Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 14768 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 14768 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 27/05/2024
ORDINANZA
sul ricorso 15724-2021 proposto da:
NOME, domiciliato in INDIRIZZO presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore , elettivamente domiciliato in ROMA, INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME AVV_NOTAIO, che lo rappresenta e difende;
– controricorrente –
Oggetto
Retribuzione pubblico impiego
R.G.N. 15724/2021
COGNOME.
Rep.
Ud. 17/04/2024
CC
avverso la sentenza n. 174/2021 della CORTE D’APPELLO DI LECCE SEZIONE DISTACCATA DI TARANTO, del 24/03/2021 R.G.N. 156/2016; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 17/04/2024 dal AVV_NOTAIO.
Rilevato che:
in data 12.02.2012 il Comune notificava all’ex-dirigente NOME COGNOME, dipendente a tempo determinato per il Comune di Martina Franca (con rapporto protrattosi dal 12.01.2009 al 31.08.2010 in virtù di proroghe contrattuali), decreto ingiuntivo di pagamento per la restituzione della somma indebitamente percepita a titolo di retribuzione di posizione relativa agli anni 2009-2010;
l’ex-dirigente proponeva opposizione chiedendo la declaratoria per difetto di giurisdizione in favore del giudice contabile e, nel merito, la revoca del decreto ingiuntivo;
il Tribunale, affermata la propria giurisdizione, rilevava che la retribuzione di posizione era stata erogata dal Comune in assenza dei presupposti di legge ma riduceva comunque il quantum debeatur escludendo l’importo richiesto a titolo di ritenute fiscali;
con sentenza del 24 marzo 2021, la Corte d’appello di LecceSezione distaccata di Taranto – confermava la sentenza di prime cure;
la Corte di merito escludeva la giurisdizione della magistratura contabile sulla base del presupposto che, in materia di pubblico impiego privatizzato, spetta al giudice ordinario la controversia promossa dal dipendente nei confronti dell’ente datore di lavoro
diretta ad accertare l’illegittimità della pretesa restitutoria dell’Amministrazione;
osservava che il Comune, con l’atto di costituzione nel giudizio di opposizione, non era incorso in una mutatio libelli perché la denunzia alla base della propria pretesa atteneva pur sempre alla natura indebita della retribuzione di posizione in quanto percepita in misura maggiore rispetto a quella minima prevista dal CCNL Area dirigenza RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE Locali 22.2.2006;
con riguardo al merito, confermava la conclusione del giudice di prime cure sull’assenza dei presupposti richiesti dal sistema normativo (art. 24, comma 1, d.lgs. n. 165/2001 e art. 4 CCNL, cit.) per l’erogazione della retribuzione di posizione in capo al dirigente (assenza contratto integrativo decentrato; mancata costituzione del fondo per la dirigenza e conseguente mancato controllo della compatibilità dei costi relativi alla retribuzione accessoria con i vincoli di bilancio dell’ente; ecc.);
il Collegio ribadiva che le relazioni del MEF e della Corte dei conti, pur sprovviste del valore di prova legale, erano elementi suscettibili di valutazione probatoria e si ponevano quale idonea conferma dell’illegittimità delle determinazioni dirigenziali e della derivata retribuzione di posizione;
avverso tale decisione il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione sulla base di sette motivi, cui si è opposto il Comune di Martina Franca con controricorso;
entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative.
