Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 18068 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 18068 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 03/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso 10293-2022 proposto da:
COGNOME rappresentato e difeso dall’avvocato COGNOME;
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 498/2021 della CORTE D’APPELLO DI LECCE SEZIONE DISTACCATA DI TARANTO, depositata il 27/10/2021 R.G.N. 616/2015;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 02/04/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
La Corte d’appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, decidendo in sede di rinvio dalla Corte di cassazione (ordinanza
R.G.N. 10293/2022
COGNOME
Rep.
Ud. 02/04/2025
CC
27110 del 2014), premessa la nullità del termine apposto al contratto di lavoro concluso tra Poste Italiane RAGIONE_SOCIALE e NOME COGNOME il 28.2.2020, ha condannato la società al pagamento dell’indennità risarcitoria di cui all’art. 32, legge n. 183 del 2010, liquidata in misura corrispondente a 2,5 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. In accoglimento della domanda di Poste, ha condannato il COGNOME a restituire le somme ricevute in esecuzione della sentenza di primo grado nella parte eccedente l’importo ora liquidato, oltre interessi e rivalutazione.
Avverso la sentenza NOME COGNOME ha proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi. Poste Italiane spa ha resistito con controricorso, illustrato da memoria.
Il Collegio si è riservato di depositare l’ordinanza nei successivi sessanta giorni, ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c., come modificato dal d.lgs. n. 149 del 2022.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso si deduce l’incostituzionalità dell’art. 32, commi 5 e 6, della legge 183 del 2010 per contrasto con gli artt. 24, 101, 102 nonché 11, 111 e 117 Cost. e con l’art. 6 della CEDU, quanto alla disposta retroattività della disciplina introdotta dal citato art. 32.
Con il secondo motivo si denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., violazione degli artt. 2033 c.c. e dell’art. 38, d.P.R. 602/1973, per avere la Corte d’appello ordinato la restituzione della somma calcolata al lordo (euro 52.347,08) anziché di quella effettivamente ricevuta dal lavoratore e calcolata al netto degli oneri fiscali (euro 36.024,07).
Con il terzo motivo è dedotta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., violazione dell’art. 1224 c.c. o falsa applicazione dell’art. 429 c.p.c., per avere la Corte d’appello disposto la restituzione della somma indebitamente percepita dal COGNOME
maggiorata della rivalutazione monetaria, pur trattandosi di debito di valuta e pur non essendo dimostrato il maggior danno ex art. 1224, comma 2, c.c.
La richiesta, formulata col primo motivo di ricorso, di sollevare questione di legittimità costituzione dell’art. 32, non può trovare accoglimento atteso che i profili di contrasto con le disposizioni costituzionali sopra indicate sono stati tutti esaminati nella sentenza della Corte Cost. n. 303 del 2011 e giudicati infondati. Né il ricorrente prospetta questioni o aspetti nuovi, non trattati nella citata pronuncia.
Il secondo motivo di ricorso è fondato e deve trovare accoglimento.
