Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 19579 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 19579 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 15/07/2025
Oggetto
R.G.N.15167/2020
COGNOME
Rep.
Ud.08/04/2025
CC
ORDINANZA
sul ricorso 15167-2020 proposto da:
COGNOME rappresentati e difesi dall’avvocato NOME COGNOME
– ricorrenti –
contro
COGNOME COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME rappresentati e difesi dall’avvocato NOME COGNOME
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 704/2019 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 28/10/2019 R.G.N. 110/2018; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 08/04/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
Rilevato che
Il giudice di primo grado, in parziale accoglimento della domanda di cui ai ricorsi riuniti proposta dai lavoratori in epigrafe indicati: condannava NOME COGNOME al pagamento delle somme in dispositivo per ciascuno indicate in favore dei lavoratori NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME, a titolo di differenze retributive per 13^ , ferie godute e non pagate, permessi e tfr; sul presupposto che la retribuzione oraria fosse quella prevista dal c.c.n.l di riferimento, condannava poi COGNOME RAGIONE_SOCIALE di COGNOME NOME RAGIONE_SOCIALE. al pagamento delle somme in dispositivo per ciascuno indicate, in favore dei lavoratori NOME COGNOME e NOME COGNOME a titolo di differenze retributive per 13^, ferie godute e non pagate, permessi e tfr; respingeva la domanda di NOME COGNOME nei confronti di NOME COGNOME; respingeva la domande relativa alla retribuzione convenzionale per ora lavorata e concordata con ciascuno dei dipendenti e la domanda relativa alle differenze per espletamento di lavoro straordinario.
La Corte di appello di Firenze, in riforma della sentenza impugnata, modificava gli importi già riconosciuti a titolo di differenze retributive nei termini di cui al dispositivo e condannava NOME COGNOME al
pagamento delle somme in dispositivo indicate in favore di NOME COGNOME.
Il giudice d’appello riteneva provato l’accordo relativo alla retribuzione convenzionale per ciascuna voce lavorata <>, avendo accertato la esistenza della prassi aziendale di concordare e pagare un trattamento retributivo basato sulla retribuzione convenzionale per ciascuna ora lavorata. Da tanto scaturiva la presunzione che tale corrispettivo andava a remunerare la sola prestazione ordinaria, non avendo i datori di lavoro, sui quali ricadeva il relativo onere, provato la esistenza di un patto di conglobamento; in conseguenza, ai lavoratori spettava il trattamento retributivo basato sulla (maggiore) retribuzione convenzionale oraria come dedotto in domanda, invece che sulla (minore) retribuzione oraria come da c.c.n.l.. Ciò posto il giudice di appello, ritenuta ammissibile la produzione documentale di secondo grado dei datori di lavoro, disponeva il rinnovo della consulenza tecnico contabile, sulla cui base rideterminava il quantum a ciascuno spettante.
Per la cassazione della decisione hanno proposto ricorso con unico atto di impugnazione NOME COGNOME in qualità di socio superstite della società estinta RAGIONE_SOCIALE e NOME COGNOME sulla
base di tre motivi; gli intimati hanno resistito con controricorso.
Considerato che
Con il primo motivo di ricorso parte ricorrente deduce omesso esame di un fatto decisivo ex art. 360, comma 1 n. 5 c.p.c. e nullità della sentenza ex art. 360, comma 1 n. 4 c.p.c. . In relazione al primo profilo si duole della omessa considerazione della esistenza di un contratto sottoscritto tra le parti, risultante dal documento n. 24 prodotto in primo grado, dal quale si evinceva che tra il datore di lavoro ed i dipendenti era stata pattuita la paga oraria sindacale e non una paga convenzionale maggiore; in conseguenza, i maggiori importi percepiti dai dipendenti dovevano imputarsi ai sensi dell’art. 1193 c.c. alle voci di tfr, 13^ mensilità, ferie non godute e non retribuite, oggetto della pretesa azionata dai lavoratori; in questa prospettiva denunzia violazione degli artt. 2697, 2927 c,c., 2721 c.c. e degli artt. 115, 116, commi 1 e 2 e 246 c.p.c. In relazione al secondo profilo denunzia nullità della sentenza per mancata valutazione di prova documentale.