Considerato che:
con il primo motivo si denuncia testualmente «violazione e falsa applicazione dell’art. 420 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360 n. 1 cod. proc. civ.; nullità della sentenza per violazione del principio del contraddittorio, in relazione all’art. 360 n. 4 cod. proc. civ.»;
il giudice d’appello non si era avveduto della mutatio libelli operata dal Comune che, in sede monitoria, aveva dedotto che il dirigente aveva percepito indebitamente per due volte la retribuzione di posizione e, in sede di giudizio d’opposizione, aveva aggiustato il tiro, sostenendo che la retribuzione di posizione era stata indebitamente erogata in misura superiore a quella minima prevista dal c.c.n.l. Area dirigenza RAGIONE_SOCIALE;
1.1 il motivo di ricorso, che denuncia l ‘error in procedendo nel quale la Corte distrettuale sarebbe incorsa, è formulato senza il rispetto degli oneri di specifica indicazione e di allegazione imposti dagli artt. 366 n. 6 e 369 n. 4 cod. proc. civ., perché non riporta, neppure nei passaggi salienti, il contenuto del ricorso monitorio e della memoria difensiva del successivo giudizio d’opposizione;
il requisito imposto dal richiamato art. 366, comma 1, n. 6 cod. proc. civ. deve essere verificato anche in caso di denuncia di errores in procedendo , rispetto ai quali la Corte è giudice del «fatto processuale», perché l’esercizio del potere/dovere di esame diretto degli atti è subordinato al rispetto delle regole di ammissibilità e di procedibilità stabilite dal codice di rito, in nulla derogate dall’estensione ai profili di fatto del potere cognitivo del giudice di legittimità (Cass. S.U. n. 8077/2012); la parte, quindi, non è dispensata dall’onere di indicare, in modo specifico, i fatti processuali alla base dell’errore denunciato e di riportare nel ricorso, nelle parti essenziali, gli atti rilevanti, non essendo consentito il mero rinvio per relationem , perché la Corte di Cassazione, anche quando è giudice del fatto processuale, deve essere posta in condizione di valutare ex actis la fondatezza della censura e deve procedere solo ad una verifica degli atti stessi non
già alla loro ricerca (cfr. fra le più recenti Cass. S.U. n. 20181/2019; Cass. n. 20924/2019);
come anticipato, il ricorrente non trascrive, nei passaggi salienti, il contenuto del ricorso monitorio e della successiva memoria difensiva del Comune nel giudizio d’opposizione e si limita a riportare un’unica frase dell’atto (asseritamente non valutata dalla Corte territoriale) ed a contrapporre una diversa lettura degli atti processuali rispetto a quella operata dalla Corte di merito, non consentendo in questa sede di effettuare, con la lettura del ricorso per cassazione, un iniziale vaglio sulla fondatezza della censura;
con il secondo mezzo si denuncia violazione dell’art. 37 cod. proc. civ. e della legge n. 20/1994, in relazione all’art. 360 comma 1 n. 1 cod. proc. civ.;
vi sarebbe difetto di giurisdizione del G.O., in quanto in presenza di danno erariale, la giurisdizione si radica innanzi alla Corte dei conti;
la Corte distrettuale ha rigettato l’eccezione di difetto di giurisdizione ponendo a fondamento della decisione un principio giurisprudenziale non pertinente perché non applicabile al caso di specie, in cui l’oggetto della pretesa non è di natura restitutoria ma risarcitoria;
2.1 il motivo è infondato;
in premessa occorre rilevare che con decreto del 10 settembre 2018 il Primo Presidente, in ragione degli orientamenti ormai consolidati sulle questioni di giurisdizione nella materia del pubblico impiego contrattualizzato, ha assegnato alla Sezione Lavoro anche i ricorsi per cassazione avverso le sentenze di giudici ordinari che affrontano dette questioni;
come affermato dalle S.U. di questa Corte (Sez . U, Ordinanza n. 4883 del 19/02/2019), «l’azione di responsabilità per danno erariale e quella di responsabilità civile promossa dalle singole amministrazioni
interessate davanti al giudice ordinario restano reciprocamente indipendenti, anche quando investano i medesimi fatti materiali, essendo la prima volta alla tutela dell’interesse pubblico generale, al buon andamento della P.A. e al corretto impiego delle risorse, con funzione prevalentemente sanzionatoria, e la seconda, invece, al pieno ristoro del danno, con funzione riparatoria ed integralmente compensativa, a protezione dell’interesse particolare della amministrazione attrice;
