Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 14781 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 14781 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 27/05/2024
ORDINANZA
sul ricorso 15938-2021 proposto da:
COGNOME NOME, elettivamente domiciliato in ROMA, INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME, rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore , elettivamente domiciliato in ROMA, INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME AVV_NOTAIO, che lo rappresenta e difende;
– controricorrente –
Oggetto
Retribuzione pubblico impiego
R.G.N. NUMERO_DOCUMENTO
COGNOME.
Rep.
Ud. 17/04/2024
CC
avverso la sentenza n. 161/2021 della CORTE D’APPELLO DI LECCE SEZIONE DISTACCATA DI TARANTO, del 24/03/2021 R.G.N. 313/2015;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 17/04/2024 dal AVV_NOTAIO.
RILEVATO CHE:
all’AVV_NOTAIO, dirigente a tempo determinato presso il Comune di Martina Franca, veniva notificato decreto ingiuntivo per la restituzione delle somme indebitamente percepite a titolo di retribuzione di posizione e di risultato dal 2005 al 2007;
il Tribunale accoglieva solo in parte l’opposizione del lavoratore, da un lato rilevando che la retribuzione di risultato e di posizione erano state erogate in assenza dei presupposti richiesti da legge e, dall’altro, ritenendo comunque non dovuti gli importi richiesti a titolo di ritenute fiscali;
la Corte territoriale, nel rigettare l’appello del COGNOME, riteneva non integrati i presupposti di legge per trattenere le retribuzioni accessorie percepite, e ciò per l’assenza di contratto integrativo decentrato, per la mancata costituzione del fondo per la dirigenza, per il mancato controllo della compatibilità dei costi relativi alla retribuzione accessoria con i vincoli di bilancio dell’ente locale;
sotto altro profilo, il giudice d’appello riteneva non applicabile il d.l. n. 16/2014 (c.d. decreto salva Roma) perché disciplinava solo l’ipotesi dello sforamento da parte dell’amministrazione dei vincoli finanziari della contrattazione decentrata, qui mancante;
non fondata si appalesava, in ragione del principio di onnicomprensività della retribuzione dirigenziale, la domanda di pagamento per i c.d. incarichi aggiuntivi formulata dal dirigente, seppure in via subordinata rispetto all’eventuale riconoscimento dell’avverso diritto alla restituzione delle somme percepite a titolo di retribuzione di posizione e di risultato;
per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso il COGNOME sulla base di otto motivi assistiti da memoria, cui si è opposto il Comune di Martina Franca con controricorso illustrato da memoria.
CONSIDERATO CHE:
con il primo motivo di ricorso si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 115 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360 comma 1, n. 4, cod. proc. civ.; il COGNOME, a differenza di quanto assunto dalla Corte di merito, non aveva mai ammesso la circostanza di aver percepito la retribuzione di posizione e di risultato in mancanza di costituzione del relativo fondo e in assenza di C.C.D.I.; anzi, aveva dedicato a tali temi uno specifico motivo di appello;
1.1 il motivo è inammissibile perché all’evidenza sollecita un riesame, che non può effettuato in questa sede di legittimità, di documenti del processo (per esempio il richiamato verbale del MEF del 23.4.2009 e la relazione della Corte dei conti n. 157PRSP/10) e di ulteriori atti processuali, come le osservazioni depositate il 30.10.2014 dallo stesso consulente del COGNOME;
1.2 inoltre, laddove denuncia l ‘error in procedendo nel quale la Corte distrettuale sarebbe incorsa, il motivo è formulato senza il rispetto degli oneri di specifica indicazione e di allegazione imposti dagli artt. 366 n. 6 e 369 n. 4 cod. proc. civ., perché non trascrive, neppure in parte, il contenuto delle difese da cui si evincerebbe l’inequivoca negazione dei fatti ritenuti pacifici dai giudici di secondo grado;