Il motivo è inammissibile per plurimi profili: a) difetta infatti la trascrizione, del documento della cui valutazione ci si duole, in termini idonei a consentire la verifica di fondatezza della censura articolata sulla base del solo esame del ricorso per cassazione, come viceversa prescritto dall’art. 366, primo comma, n. 4 e n. 6 c.p.c., secondo cui il ricorso per cassazione deve contenere gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede
la cassazione della sentenza di merito ed altresì a permettere la valutazione della fondatezza di tali ragioni, mediante trascrizione integrale del documento che si denunci non o male valutato, posto che il controllo deve essere consentito alla Corte sulla base delle sole deduzioni contenute nell’atto, alle cui lacune non è possibile sopperire con indagini integrative (Cass., n.4405/2006, Cass., n. 14973/2006, Cass. n. 19138/2004); parte ricorrente non ha assolto a tale onere stante la inadeguatezza ed insufficienza al fine della verifica demandata alla Corte di legittimità della trascrizione solo parziale del contenuto del documento, trascrizione peraltro connotata da plurime sequenze di puntini sospensivi (v. in particolare ricorso, pag. 11), quale elemento concorrente di incertezza nella ricostruzione del relativo contenuto; b) non si ravvisa già in astratto decisività della omissione denunziata alla luce della complessiva ricostruzione fattuale operata dal giudice di merito che ha accertato la prassi aziendale per cui era concordato e pagato un trattamento retributivo basato sulla retribuzione convenzionale e la esistenza di una contabilità ‘ in nero ‘ per tutti i lavoratori, rispetto alla quale ha ritenuto non rappresentativo il dato formale tratto dalle buste paga; nel contesto del complessivo accertamento quindi la formalizzazione del trattamento retributivo nei termini indicati nelle lettere di assunzione con riferimento alla retribuzione del contratto collettivo è stata implicitamente presa in considerazione e ritenuta non rispondente alla realtà dell’accordo ma funzionale al coordinamento con le buste paga, accertate come pacificamente fittizie (sentenza, pag. 5, ultimo
capoverso). Tanto assorbe la deduzione di nullità della sentenza per mancata valutazione di prova documentale.
Con il secondo motivo parte ricorrente deduce violazione o falsa applicazione degli artt. 2697, 2727, 1414, 1417 e 2721 c.c. e degli artt. 115 e 116 comma 1. c.p.c. nonché dell’art. 246 c.p.c. Censura la sentenza impugnata sotto il profilo dell’errata uti lizzazione del ragionamento presuntivo denunziando che i prospetti prodotti dai lavoratori erano stati espressamente disconosciuti dalla parte datoriale; deduce violazione dell’art. 2729 c.c. in ragione dei limiti all’ammissibilità della prova testimoniale; con riferimento alla deposizione testimoniale del Ragusa, valorizzata dalla Corte di merito, deduce che la stessa, in quanto proveniente da un soggetto avente la qualità di parte in uno dei procedimenti originati di cui ai ricorsi successivamente riuniti non poteva essere utilizzata con riferimento alla posizione del Ragusa medesimo.
4. Il motivo deve essere respinto.
4.1. La sentenza impugnata ha ritenuto provata la dedotta prassi aziendale di concordare e pagare un trattamento retributivo basato sulla retribuzione convenzionale ed evidenziato che tale prassi era risultata avvalorata dalle lacune delle difese datoriali <>. Il giudice di appello ha poi dato atto delle contestazioni datoriali in ordine ai prospetti prodotti dalle controparti e della opposta ricostruzione fattuale dagli stessi propugnata e osservato
che tali deduzioni erano superate dalle buste paga palesemente fittizie.
4.2. L’accertamento datoriale si sottrae alle censure formulate con il motivo in esame in quanto: a) non sussiste violazione dell’art. 2697 c.c., atteso che la sentenza impugnata non ha mostrato di attribuire l’onere della prova in relazione alla pretesa alle differenze retributive rivendicate, onere pacificamente gravante sui lavoratori, alla parte datoriale non onerata; b) il ricorso al ragionamento presuntivo non è sindacabile in sede di legittimità se non per incongruenza della motivazione in ordine alle inferenze tratte dal fatto certo, vizio che non risulta neppure formalmente denunziato; secondo il consolidato indirizzo di legittimità, in ogni caso, per costante giurisprudenza di legittimità, in riferimento agli artt. 2727 e 2729 c.c., spetta al giudice di merito valutare l’opportunità di fare ricorso alle presunzioni semplici, individuare i fatti da porre a fondamento del relativo processo logico e valutarne la rispondenza ai requisiti di legge, con apprezzamento di fatto che, ove adeguatamente motivato, sfugge al sindacato di legittimità, dovendosi tuttavia rilevare che la censura per vizio di motivazione in ordine all’utilizzo o meno del ragionamento presuntivo non può limitarsi a prospettare l’ipotesi di un convincimento diverso da quello espresso dal giudice di merito, ma deve fare emergere l’assoluta illogicità e contraddittorietà del ragionamento decisorio, restando peraltro escluso che la sola mancata valutazione di un elemento indiziario possa dare luogo al vizio di