ne deriva che le eventuali interferenze tra i due giudizi integrano una questione non di giurisdizione ma di proponibilità dell’azione di responsabilità innanzi al giudice contabile, sempre che non sia contestata dinanzi a quest’ultimo la configurabilità stessa, in astratto, di un danno erariale, in relazione ai presupposti normativamente previsti per il sorgere della responsabilità amministrativa contestata dal P.G. contabile, nel qual caso si configura una questione di giurisdizione risolvibile dalle Sezioni Unite, essendo posta in discussione la “potestas iudicandi” del giudice contabile, la cui definizione è rimessa alla discrezionalità del legislatore ordinario, non essendo la Corte dei conti “il giudice naturale della tutela degli interessi pubblici e della tutela da danni pubblici” (Corte cost., nn. 355/2010, 46/2008, 641/1987);
orbene, tale sistema binario vale a maggior ragione per l’azione di ripetizione di indebito con la quale si fa valere la mancanza o la nullità del titolo e dell’obbligazione contrattuale che dallo stesso promana;
si è, infatti, precisato che, in materia di pubblico impiego privatizzato, appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia promossa dal dipendente nei confronti dell’ente datore di lavoro diretta ad accertare l’illegittimità della pretesa restitutoria dell’Amministrazione, ove la richiesta dell’ente medesimo sia
successiva al 30 giugno 1998, dovendosi ritenere che, nel caso di ripetizione d’indebito, integrino la nozione di “questione” ai sensi dell’art. 69, comma 7, del d.lgs. n. 165 del 2001, non solo i fatti rilevanti ai fini della sussistenza del diritto del lavoratore, ma anche la mutata valutazione e qualificazione della fattispecie concreta operata dall’ente con la richiesta di restituzione, atteso che solo a seguito di quest’ultima può dirsi insorta la lite tra l’Amministrazione e il dipendente (v. Cass., Sez. U, sent. n. 26650 del 22.12.2016; conf. Cass., Sez. U, ord. n. 21741 del 27.08.2019);
con la terza critica si denuncia la nullità della sentenza per l’omesso esame della censura relativa alla violazione dell’art. 2126 cod. civ., in relazione all’art. 360 comma 1, n. 4, cod. proc. civ., nonché error in procedendo , per violazione dell’art. 111 costituzione e degli artt. 112 e 113 comma 1, n. 4, cod. proc. civ.;
il dirigente aveva appellato la sentenza di primo grado che accertava la nullità parziale del contratto individuale di lavoro nella parte relativa all’ammontare della retribuzione di posizione determinata senza che fosse stato correttamente formato il fondo per la dirigenza richiesto dall’art. 26 CCNL;
la Corte d’appello non ha esaminato la doglianza del dirigente in base alla quale, quand’anche il contratto individuale di lavoro fosse nullo, il Comune non avrebbe potuto chiedere la restituzione delle somme pagate a titolo di retribuzione di posizione stante la previsione dell’art. 2126 cod. civ.;
3.1 il motivo è inammissibile;
l a deduzione del vizio di omessa pronuncia, nel caso in esame, non rispetta il principio consolidato di questa Corte, secondo cui «è inammissibile, per violazione del criterio dell’autosufficienza, il ricorso per cassazione col quale si lamenti la mancata pronuncia del giudice di appello su uno o più motivi di gravame, se essi non siano
compiutamente riportati nella loro integralità nel ricorso, sì da consentire alla Corte di verificare che le questioni sottoposte non siano “nuove” e di valutare la fondatezza dei motivi stessi senza dover procedere all’esame dei fascicoli di ufficio o di parte» (principio consolidato: Cass. 20/08/2015, n.17049);
alla luce di questo principio, il ricorrente avrebbe dovuto compiutamente trascrivere la parte argomentativa volta a confutare e contrastare l’affermazione del Tribunale, atteso che il requisito della specificità non può essere adeguatamente assicurato dal minimo stralcio dell’appello riportato nel ricorso per cassazione;
3.2 peraltro, il motivo trascura di considerare (e in tal senso la motivazione del giudice d’appello può essere in questa sede opportunamente integrata ex art. 384 cod. proc. civ.) che la norma di cui all’art. 2126 cod. civ. non trova applicazione qualora la prestazione si configuri quale mero aumento della retribuzione di posizione di un incarico dirigenziale e, dunque, non si ponga in una relazione sinallagmatica con una specifica prestazione lavorativa aggiuntiva, sì da comportare – dal punto di vista qualitativo, quantitativo e temporale -«il trasmodare dell’incarico originariamente attribuito in una prestazione radicalmente diversa» (Cass., ordinanza n. 36358 del 2021; Cass. n. 28966 del 2023);
ed infatti, il d.lgs. n. 165 del 2001 prevede, all’art. 24, che la retribuzione del personale con qualifica dirigenziale è determinata dai contratti collettivi per le aree dirigenziali e che il trattamento economico così stabilito remunera tutte le funzioni e i compiti attribuiti ai dirigenti in base a quanto previsto dal medesimo decreto;