è noto che il requisito imposto dal richiamato art. 366, comma 1, n. 6 cod. proc. civ. deve essere verificato anche in caso di denuncia di errores in procedendo , rispetto ai quali la Corte è giudice del «fatto processuale», perché l’esercizio del potere/dovere di esame diretto degli atti è subordinato al rispetto delle regole di ammissibilità e di procedibilità stabilite dal codice di rito, in nulla derogate dall’estensione ai profili di fatto del potere cognitivo del giudice di legittimità (Cass. S.U. n. 8077/2012);
la parte, quindi, non è dispensata dall’onere di indicare in modo specifico i fatti processuali alla base dell’errore denunciato e di riportare nel ricorso, nelle parti essenziali, gli atti rilevanti, non essendo consentito il mero rinvio per relationem , perché la Corte di Cassazione, anche quando è giudice del fatto processuale, deve essere posta in condizione di valutare ex actis la fondatezza della censura e deve procedere solo ad una verifica degli atti stessi non già alla loro ricerca (cfr. fra le più recenti Cass. S.U. n. 20181/2019; Cass. n. 20924/2019);
in questa cornice, l’icastica espressione della difesa del COGNOME secondo cui il giudice d’appello avrebbe deciso sulla base di ‘prove immaginarie’, dando per ‘pacifiche’ violazioni mai ammesse dalla parte, si rivela francamente generica, e non tiene conto di quanto questa Corte ha più volte affermato, ed il principio deve essere qui ribadito, che spetta al giudice del merito apprezzare, nell’ambito del giudizio di fatto al medesimo riservato, l’esistenza ed il valore di una condotta di non contestazione dei fatti rilevanti, allegati dalla controparte (Cass. n. 3680/2019; Cass. n. 27490/2019);
con il secondo mezzo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 110 t.u.e.l., dell’art. 26 c.c.n.l. Dirigenza funzioni locali 23.12.1999, dell’art. 1372 cod. civ., in relazione all’art. 360 comma 1, n. 3, cod. proc. civ.; la sentenza è errata nella
parte in cui afferma che la retribuzione di posizione avrebbe dovuto essere reperita dal fondo apposito per la dirigenza, e ciò anche nell’ipotesi di dirigenza a termine; dalle disposizioni appena richiamate si può solo ricavare, ad avviso del ricorrente, che le risorse per la retribuzione di posizione debbono essere rinvenute nel bilancio dell’ente;
2.1 il motivo è infondato; infatti, l’art. 26 del C.C.N.L. Area della Dirigenza del Comparto Regioni-Autonomie locali del 23 dicembre 1999 va interpretato nel senso che nella determinazione del fondo in esso previsto deve tenersi conto delle posizioni dirigenziali effettivamente coperte all’interno dell’organico dell’ente e che lo stesso fondo va utilizzato anche per le indennità spettanti ai dirigenti assunti con contratto a tempo determinato;
a tale orientamento, inaugurato da Cass. n. 9645/2012 e poi confermato da Cass. n. 13929/2022, si intende nella presente sede dare continuità;
lo stesso si armonizza con altro principio, egualmente consolidato, secondo cui non si ravvisano ragioni per non estendere la disciplina normativa e contrattuale compatibile con la natura a termine dell’incarico, e ciò in quanto al rapporto di lavoro dei dirigenti assunti dagli enti locali con contratto a tempo determinato non possono non applicarsi – in forza del richiamo di cui all’art. 110 del testo unico degli enti locali e tenuto conto del divieto di trattamento differenziato del lavoratore a termine che non sia giustificato da obbiettive ragioni, di cui alla clausola 4 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, attuato con la direttiva 28 giugno 1999/70/CE – le garanzie previste, in favore dei dirigenti a tempo indeterminato, dalla contrattazione collettiva e dal d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (Cass., Sez. L, Sentenza n. 5516 del 19/03/2015);
con il terzo mezzo si denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360 comma 1, n. 4, cod. proc. civ.;