omesso esame di un punto decisivo, e neppure occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, essendo sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile, secondo criterio di normalità, visto che la deduzione logica è una valutazione che, in quanto tale, deve essere probabilmente convincente, non oggettivamente inconfutabile (ex plurimis, Cass., n. 22366/2021.; c) non sussiste violazione del l’art. 2729, comma 2, c.p.c. perché il divieto posto dalla disposizione in oggetto viene meno stante la facoltà di ammettere la prova testimoniale della simulazione al di fuori dei limiti previsti dall’art. 1417 cod. civ., in quanto l’art. 421 cod. proc. civ., nel consentire l’ammissione dei mezzi di prova “anche fuori dei limiti stabiliti dal codice civile”, si riferisce, per la prova testimoniale, alle disposizioni generali di cui agli artt. 2721, 2722 e 2723 cod. civ. alle quali si collega il citato art. 1417 cod. civ.( Cass. 7465/2002, Cass, n. 9228/2009); d) la deduzione di violazione dell’art. 246 c.p.c. risulta infondata alla luce della giurisprudenza di questa Corte secondo la quale ‘ L’interesse che, ai sensi dell’art. 246 c.p.c., determina l’incapacità a testimoniare è solo quello giuridico, personale, concreto ed attuale che comporta o una legittimazione principale a proporre l’azione ovvero una legittimazione secondaria ad intervenire in un giudizio già proposto da altri cointeressati; non rileva, quindi, l’interesse di mero fatto che un testimone può avere a che venga decisa in un certo modo la controversia in cui depone, pendente fra altre parti, ma identica a quella
vertente tra lui ed un altro soggetto, senza che assuma rilievo il fatto che quest’ultimo sia, a sua volta, parte del giudizio in cui dev’essere resa la testimonianza; né l’incapacità a testimoniare può sorgere in caso di riunione di cause connesse per identità di questioni, incidendo detta riunione solo sull’attendibilità delle deposizioni’ (Cass. n. 26044/2023); nel ragionamento decisorio della Corte la deposizione del teste COGNOME è stata valutata in concorso con altri elementi ed in particolare alla luce della condotta processuale della parte convenuta (cfr. riferimento alle lacune della difesa datoriale) e non ha quindi costituito fonte esclusiva del convincimento del giudice; la utilizzazione di tale deposizione per ricostruire dei passaggi operativi connessi alla prassi aziendale di concordare una retribuzione convenzionale superiore a quella stabilita dai contratti collettivi, risulta del resto in linea con il principio secondo il quale, nel rito del lavoro, le risposte rese dalle parti in sede di interrogatorio libero ex art. 420 cod. proc. civ. sono liberamente utilizzabili dal giudice come elemento di convincimento, soprattutto se riguardino fatti che possono essere conosciuti solo dalle parti medesime, o non siano contraddette da elementi probatori contrari, e possono arrivare a costituire anche l’unica fonte di convincimento (Cass. n. 20735/2014, Cass., n. 8066/2009, Cass., n. 4685/2002).
Con il terzo motivo di ricorso si deduce nullità della sentenza ex art. 360. Comma 1 n. 4 c.p.c. per omessa pronunzia su specifiche eccezioni formulate dalla odierna ricorrente.
6. Il terzo motivo di ricorso è infondato non ravvisandosi un’ipotesi di omessa pronunzia in relazione alle eccezioni concernenti la deposizione testimoniale del Ragusa; la Corte di merito ha infatti mostrato implicitamente di ritenerle infondate nel momento in cui ha utilizzato detta deposizione, unitamente ad altri elementi, per pervenire all’accertamento contestato dagli odierni ricorrenti. Tanto rende inconfigurabile il denunziato vizio di attività del giudice di merito, secondo quanto ripetutamente chiarito dalla S.C. che ha escluso il ricorrere del vizio di mancata pronuncia su una eccezione sollevata in appello qualora essa, anche se non espressamente esaminata, risulti incompatibile con la statuizione di accoglimento della pretesa dell’attore, deponendo per l’i mplicita pronunzia di rigetto dell’eccezione medesima, sicché il relativo mancato esame non può farsi valere quale omessa pronunzia, e, dunque, violazione di una norma sul procedimento (art. 112 c.p.c.) , bensì come violazione di legge e difetto di motivazione, in modo da portare il controllo di legittimità sulla conformità a legge della decisione implicita e sulla decisività del punto non preso in considerazione (Cass., n. 12131/2023, Cass., n. 24953/2020, Cass. n.14486/2004).
Al rigetto del ricorso consegue il regolamento secondo soccombenza delle spese di lite e la condanna del ricorrente al raddoppio del contributo unificato ai sensi dell’art. 13, comma quater d.p.r. n. 115/2002, nella sussistenza dei relativi presupposti processuali.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese di lite che liquida in € 7.500,00 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art.13, se dovuto.
Roma, così deciso nella camera di consiglio dell’8 aprile 2025
La Presidente Dott.ssa NOME COGNOME