il trattamento economico, in definitiva, è quello stabilito dalla contrattazione collettiva, ivi compreso il trattamento accessorio
spettante in caso di conferimento temporaneo di mansioni diverse (Cass., Sez. L, n. 6021 del 2023);
4. con il quarto motivo si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ., per mancanza di qualsiasi prova a fondamento della domanda, in relazione all’art. 360 comma 1, n. 3, cod. proc. civ., nonché error in procedendo per violazione degli artt. 112 e 132 comma 2, n. 4, cod. proc. civ. per motivazione al disotto del cd. minimo costituzionale, in relazione all’art. 360, n. 4, cod. proc. civ.; la sentenza impugnata è affetta da motivazione apparente nella parte in cui i giudici di secondo grado statuiscono, da un lato, che le relazioni del Ministero e della Corte dei conti non sono prove legali, e, dall’altro, che le conclusioni dei suddetti organi possono essere poste alla base della declaratoria di nullità parziale del contratto di lavoro;
4.1 il motivo è infondato, non essendoci alcuna contraddizione nell’aver ritenuto la Corte d’appello che le relazioni (dell’organo di Revisione, del Ministero e della Corte dei conti) non costituissero prova legale, ma materiale probatorio liberamente valutabile e, come tale, suscettibile di essere posto a base della decisione;
nel vigente ordinamento processuale, manca, infatti, una norma di chiusura sulla tassatività tipologica dei mezzi di prova, sicché il giudice può legittimamente porre a base del proprio convincimento anche prove cd. atipiche, quali le dichiarazioni scritte provenienti da terzi, della cui utilizzazione fornisca adeguata motivazione e che siano idonee ad offrire elementi di giudizio sufficienti, non smentiti dal raffronto critico con le altre risultanze istruttorie, senza che ne derivi la violazione del principio di cui all’art. 101 cod. proc. civ., atteso che, sebbene raccolte al di fuori del processo, il contraddittorio si instaura con la produzione in giudizio (Cass., Sez. 1, 1/9/2015, n. 17392; Cass., Sez. 3, 10/11/2020 n. 25162);
quanto, poi, alla denunciata violazione dell’art. 2697 cod. civ., essa può assumere rilievo, ex art. 360 n. 3 cod. proc. civ., solo qualora il giudice del merito, a fronte di un quadro probatorio incerto, abbia fondato la soluzione della controversia sul principio actore non probante reus absolvitur ed abbia errato nella qualificazione del fatto, ritenendolo costitutivo della pretesa mentre, in realtà, lo stesso doveva essere qualificato impeditivo; solo in tale evenienza, infatti, l’errore condiziona la decisione, poiché fa ricadere le conseguenze pregiudizievoli dell’incertezza probatoria su una parte diversa da quella che era tenuta, secondo lo schema logico regola-eccezione, a provare il fatto incerto;
diverso è il caso che si verifica allorquando il giudice, come nel caso di specie, valutate le risultanze istruttorie, ritenga provata o non provata una determinata circostanza di fatto rilevante ai fini di causa perché in detta ipotesi la doglianza sulla valutazione espressa, in quanto estranea all’interpretazione della norma, va ricondotta al vizio di cui all’art. 360 n. 5 cod. proc. civ. e, quindi, può essere apprezzata nei limiti fissati dalla disposizione, nel testo applicabile ratione temporis e come interpretata dalla costante giurisprudenza di questa Corte che, a partire da Cass. S.U. n. 8053/2014, ha escluso ogni rilevanza dell’omesso esame di documenti o di risultanze probatorie ove il ‘fatto storico’ sia stato comunque apprezzato e valutato dal giudice del merito;
con la quinta critica si lamenta error in procedendo per violazione degli artt. 112 e 132 comma 2, n. 4, cod. proc. civ., in relazione all’art. 360 comma 1, n. 4, cod. proc. civ.;
la Corte distrettuale ha omesso di esaminare il quarto motivo di appello secondo il quale, per poter dichiarare la nullità parziale del contratto di lavoro individuale, occorreva prima una declaratoria (non richiesta dal Comune) di nullità -e la conseguente
disapplicazione – delle determine dirigenziali che avevano quantificato il trattamento retributivo;
5.1 la censura non può trovare accoglimento;
questa Corte ha già affermato, ed il principio deve essere qui ribadito, che «il vizio di omessa pronuncia – configurabile allorché risulti completamente omesso il provvedimento del giudice indispensabile per la soluzione del caso concreto – non ricorre nel caso in cui, seppure manchi una specifica argomentazione, la decisione adottata in contrasto con la pretesa fatta valere dalla parte ne comporti il rigetto» ( Cass., Sez. 2, n. 12652 del 25/06/2020);