la Corte territoriale aveva omesso di pronunciarsi sul motivo di appello n. 2 con il quale l’ex-dirigente evidenziava la nullità della sentenza di primo grado per violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato: il giudice di prime cure non aveva riconosciuto e, conseguentemente, stornato dall’ammontare dell’indebito la retribuzione di posizione pari al minimo contrattuale;
al contrario, aveva disposto la restituzione dell’intera retribuzione di posizione (euro 77.937,69 lordi, pari a netti euro 47.885,81) perché, condividendo in toto le risultanze della CTU, aveva ritenuto che la retribuzione di posizione pari al minimo contrattuale – riconosciuto nel ricorso monitorio del Comune – non fosse dovuta e, per l’effetto, aveva condannato l’ex-dirigente alla restituzione di somme financo superiori rispetto a quelle richieste ex adverso in INDIRIZZO (euro 61.392,06 lordi, pari a netti euro 31.350,00);
3.1 il motivo è fondato;
i giudici di secondo grado, pur pronunciandosi sulla spettanza del minimo contrattuale della retribuzione di posizione (‘le somme corrisposte ai dipendenti non erano per nulla dovute, a parte il minimo contrattuale’: così a pag. 3, 1° cpv., sentenza impugnata; v. altresì a pag. 2, righi da 20 a 24), nulla hanno detto, però, sul secondo motivo d’appello che sollevava, come testualmente riportato nel ricorso per cassazione, la questione, diversa, dell’erronea esclusione dal quantum debeatur restitutorio del minimo contrattuale;
va sottolineato, inoltre, che la Corte distrettuale, non senza contraddizione, da un lato ha affermato che l’appello doveva essere rigettato nella sua interezza, dall’altro ha ritenuto che doveva essere salvaguardata la retribuzione di posizione nel suo importo minimo, poi inspiegabilmente negato;
con il quarto mezzo si lamenta la violazione dell’art. 161 comma 1 e dell’art. 156 comma 2 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360 comma 1 n. 4 cod. proc. civ.;
la sentenza d’appello, pur riconoscendo, in motivazione, il diritto del dirigente al minimo contrattuale della retribuzione di posizione, nega in dispositivo la sua spettanza, confermando integralmente la sentenza di primo grado;
4.1 il motivo resta assorbito per effetto dell’accoglimento della terza censura;
con il quinto motivo si lamenta (art. 360 comma 1, n. 4, cod. proc. civ.) la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ., per avere la Corte d’appello omesso di pronunciarsi sul motivo di appello n. 6 denominato ‘violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 cod. civ.’ con il quale si censurava la statuizione di primo grado che aveva violato il giudicato costituito dal decreto ingiuntivo non opposto n. 20/2010;
5.1. il motivo, formulato nel rispetto degli oneri di specificazione e di allegazione di cui agli artt. 366 n. 4 e 369 n. 6 cod. proc. civ., è fondato;
in effetti, i giudici di secondo grado hanno del tutto omesso di pronunciarsi (così incorrendo nel vizio denunciato) sul sesto motivo d’appello che sollevava espressamente la questione del giudicato esterno in relazione al decreto ingiuntivo non opposto recante n. 20/2020 (decreto ingiuntivo relativo anche alla retribuzione di posizione dei mesi di febbraio, marzo e aprile 2005);
con la sesta censura, proposta in via subordinata rispetto alla quinta, si deduce la violazione o falsa applicazione dell’art. 2909 cod. civ., in relazione all’art. 360 comma 1, n. 3, cod. proc. civ.;
ove anche si ritenesse che i giudici di secondo grado si fossero pronunciati sull’eccezione di giudicato esterno (i.e., decreto ingiuntivo n. 20/2010, G.L. Taranto, cit.), ne seguirebbe comunque la violazione dell’art. 2909 cod. civ.;
6.1. il motivo in esame, stante l’accoglimento della quinta censura, resta assorbito;
con il settimo mezzo si denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 23 c.c.n.l. 22.02.2006, 2 e 4 c.c.n.l. 14.05.2007, 14 c.c.n.l. 22.02.2010, 24 d.lgs. 165/2001, 36 Cost., 2126 e 2033 cod. civ., in relazione all’art. 360 comma 1, n. 3, cod. proc. civ.;
