Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 15438 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 15438 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 03/06/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 12868/2023 r.g., proposto da
COGNOME NOME , elett. dom.ta in presso la Cancelleria di questa Corte, rappresentata e difesa dall’AVV_NOTAIO.
ricorrente
contro
RAGIONE_SOCIALE , in persona del legale rappresentante pro tempore , elett. dom.to in INDIRIZZO, rappresentato e difeso dagli AVV_NOTAIO.ti NOME AVV_NOTAIO e NOME AVV_NOTAIO.
contro
ricorrente
avverso la sentenza della Corte d’Appello di Bari n. 2156/2022 pubblicata in data 29/11/2022, n.r.g. 1321/2020.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del giorno 04/04/2024 dal AVV_NOTAIO NOME AVV_NOTAIO.
RILEVATO CHE
1.- NOME COGNOME era stata assunta da RAGIONE_SOCIALE con contratto di lavoro subordinato a tempo determinato stipulato in data 24/10/2000.
Con sentenza n. 6481 del 19/03/2009 il Tribunale di Bari aveva accolto la domanda, proposta dalla COGNOME, di accertamento della nullità del termine
OGGETTO:
pagamento eseguito invirtù di sentenza poi cassata domanda di restituzione regime giuridico -proponibilità anche in separato giudizio -giudicato – esclusione
finale apposto al contratto e di condanna della società alla sua riammissione in servizio e al pagamento delle retribuzioni medio tempore maturate.
In esecuzione di tale sentenza, in data 22/07/2009 RAGIONE_SOCIALE aveva riammesso in servizio la COGNOME e le aveva corrisposto la somma lorda di euro 147.035,04, comprensiva di accessori, a titolo di retribuzioni maturate dal 28/10/2002 al 21/07/2009.
2.Con sentenza n. 1172 del 20/02/2012 la Corte d’Appello di Bari, in parziale riforma della sentenza di primo grado, aveva condannato RAGIONE_SOCIALE a pagare l’indennità risarcitoria omnicomprensiva di cui all’art. 32 L. n. 183/2010 nella misura di sei mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.
Tale sentenza era stata cassata da questa Corte (con sentenza n. 2840/2014) per omessa pronunzia sulla questione preliminare, sollevata dalla società e riproposta in appello, relativa alla risoluzione del contratto di lavoro per mutuo consenso.
3.- Riassunto tempestivamente il giudizio da parte della lavoratrice con ricorso depositato in data 05/02/2015, con sentenza n. 762 del 23/03/2017 la Corte d’Appello di Bari, preso atto della mancata notifica del ricorso in riassunzione a RAGIONE_SOCIALE, aveva dichiarato l’improcedibilità del ricorso.
4.- Indi RAGIONE_SOCIALE adìva il Tribunale di Bari per ottenere dalla COGNOME la restituzione della somma di euro 147,035,04 pagata in esecuzione della sentenza di primo grado n. 6481/2009.
5.Espletata una consulenza tecnica d’ufficio di tipo contabile, con sentenza n. 2426 del 14/09/2020 il Tribunale, in parziale accoglimento della domanda restitutoria, condannava la COGNOME a restituire a RAGIONE_SOCIALE la somma netta di euro 106.713,00.
6.Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte d’Appello rigettava il gravame interposto dalla COGNOME.