ciò perché il giudice non è tenuto ad occuparsi espressamente e singolarmente di ogni allegazione, prospettazione ed argomentazione delle parti, risultando necessario e sufficiente, in base all’art. 132, n. 4, c.p.c., che esponga, in maniera concisa, gli elementi in fatto ed in diritto posti a fondamento della sua decisione, e dovendo ritenersi per implicito disattesi tutti gli argomenti, le tesi e i rilievi che, seppure non espressamente esaminati, siano incompatibili con la soluzione adottata e con l'”iter” argomentativo seguito;
nella specie la Corte territoriale, nel ritenere legittima l’azione di ripetizione di indebito, ha implicitamente disatteso anche la tesi, reiterata nel motivo di appello, secondo cui sarebbe stata necessario il previo accertamento della nullità del contratto individuale e delle deliberazioni adottate dal Comune di Martina Franca;
si aggiunga che il giudice d’appello non si è discostato dall’orientamento consolidato espresso da questa Corte secondo cui qualora il datore di lavoro “attribuisca al lavoratore un determinato trattamento economico di derivazione contrattuale, l’atto deliberativo non è sufficiente a costituire una posizione giuridica soggettiva in capo al lavoratore medesimo, occorrendo anche la conformità alle previsioni della contrattazione collettiva, in assenza della quale l’atto risulta
essere affetto da nullità, con la conseguenza che la Pubblica Amministrazione, anche nel rispetto dei principi sanciti dall’art. 97 Cost., è tenuta al ripristino della legalità violata” (cfr. Cass. n. 3826/2016, Cass. n. 16088/2016 e Cass. n. 25018/2017);
6. con la sesta censura si denuncia, in relazione all’art. 360 n. 4 cod. proc. civ., error in procedendo per violazione degli artt. 112 e 132, comma 2, n. 4, cod. proc. civ., stante l’esistenza di una motivazione al disotto del cd. minimo costituzionale;
la Corte di merito ha omesso di esaminare il quinto motivo d’appello, ritenendolo incomprensibile, ma esso era stato, in realtà, chiaramente formulato;
il Comune aveva sostenuto che la retribuzione di posizione era fissata con delibere dirigenziali adottate in violazione del CCNL: senonché, prima di agire per la ripetizione, l’ente locale avrebbe dovuto rinnovare l’intero iter procedimentale per verificare se le somme corrisposte erano effettivamente superiori a quelle comunque spettanti per legge ai dirigenti;
6.1. il motivo non è fondato, essendosi il giudice d’appello pronunciato escludendo che vi fosse, per poter agire in ripetizione, l’obbligo di ‘rinnovo della procedura’ intesa all’assegnazione della retribuzione di posizione;
peraltro, la violazione dell’obbligazione della PRAGIONE_SOCIALE di attivare e completare il procedimento finalizzato all’adozione del provvedimento di graduazione delle funzioni avrebbe potuto legittimare il dirigente interessato a chiedere non già l’adempimento di tale obbligazione o il trattenimento delle somme indebitamente erogate in base alle delibere dirigenziali in contestazione, ma al più il risarcimento del danno per perdita della chance di percepire, in presenza die presupposti di legge, la parte
variabile della retribuzione di posizione (Cass. n. 9200/2023; Cass. n. 28258/2023);
con la settima, ed ultima, critica si deduce error in procedendo per violazione dell’art. 112 in relazione all’art. 360 comma 1, n. 4, cod. proc. civ.;
la Corte distrettuale è incorsa in un vizio di ultrapetizione per aver accertato l’insussistenza dei presupposti per l’erogazione della retribuzione di posizione;
non avendo il Comune chiesto l’accertamento della nullità delle determinazioni dirigenziali con cui era stata calcolata la retribuzione di risultato, né la loro disapplicazione, non aveva la Corte territoriale alcun potere di accertare se tale componente della retribuzione spettasse o meno al dirigente;
7.1 il motivo è manifestamente infondato perché la Corte di merito ha pronunciato sull’azione di ripetizione di indebito – che era quella proposta – e sulla sussistenza delle condizioni a tal fine richieste;
valgano a riguardo le ragioni enunciate al punto 5.1 (qui da intendersi interamente riportate);
conclusivamente, il ricorso va rigettato;
le spese del giudizio di legittimità, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di legittimità che liquida in euro 3.000,00 per compensi ed euro 200.00 per esborsi, oltre rimborso spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da
parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 17 aprile 2024.