettato il ricorso del dirigente, confermando che la retribuzione accessoria non era dovuta per la mancanza di un contratto integrativo decentrato, la mancata costituzione dell’apposito fondo per la dirigenza e l’assenza di un controllo sulla compatibilità dei costi con i vincoli di bilancio.

Il dirigente, non arrendendosi, proponeva ricorso in Cassazione, basandolo su otto distinti motivi, sia di natura sostanziale che procedurale.

Analisi della Cassazione sui motivi del ricorso

La Corte di Cassazione ha esaminato meticolosamente ciascun motivo, giungendo a una decisione articolata. Ha rigettato i motivi che mettevano in discussione i principi fondamentali in materia di retribuzione dirigenziale pubblica, ma ha accolto quelli che denunciavano errori procedurali da parte della Corte d’Appello.

I presupposti della retribuzione dirigenziale

La Corte ha ribadito un principio consolidato: la retribuzione accessoria dei dirigenti, anche di quelli a tempo determinato, deve essere finanziata attraverso l’apposito fondo previsto dalla contrattazione collettiva. Non è possibile attingere direttamente dal bilancio generale dell’ente. Questo perché, nel pubblico impiego, il trattamento economico è definito in modo rigido e onnicomprensivo dai contratti collettivi, senza lasciare spazio a deroghe individuali.

Inoltre, la Corte ha respinto l’argomentazione del dirigente basata sull’art. 2126 c.c. (prestazione di fatto), specificando che tale norma non si applica a un semplice aumento della retribuzione per lo stesso incarico, ma solo a casi in cui la prestazione lavorativa è radicalmente diversa. Ha anche confermato che la normativa speciale (come il c.d. decreto “salva Roma”) non impedisce alla Pubblica Amministrazione di agire per la ripetizione dell’indebito (art. 2033 c.c.) nei confronti del dipendente.

Le Motivazioni della Decisione

Nonostante la conferma dei principi sostanziali a sfavore del dirigente, la Cassazione ha accolto due motivi di ricorso di natura puramente procedurale. In primo luogo, ha rilevato che la Corte d’Appello aveva omesso di pronunciarsi su un punto specifico sollevato dal dirigente: l’erronea condanna alla restituzione anche della quota di retribuzione di posizione minima, che lo stesso Comune aveva riconosciuto come dovuta. In secondo luogo, i giudici di merito non avevano esaminato l’eccezione relativa a un “giudicato esterno”, derivante da un precedente decreto ingiuntivo non opposto, che avrebbe potuto influire sulla decisione.

Queste omissioni costituiscono un vizio di “omessa pronuncia” (violazione dell’art. 112 c.p.c.), che impone l’annullamento della sentenza. La Corte ha quindi cassato la decisione impugnata, rinviando la causa alla Corte d’Appello di Lecce, in diversa composizione, per un nuovo esame che tenga conto dei motivi accolti.

Conclusioni

Questa ordinanza è emblematica della dualità del contenzioso nel pubblico impiego. Da un lato, riafferma la rigidità delle norme che regolano la retribuzione dirigenziale, sottolineando che qualsiasi erogazione non conforme ai presupposti legali e contrattuali è indebita e deve essere restituita, senza che il dipendente possa invocare la buona fede o l’errore dell’amministrazione. Dall’altro lato, evidenzia l’importanza cruciale del rispetto delle regole procedurali. Un errore del giudice, come l’omessa pronuncia su un motivo d’appello, può portare all’annullamento di una sentenza, anche se corretta nel merito. La vicenda, dunque, non è conclusa e sarà il giudice del rinvio a dover riconsiderare gli aspetti procedurali evidenziati dalla Cassazione.

Un dirigente pubblico deve restituire la retribuzione accessoria se pagata per errore dall’amministrazione?
Sì, secondo la Corte, il datore di lavoro pubblico è tenuto a ripetere le somme corrisposte senza titolo (sine titulo). La restituzione non è subordinata alla dimostrazione di un errore riconoscibile non imputabile al datore di lavoro stesso, a differenza di quanto accade nel settore privato.

La retribuzione di un dirigente a tempo determinato proviene da fondi diversi rispetto a quella di un dirigente a tempo indeterminato?
No. La Corte ha stabilito che anche per i dirigenti assunti con contratto a tempo determinato, le indennità accessorie, come la retribuzione di posizione, devono essere finanziate attraverso lo specifico fondo previsto per la dirigenza, e non possono essere prelevate direttamente dal bilancio generale dell’ente.

La Corte d’Appello può omettere di pronunciarsi su un motivo specifico del ricorso?
No, l’omessa pronuncia su uno o più motivi di appello costituisce un vizio della sentenza (error in procedendo). In questo caso, la Cassazione ha annullato la sentenza proprio perché la Corte territoriale non aveva esaminato due motivi specifici sollevati dal dirigente, riguardanti il minimo contrattuale e l’esistenza di un precedente giudicato.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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