Per quanto ancora rileva in questa sede, a sostegno della sua decisione la Corte territoriale affermava:
l’originaria sentenza di primo grado, che conteneva condanna di RAGIONE_SOCIALE al pagamento delle retribuzioni dalla scadenza del termine nullo fino alla riammissione in servizio, è stata caducata dalla
sentenza di secondo grado, con cui quella domanda di condanna è stata rigettata ed è stato applicato l’art. 32 L. n. 183/2010;
a quella riforma della sentenza di prime cure consegue che fin dalla data della pronunzia di secondo grado e indipendentemente dal suo passaggio in giudicato, la sentenza del Tribunale ha perduto effetto;
questa conseguenza era stata già affermata dalla Corte di Cassazione nel vigore del testo originario dell’art. 336, co. 2, c.p.c., che pure richiedeva il passaggio in giudicato della sentenza di riforma affinché gli effetti di questa fossero estesi ai provvedimenti ed agli atti dipendenti dalla sentenza riformata (Cass. n. 144/1983);
questo principio vale a maggior ragione dopo la modifica apportata all’art. 336, co. 2, c.p.c. dalla’rt. 48 L. n. 353/1990, che ha eliminato il collegamento fra l’effetto rescindente della sentenza di riforma ed il suo passaggio in giudicato (Cass. n. 13249/2014);
la parte interessata può anche agire in separato giudizio per ottenere la restituzione di quanto pagato in esecuzione della sentenza riformata, come riconosce la Corte di Cassazione (n. 29034/2022);
non sussiste alcuna violazione dell’art. 112 c.p.c., poiché il Tribunale, preso atto dell’effetto caducatorio ex art. 336, co. 2, c.p.c., ha accolto la domanda ai sensi dell’art. 2033 c.c. espressamente invocato da RAGIONE_SOCIALE;
peraltro, deve escludersi la violazione dell’art. 112 c.p.c. nella parte in cui il Tribunale ha ritenuto irrilevante lo stato soggettivo di buona o mala fede, atteso che non sono stati alterati gli elementi identificativi dell’azione ( petitum e causa petendi );
quegli stati soggettivi non rilevano, perché, come affermato dalla Corte di Cassazione, si tratta di prestazioni eseguite e ricevute nella comune consapevolezza della rescindibilità del titolo e della provvisorietà dei suoi effetti (Cass. ord. n. 28646/2021);
non sussiste violazione dell’art. 389 c.p.c., poiché il Tribunale ha richiamato l’ulteriore sviluppo processuale (ricorso per cassazione, cassazione della sentenza d’appello, rinvio concluso con sentenza di improcedibilità) al solo fine di verificare se, nelle more, la situazione
processuale alla base dell’azione restitutoria si fosse modificata oppure no;
alla declaratoria di improcedibilità ( rectius di estinzione) del giudizio di rinvio ha fatto seguito la perdita di efficacia della sentenza di primo grado (Cass. n. 1009/2017 e Cass. sez. un. n. 11844/2016);
accogliendo il ricorso di RAGIONE_SOCIALE, la Corte di Cassazione ha cassato integralmente la sentenza di secondo grado, a causa dell’omessa pronunzia sulla questione preliminare della risoluzione del rapporto di lavoro per mutuo consenso, e ha dichiarato assorbite le altre questioni relative alla nullità del termine e alle conseguenze risarcitorie, sicché nessun giudicato si è formato.
7.Avverso tale sentenza COGNOME ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi.
8.- RAGIONE_SOCIALE ha resistito con controricorso.
9.- La ricorrente ha depositato memoria.
10.- Il Collegio si è riservata la motivazione nei termini di legge.
CONSIDERATO CHE
1.- Con il primo motivo la ricorrente lamenta ‘violazione ed erronea applicazione’ degli artt. 276, co. 1, e 352 c.p.c., con conseguente nullità della sentenza di appello in sede di rinvio a causa del mutamento della composizione del collegio e della partecipazione alla decisione di appello in sede di rinvio dello stesso giudice monocratico di primo grado.
In particolare deduce che dal verbale di udienza del 21/11/2022 risulta che il collegio era composto da AVV_NOTAIOssa NOME COGNOME come Presidente, AVV_NOTAIOssa NOME COGNOME come AVV_NOTAIO rel. e AVV_NOTAIO NOME COGNOME come AVV_NOTAIO; invece dall’intestazione della sentenza si evince che il terzo componente era la AVV_NOTAIOssa NOME COGNOME, la quale era stata giudice monocratico del Tribunale che aveva deciso la controversia in primo grado e che pertanto, in quanto tale, non poteva comporre quel collegio.
Il motivo è infondato.