7.1. il motivo è infondato;
con esso si fa valere, in presenza di un contratto parzialmente nullo, il diritto a una retribuzione adeguata con applicazione dell’art. 2126 cod. civ.;
senonché, la norma di cui all’art. 2126 cod. civ. non trova applicazione qualora la prestazione si configuri quale mero aumento della retribuzione di posizione di un incarico dirigenziale e, dunque, non si ponga in una relazione sinallagmatica con una specifica prestazione lavorativa aggiuntiva, sì da comportare – dal punto di vista qualitativo, quantitativo e temporale – «il trasmodare dell’incarico originariamente attribuito in una prestazione radicalmente diversa» (Cass., ordinanza n. 36358 del 2021; Cass., n. 28966 del 2023);
ed infatti, il d.lgs. n. 165 del 2001 prevede, all’art. 24, che la retribuzione del personale con qualifica dirigenziale è esattamente determinata dai contratti collettivi per le aree dirigenziali e che il
trattamento economico, così stabilito, remunera tutte le funzioni e i compiti attribuiti ai dirigenti in base a quanto previsto dal medesimo decreto;
il trattamento economico, in definitiva, è quello e solo quello stabilito dalla contrattazione collettiva, ivi compreso il trattamento accessorio spettante in caso di conferimento temporaneo di mansioni diverse (Cass., Sez. L, n. 6021 del 2023);
né può valere addurre la non imputabilità al lavoratore – quanto, piuttosto, all’amministrazione – dell’indebito pagamento, perché anche sul punto la sentenza impugnata si è attenuta ai principi enunciati in sede di legittimità secondo cui «il datore di lavoro pubblico, a differenza di quello privato, è tenuto a ripetere le somme corrisposte sine titulo e che, per la particolare natura del rapporto nell’impiego pubblico fra contratto collettivo ed individuale, la restituzione non è subordinata alla previa dimostrazione di un errore riconoscibile non imputabile al datore medesimo» (v. Cass. n. 11645 del 2021);
8. con l’ottavo, ed ultimo, mezzo si denuncia (art. 360 comma 1, n. 3, cod. proc. civ.) violazione e falsa applicazione dell’art. 4 d.l. n. 16/2014, conv. in legge n. 68/2014, in relazione all’art. 12 preleggi;
la sentenza è viziata nella parte in cui adotta un’interpretazione dell’art. 4 d.l. n. 16/2014, cit., in violazione della dictio legis che esclude la possibilità di proporre l’azione di ripetizione dell’indebito nei confronti del singolo dipendente;
8.1. il motivo è infondato;
invero, l’interpretazione propugnata dal ricorrente, laddove afferma la non azionabilità della condictio indebiti nei confronti del singolo dipendente, si pone in conflitto con l’orientamento di legittimità, il quale ha chiarito che l’art. 4, comma 1, del d.l. n. 16 del 2014, conv., con modif., dalla legge n. 68 del 2014, non deroga all’art. 2033 cod. civ., con la conseguenza che la P.A. può, nelle ipotesi previste dal citato
art. 4, comma 1, recuperare, ai sensi del medesimo art. 2033 cod. civ., le somme illegittimamente versate direttamente dal dipendente che le abbia indebitamente percepite (Cass. n. 17648 del 20/06/2023); esente da censure è, pertanto, la decisione impugnata che ha ritenuto non preclusa dalla disposizione di cui sopra l’azione di recupero dell’ente locale;
conclusivamente, alla stregua delle considerazioni esposte, debbono essere accolti il terzo e il quinto motivo di ricorso, con assorbimento del quarto e del sesto e rigetto dei restanti;
l’impugnata sentenza va, conseguentemente, cassata in relazione ai motivi accolti con rinvio per nuovo esame alla Corte d’appello di Lecce, in diversa composizione.
P.Q.M.
La Corte accoglie il terzo e il quinto motivo, dichiara assorbito il quarto e il sesto, rigetta i restanti; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’appello di Lecce, in diversa composizione.
Roma, così deciso nella camera di consiglio del 17.04.2024.