Ritiene infatti la Corte di dare continuità alla consolidata giurisprudenza di legittimità (cfr. da ultimo, Cass. n. 13799 del 2023) secondo la quale in caso di riforma, totale o parziale, della sentenza di condanna del datore di lavoro al pagamento di somme in favore del lavoratore, il datore di lavoro ha diritto a ripetere quanto il lavoratore abbia effettivamente percepito e non può pretendere la restituzione di importi al lordo di ritenute fiscali mai entrate nella sfera patrimoniale del dipendente; il caso del venir meno, con effetto ex tunc, dell’obbligo fiscale a seguito della riforma della sentenza da cui esso era sorto ricade, infatti, nel raggio di applicazione dell’art. 38, comma 1, d.P.R, n. 602 del 1973, secondo cui il diritto al rimborso fiscale nei confronti dell’Amministrazione finanziaria spetta in via principale a colui che ha eseguito il versamento non solo nelle ipotesi di errore materiale e duplicazione, ma anche in quelle di inesistenza totale o parziale dell’obbligo (Cass. n. 13530 del 2019, Cass. 8614 del 2019, Cass. n.19735 del 2018, Cass. n. 1464 del 2012). E’ stato, in particolare, puntualizzato che nella ipotesi – qui ricorrente – nella quale il datore di lavoro, ai sensi
dell’art. 23 d.P.R. n. 600 del 1973, abbia operato la ritenuta d’acconto dell’imposta sui redditi delle persone fisiche su somme corrisposte al lavoratore, divenute, come nel caso di specie, non dovute in tutto o in parte per effetto della riforma della sentenza in forza delle quale le somme erano state erogate, ricorre l’ipotesi di inesistenza, totale o parziale, dell’obbligo fiscale, venuto meno secondo una fisiologica dinamica processuale, con effetto ex tunc (Cass. n. 990 del 2019, Cass. n. 19735 del 2018, Cass. n. 6072 del 2012, Cass. n. 8829 del 2007). In tal senso, del resto, Cass. n. 21699 del 2011 ha bene evidenziato che l’azione di restituzione e riduzione in pristino, che venga proposta a seguito della riforma o cassazione della sentenza contenente il titolo del pagamento, si collega ad un’esigenza di restaurazione della situazione patrimoniale anteriore a detta sentenza, con riferimento a prestazioni eseguite e ricevute nella comune consapevolezza della rescindibilità del titolo e della provvisorietà dei suoi effetti, e quindi giuridicamente di un pagamento non dovuto; legittimati a richiedere alla Amministrazione finanziaria il rimborso delle somme non dovute e ad impugnare l’eventuale rifiuto dinanzi al giudice tributario sono sia il soggetto che ha effettuato il versamento -cd. “sostituto di imposta”-, sia il percipiente delle somme assoggettate a ritenuta – cd. “sostituito” (cfr., tra le altre, Cass. n. 517 del 2019, Cass. n. 19735 /2018 cit., Cass. n. 16105 del 2015, Cass. n. 14911 del 2015, Cass.5653 del 2014);
E’ stato altresì puntualizzato che in caso di concreta inutilizzabilità da parte del datore di lavoro del rimedio previsto dall’art. 38, comma 1, d. P.R. n. 602 del 1973, per decorso del termine di presentazione dell’istanza di rimborso, ivi stabilito a pena di decadenza in quarantotto mesi dalla data del “versamento”, trova applicazione l’art. 21, comma 2, del d.lgs.
n. 546/ 1992, avente carattere residuale e di chiusura del sistema, secondo il quale l’istanza di rimborso può essere presentata entro due anni dal giorno in cui si è verificato il presupposto per la restituzione (Cass. n. 12919 del 2019, Cass. n. 82 del 2014); quanto ora osservato rende ininfluente, al fine dell’accoglimento della tesi della restituzione al lordo e non al netto delle ritenute fiscali, il riferimento alla possibilità per il sostituito di recuperare le ritenute fiscali, divenute non dovute, attraverso il meccanismo della deducibilità ex art. 10, comma 1, lettera d) bis, d. P.R n. 917 del 1986, configurandosi tale possibilità come non escludente la facoltà di diretto recupero da parte del datore di lavoro quale soggetto che ha effettuato il versamento (cfr. nello stesso senso Cass. n. 13530/2019; n. 33092/2021; n. 6673/2023; n. 12106/2023).
Anche il terzo motivo di ricorso è fondato. Come statuito da questa Corte, i crediti del datore di lavoro verso il lavoratore, anche quelli relativi alla restituzione di somme pagate a titolo di retribuzione in forza di sentenza di primo grado poi riformata in appello, non sono regolati dal disposto dell’art. 429, terzo comma, c.p.c., sul cumulo di rivalutazione ed interessi, riconosciuto solo in favore del lavoratore; né tale differente disciplina contrasta con il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione, come già accertato dalla Corte Costituzionale nelle sentenze n. 13 e n. 161 del 1977 (Cass. n. 7488 del 2000).
Accolti il secondo e il terzo motivo di ricorso, dichiarato inammissibile il primo, deve cassarsi la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti, con rinvio alla Corte d’appello di Lecce, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il secondo e il terzo motivo di ricorso, dichiara inammissibile il primo motivo, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia alla Corte d’appello di Lecce, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità. Così deciso nell’adunanza cameral e del 2 aprile 2025.