Questa Corte, nella sua più alta composizione ed in funzione nomofilattica, ha da tempo precisato che la sentenza, nella cui intestazione risulti il nominativo di un magistrato, non tenuto alla sottoscrizione, diverso da quello indicato nel verbale dell’udienza collegiale di discussione, deve
presumersi affetta da errore materiale, come tale emendabile con la procedura di correzione di cui agli artt. 287 e 288 c.p.c., considerato che detta intestazione è priva di autonoma efficacia probatoria, esaurendosi nella riproduzione dei dati del verbale d’udienza, e che, in difetto di elementi contrari, devono ritenersi coincidenti i magistrati indicati in tale verbale come componenti del collegio giudicante con quelli che in concreto hanno partecipato alla deliberazione della sentenza medesima (Cass. sez. un. n. 11853/1991). Inoltre, è onere del ricorrente allegare e dare prova degli ‘elementi contrari’ alla predetta presunzione (Cass. n. 12352/2009 ; Cass. n. 8136/2011; Cass. n. 2318/2016; Cass. n. 24951/2016).
Ne consegue che la nullità della sentenza deliberata da giudici diversi da quelli che hanno assistito alla discussione -che è insanabile e rilevabile d’ufficio ai sensi dell’art. 158 c.p.c. -può esser dichiarata solo quando vi sia la prova della non partecipazione al collegio deliberante di un giudice che aveva invece assistito alla discussione della causa; tale prova non può evincersi dalla sola omissione, nella intestazione della sentenza, del nominativo del giudice non tenuto alla sottoscrizione, quando esso sia stato invece riportato nel verbale dell’udienza di discussione, sia perché l’intestazione della sentenza non ha una sua autonoma efficacia probatoria, riproducendo i dati del verbale d’udienza, sia perché da quest’ultimo, facente fede fino a querela di falso dei nomi dei giudici componenti il collegio, nasce la presunzione della deliberazione della sentenza da parte degli stessi giudici che hanno partecipato all’udienza collegiale. Tale presunzione è ulteriormente avvalorata dalla circostanza per cui, ai sensi dall’art. 276 c.p.c., tra i compiti del presidente del collegio vi è quello di controllare che i giudici presenti nella camera di consiglio siano quelli risultanti dal verbale dell’udienza di discussione (Cass. n. 15879/2010).
Nel caso in esame, dunque, l’indicazione del nome della AVV_NOTAIOssa COGNOME nell’intestazione della sentenza d’appello è frutto di mero errore materiale, dovendo ritenersi che il collegio che ha deciso il gravame sia stato composto dai magistrati indicati nel verbale dell’udienza di discussione (AVV_NOTAIOssa NOME COGNOME come Presidente, AVV_NOTAIOssa NOME COGNOME come AVV_NOTAIO rel. e AVV_NOTAIO NOME COGNOME come AVV_NOTAIO), fra i quali non vi è la AVV_NOTAIOssa COGNOME.
2.Con il secondo motivo la ricorrente lamenta ‘violazione e falsa applicazione’ degli artt. 2033 c.c., 112 e 336 c.p.c.
In particolare articola tre censure:
la Corte territoriale avrebbe erroneamente ritenuto che con la sentenza di secondo grado n. 1172/2012 la Corte d’Appello avesse rigettato la domanda della lavoratrice, omettendo di rilevare che invece i giudici d’appello avevano confermato l’accoglimento della domanda, sicché sussiste l’errata applicazione dell’art. 336 c.p.c.;
la Corte territoriale avrebbe erroneamente applicato l’art. 2033 c.c.;
la Corte territoriale avrebbe male interpretato la sentenza della Corte di Cassazione n. 2840/2014, che aveva cassato con rinvio la sentenza d’appello n. 1172/2012.
Il motivo è infondato in relazione a tutte le censure.
Sub a), come riconosce la stessa ricorrente (v. ricorso per cassazione, p. 13), la Corte territoriale ha solo evidenziato che nella sentenza di secondo grado n. 1172/2012 era stata rigettata non l’intera domanda della lavoratrice, ma solo quella di condanna al pagamento delle retribuzioni medio tempore maturate. Ed infatti, come risulta anche dal dispositivo di quella sentenza del 2012, la sentenza di primo grado del 2009 era stata parzialmente riformata proprio in relazione a quel capo di condanna e i giudici d’appello avevano sostituito a quel capo quello diverso per natura e misura -di condanna al pagamento dell’indennità risarcitoria omnicomprensiva di sei mensilità.
Ne deriva che con riguardo a quel capo di condanna, pronunziata dal Tribunale, al pagamento delle retribuzioni medio tempore maturate la Corte territoriale ha esattamente applicato l’art. 336 c.p.c., perché quel capo era stato riformato dai giudici d’appello.
E’ certo esatto come sostiene la ricorrente -che quel capo era stato tuttavia sostituito da altro capo condannatorio (al pagamento dell’indennità risarcitoria omnicomprensiva di sei mensilità); ma è altresì vero che quella sentenza d’appello n. 1172/2012 è stata poi cassata da questa Corte di legittimità ed il giudizio di rinvio si è concluso con una sentenza di ‘improcedibilità’.
Dunque nel giudizio presupposto non è rimasto alcun capo condannatorio,
sicché esattamente la Corte territoriale ha condiviso la decisione del Tribunale di accoglimento della domanda restitutoria avanzata da RAGIONE_SOCIALE.
Sub b), contrariamente all’assunto della COGNOME, la Corte territoriale ha espressamente escluso l’applicabilità dell’art. 2033 c.c., richiamando in modo pertinente interi passi della motivazione espressa da questa Corte nell’ordinanza n. 28646/2021 (v. sentenza impugnata, p. 8).
Sub c) valgono le medesime considerazioni sopra svolte con riguardo alla censura sub a): l’estinzione del giudizio di rinvio a seguito della Cassazione della sentenza d’appello che ha riformato/sostituito il capo condannatorio della sentenza di primo grado -determina l’inesistenza di qualunque titolo giudiziale, come si ricava dall’art. 393 c.p.c., che prevede l’estinzione ‘dell’intero processo’ e non soltanto di quello di rinvio. Quindi in tale evenienza la sentenza di primo grado, anche se in parte confermata dalla sentenza d’appello poi cassata, giammai può conservare efficacia giuridica. Ciò in quanto la sentenza d’appello, nel capo condannatorio, si sostituisce come titolo esecutivo a quella di primo grado, che pertanto non esiste più nell’ordinamento giuridico. Pertanto la successiva cassazione della sentenza d’appello non può determinare la reviviscenza di quella di primo grado.
Al riguardo questa Corte ha già affermato che nell’ipotesi di esecuzione fondata su titolo esecutivo costituito da una sentenza di primo grado, la riforma in appello di tale sentenza determina il venir meno del titolo esecutivo, atteso che l’appello ha carattere sostitutivo e pertanto la sentenza di secondo grado è destinata a prendere il posto della sentenza di primo grado; tuttavia, nell’ipotesi in cui la sentenza d’appello sia a sua volta cassata con rinvio, non si ha una reviviscenza della sentenza di primo grado, posto che la sentenza del giudice di rinvio non si sostituisce ad altra precedente pronuncia, riformandola o modificandola, ma statuisce direttamente sulle domande delle parti, con la conseguenza che non sarà mai più possibile procedere in executivis sulla base della sentenza di primo grado (riformata della sentenza d’appello poi cassata con rinvio), potendo una nuova esecuzione fondarsi soltanto, eventualmente, sulla sentenza del giudice di
rinvio (Cass. n. 16934/2013).
3.Con il terzo motivo la ricorrente lamenta ‘violazione e falsa applicazione’ dell’art. 389 c.p.c. per avere la Corte territoriale erroneamente riconosciuto esistente il diritto di RAGIONE_SOCIALE alla restituzione di quanto versato, invece inesistente in considerazione della persistente efficacia della sentenza di primo grado in virtù delle censure oggetto del secondo motivo.
Il motivo è infondato in conseguenza dell’infondatezza del secondo.
4.Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente a rimborsare alla controricorrente le spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in euro 6.000,00, oltre euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso forfettario delle spese generali e accessori di legge.
Dà atto che sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115/2002 pari a quello per il ricorso a norma dell’art. 13, co. 1 bis, d.P.R. cit., se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione lavoro, in